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La pirateria audiovisiva non si ferma e diventa sempre più digitale

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carlo lavalle

Il nuovo pirata è digitale, maschio, lavoratore autonomo e istruito e 2 italiani su 5 piratano film, serie o programmi tv, secondo la nuova indagine Fapav/Ipsos

Quattro adulti su dieci in Italia guardano illegalmente film, serie tv e programmi di intrattenimento, con un danno complessivo all’economia italiana di 1,2 miliardi di euro e 6.540 posti di lavoro persi. È quanto emerge dalla nuova indagine sulla pirateria audiovisiva realizzata da Ipsos per conto della Fapav (Federazione per la Tutela dei Contenuti Audiovisivi e Multimediali).

PIRATI 2.0
Il consumo illecito, secondo i risultati della ricerca, è diventato una consuetudine praticata a livello di massa in uno scenario in continuo mutamento. Su un campione rappresentativo di oltre 1400 persone intervistate (di persona e online) da 15 anni in su, il 39 per cento ha usufruito almeno una volta nel 2016 di un contenuto piratato. La percentuale sale fino al 51 per cento tra i 10-14enni (un ragazzo su 2), sui quali Ipsos ha, per la prima volta, voluto puntare i riflettori per approfondire l’analisi anche in una fascia di età di giovanissimi.

La pirateria, insomma, tende a radicarsi allargandosi (in tutto sono circa 669 milioni i titoli piratati nel 2016, principalmente film), e soprattutto è in forte aumento quella digitale che registra un incremento del 78 per cento rispetto al 2010 con un trend continuamente in crescita negli ultimi sei anni. Gli utenti, quindi, sono ormai pirati in versione 2.0, ricorrendo sempre più a download e streaming illegale su Internet e sempre meno all’acquisto di Dvd/Blue Ray contraffatti (pirateria fisica) e alla visione di copie prestate da altri (pirateria indiretta).

Relativamente ai contenuti, invece, i film restano i più richiesti (33 per cento) ma meno del passato (-4 per cento dal 2010), mentre serie e programmi tv, compreso lo sport, sono sempre più ambiti dai pirati con un balzo, rispettivamente dal 13 al 22 per cento, e dall’11 al 19 per cento in confronto al 2010.

IL VERO IDENTIKIT
Quanto al profilo socio-demografico, l’indagine Ipsos, illustrata direttamente dal presidente Nando Pagnoncelli, descrive aspetti di novità interessanti. Contrariamente ai luoghi comuni che lo vorrebbero meno abbiente e perciò incline al mercato illegale, il pirata italiano è in genere un uomo (55 per cento dei casi), sotto i 45 anni, lavoratore (54 per cento), che, più spesso della popolazione media italiana, ricopre posizioni direttive e autonome con un titolo di studio mediamente più elevato (62 per cento diplomati).

PERCEZIONE DEL DANNO
La pirateria è un reato e ne sono consapevoli gli utenti che scaricano o guardano illegalmente film e serie tv. Ma solo 1 pirata adulto su 4 (e 1 su 5 tra i più giovani) pensa che piratare possa essere considerato un comportamento grave.

Da un lato, chi realizza questo atto illecito ritiene che i danni siano limitati, astrattamente, all’industria del settore audiovisivo e non si possano estendere alle persone comuni, contro la valutazione dell’Ipsos che stima notevoli conseguenze economiche e occupazionali (1,2 miliardi di euro di perdita di fatturato di tutti i settori, 198 milioni di euro di mancati introiti fiscali e 6540 posti di lavoro a rischio, come se ogni anno chiudessero 1500 aziende operanti in Italia).

Dall’altro, come ha sottolineato Pagnoncelli, prevale un atteggiamento di auto-indulgenza tra i pirati, unitamente a una previsione di impunità : solo la metà degli intervistati crede, infatti, probabile che possa essere scoperto e punito. Sotto questo aspetto, Giampaolo Letta, vice presidente e amministratore delegato di Medusa, presente alla tavola rotonda, ha prospettato la possibilità di introdurre sanzioni contro il consumatore disonesto.

L’idea è che, data la sempre maggiore difficoltà a individuare e colpire i promotori del business della pirateria, - i quali, come ha messo in evidenza il Segretario della Fapav nella sua introduzione, si sono evoluti utilizzando server transfrontalieri e conti offshore per occultare attività e profitti - non resta che agire dal basso provando a punire l’utente finale.

UN PROBLEMA CULTURALE
Più orientato a una soluzione basata su un’azione culturale, è l’approccio di Paolo Genovese, regista e sceneggiatore. Il pirata ruba, è un ladro che si appropria di guadagni altrui, e va sanzionato certamente. Ma, questo è il suo ragionamento, «si fa fatica a spiegare ai propri figli che la pirateria è illegale, quando i siti dove si guardano e scaricano contenuti illeciti sono facilmente reperibili, a portata di chiunque, anche senza grandi competenze tecniche, e la loro interfaccia ha, per giunta, una parvenza di legalità?».

Davanti al fenomeno della pirateria, che non viene scalfita neanche dall’avvento di piattaforme digitali che hanno ampliato e diversificato l’offerta legale, c’è, a suo parere, da riflettere sull’aspetto culturale. Nelle scuole, soprattutto, bisogna educare i giovani a guardare i film nelle sale che sono la sede naturale della fruizione del cinema. «Il cinema visto da un computer e da uno schermo del cellulare – commenta con una punta di amarezza Paolo Genovese - è la cosa che più rattrista».

Giappone, il Parlamento dà l’ok: l’imperatore potrà abdicare. È la prima volta in duecento anni

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L'imperatore Akihito

Il parlamento del Giappone ha approvato la proposta di legge che consentirà all’attuale imperatore Akihito di abdicare. Il voto odierno della Camera dei consiglieri segue il via libera della Camera dei rappresentanti della scorsa settimana. La legge è stata formulata nello specifico per l’attuale sovrano: si tratta della prima volta in 200 anni che un imperatore rinuncia al trono.

Lo scorso agosto - nel corso di un messaggio televisivo - l’imperatore 83enne aveva espresso la volontà di poter abdicare, pur senza fare riferimenti diretti, a causa delle difficoltà a condurre gli impegni di stato per via dell’età avanzata. La legge formulata indica il passaggio dei poteri al principe Naruhito, figlio primogenito e primo in linea di successione al Trono del crisantemo. Il governo di Tokyo determinerà le scadenze per il processo di abdicazione, in un periodo compreso nei prossimi tre anni. 

"Cerco un marito intelligente", l'annuncio matematico è geniale

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Marta Proietti - Gio, 08/06/2017 - 12:13

Per ottenere il numero di telefono della ragazza è necessario risolvere una complicata equazione



"Ciao. Cerco unragazzo intelligente che possa essere il mio futuro marito".

A prima vista potrebbe sembrare un annuncio come tanti altri, con l'unica differenza che l'uomo in questione deve essere intelligente e non solo bello e buono. Una ragazza ha trovato un modo a dir poco geniale per trovare un compagno. "Cerco un ragazzo intelligente che possa essere il mio futuro marito. Questo è il mio numero": questa la scritta stampata su un volantino, corredata da un'equazione (tutt'altro che semplice) da dover risolvere per ottenere l'agognato numero di telefono.

Un metodo praticamente infallibile per effettuare una scrematura qualitativa. L'immagine, condivisa su Facebook da Selvaggia Lucarelli, ha subito fatto il giro dei social, raccogliendo complimenti e sorrisi da parte di tutti gli utenti del web, compresi quelli della nota blogger.

Se avete la soluzione passatemela sotto al banco che la chiamo per dirle "Sei 'na grande".

Parole, parole, parole

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mattia feltri

Quello che resta dopo la giornata esoterica di giovedì è un cumulo di parole, con un’etimologia che non corrisponde al significato, né per chi le pronuncia né per chi le riceve. Schifo, bugiardi, traditori, codardi, vigliacchi, burattini, epiteti così, che volano in Parlamento da un settore all’altro come mosche in un pomeriggio estivo. Vergogna è la parola più pronunciata in politica, 910 volte nell’ultimo anno (ricerca in Ansa), quasi tre volte al giorno, Natale e Pasqua compresi, e senza contare vergognati e vergognatevi. Un’esortazione collettiva e vicendevole a vergognarsi, farlo di continuo, a turnazione, e cioè niente più che un fastidioso sottofondo. Ci si scambiano qualifiche di assassini, mafiosi, criminali, fascisti, con la noncuranza di uno sbadiglio, e nessuna considerazione ha un calibro o una conseguenza. 

Nel 1898, il deputato Felice Cavallotti accusò di menzogna il giornalista Ferruccio Macola, e ne scaturì un duello da cui Cavallotti non uscì vivo. Se si applicassero quelle categorie a oggi, in Parlamento sarebbero rimasti forse in quindici. Non succede più perché il duello è stato abolito, e l’offesa pure. Nessuno si offende dal momento che le parole hanno perso la portata semantica, non vogliono dire più niente, si usano a caso, escono dalla bocca simili a eruttazioni. Se non si sanno più usare le parole, figuriamoci se le si sanno incastrare per esprimere pensieri, forse nemmeno mai formulati; e dunque, se la parola non ha più un peso, che peso può avere la parola data?

Wonder Woman vietata nei cinema libanesi: è ebrea

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fulvia caprara

L’ultima decisione del Ministero dell’Economia e del Commercio del Libano che promuove da tempo il boicottaggio dei prodotti israeliani



Sembra che le copie pirata siano già in vendita, ma il divieto è ormai ufficiale, e non si torna indietro. Le avventure di «Wonder Woman» non potranno essere proiettate sugli schermi dei cinema libanesi. Il motivo della censura, annunciata sull’account Twitter di «Lebanon’s Grand Cinemas», è tutto nel nome della protagonista, Gal Gadot, cittadina israeliana che, per due anni, ha prestato servizio nell’esercito del suo Paese. 

A richiedere il provvedimento è stato, qualche giorno fa, il Ministero dell’Economia e del Commercio del Libano che promuove da tempo il boicottaggio dei prodotti israeliani considerandoli «tentativi nemici di infiltrazioni nei nostri mercati». La manovra era stata promossa anche in coincidenza con l’uscita di «Batman V Superman: Dawn of Justice», in cui Gadot debuttava nei panni della Principessa delle Amazzoni Diana, figlia della Regina Hyppolita, destinata a salvare il mondo degli uomini da Ares, Dio della guerra.

Stavolta l’impresa è andata in porto, i gruppi che sostengono il boicottaggio ricordano che nel 2014, durante il conflitto tra Isreale e Hamas, l’attrice aveva pubblicato su Instagram una foto di lei e della figlia seguita da un messaggio di solidarietà «ai ragazzi e alle ragazze che stanno rischiando la vita per proteggere la nazione dagli attacchi orrendi di Hamas, i cui miliziani si nascondono come vigliacchi dietro donne e bambini». 

Uguale provvedimento è stato preso in Tunisia, dove il tribunale ha deciso di bloccare la programmazione della pellicola facendo sapere, come spiega l’agenzia Dpa, che la denuncia ha la firma del partito nazionalista «Movimento del Popolo». Un atto di protesta contro la protagonista. Secondo questa formazione Gadot potrebbe aver partecipato, quando era soldatessa, a operazioni militari contro i palestinesi nella Striscia di Gaza. 

Ex-Miss Israele ed ex-top-model, moglie dell’uomo d’affari Yaron Versano, madre di Alma, 5 anni, e di May, nata alla fine di marzo, Gadot, 32 anni, nata a Rosh HaAyin, ha portato sullo schermo personaggi femminili forti e combattivi, non solo nel caso di «Wonder Woman». Il suo impegno aveva convinto i membri dell’Onu a conferirle il ruolo di ambasciatrice onoraria, meritevole di «aver diffuso un messaggio di auto-affermazione rivolto alle donne e alle ragazze di ogni Paese».

La nomina, però, è stata presto revocata perchè qualcuno ha giudicato Gadot troppo sensuale, insomma non adatta per la parte di icona Onu. Lei ci è rimasta male, e non ne ha fatto mistero nelle tante interviste rilasciate per il lancio della sua ultima fatica. La censura libanese e quella tunisina sono altri incidenti di percorso nella carriera della super-eroina del film diretto da Patty Jenkins. Ma basta guardarla sullo schermo, tra corazze, scudi e bracciali, per capire subito che Gal Gadot è una tempesta di energia. Ed è inutile tentare di fermarla.

Don Bosco e gli altri: dalle reliquie rubate alla vendita su Ebay

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andrea tornielli

Che cosa spinge a rubare una reliquia difficilmente rivendibile? Il furto del cervello del fondatore dei salesiani e il caso del mento di sant’Antonio da Padova. Intanto fiorisce il piccolo commercio online con tanto di listino prezzi



In attesa di notizie dagli inquirenti che indagano sul furto del reliquiario contenente parte del cervello del grande santo piemontese don Giovanni Bosco, avvenuto la sera del 2 giugno nella basilica di Castelnuovo, la comunità salesiana e i fedeli pregano perché venga restituita. La domanda che serpeggia, più che sul chi è stato, è sul perché. Perché rubare il pezzo di un corpo di una persona morta 130 anni fa? Nessuna ipotesi è stata inizialmente scartata, da quella della bravata a quella del furto su commissione e persino quella della pista satanica. Certo, è difficile immaginare che chi compie atti del genere abbia fede o conosca almeno il detto «scherza coi fanti e lascia stare i santi». 

Il mento del Santo
A Padova è conosciuto come «Il Santo», per antonomasia, ed è sant’Antonio, originario di Lisbona, grande predicatore francescano che nella città veneta concluse. Era il tardo pomeriggio del 10 ottobre 1991 quando un commando di tre uomini incappucciati ed armati entrò nella Basilica del Santo e dopo aver immobilizzato una guardia insieme ad alcuni attoniti fedeli trafugò il reliquiario che conteneva il mento di sant’Antonio. La preziosa reliquia venne fatta ritrovare dai ladri 71 giorni dopo. Furto per traffico di reliquie? No. Sette sataniche o interessi occulti? No. Un cadeaux per qualche ricco e patologico “reliquiofiloˮ? Nemmeno. Il mento del Santo era stato trafugato come arma di ricatto, per chiedere una sorta di scambio.

Gli autori erano membri della “Mala del Brentaˮ, il mandante il boss Felice Maniero, detto “faccia d’angeloˮ, il quale aveva ordinato l’operazione con l’intenzione di costringere lo Stato a scendere a patti e ottenere la liberazione del cugino Giulio Rampin, in prigione per fatti di droga, insieme alla revoca della sorveglianza speciale per lui stesso. In effetti Rampin uscì di prigione e a Maniero vennero accordati dei permessi lavorativi ma non la revoca della sorveglianza speciale. Un mistero avvolse anche il ritrovamento, ufficialmente annunciato nei pressi dell’aeroporto di Fiumicino ma in realtà avvenuto alle porte della città veneta.

Il vero obiettivo era la lingua
Maniero confiderà in una intervista che il vero obiettivo del furto era la lingua del Santo. I tre esecutori avevano erroneamente pensato che la lingua del grande frate predicatore fosse dove doveva naturalmente trovarsi, e cioè dentro il mento. Invece era conservata in un altro reliquiario e fu salva. In un’intervista pubblicata nel 2011 sul Messaggero di Sant’Antonio, rilasciata per «riparare, anche solo per la miliardesima parte, al dispiacere che ho provocato ai fedeli», il boss Maniero ricordava di aver «ordinato di prendere la Lingua di sant’Antonio, molto più sostanziale per lo scambio. Invece, quegli zucconi mi arrivarono con il mento. A loro non dissi nulla. Dentro di me, però, feci questo pensiero: per prendere la reliquia sbagliata, di sicuro devono aver ritenuto, come tutti noi, che la lingua fosse dentro la bocca. Negli intenti, e poi nei fatti, quell’azione ebbe il risalto e l’eco voluti».

Reliquie in disuso?
Nel febbraio 2001, sul mensile Jesus, lo scrittore Vittorio Messori affermava che sulle reliquie sembrava essere sceso «una sorta di silenzio imbarazzante, se non di rifiuto, quasi si trattasse di superstizione o, almeno, di un aspetto di anacronistica religiosità popolare». In effetti, per frenare gli innegabili abusi, talvolta eclatanti, in questa materia, si è arrivati, come spesso capita, al rischio opposto: minimizzare il culto dei santi e guardare alle reliquie come retaggio di epoche passate, un po’ sconveniente. Il culto delle reliquie sancito dai concili, rimane in vigore. Nella costituzione liturgica “Sacrosanctum Conciliumˮ del Vaticano II si legge: «La Chiesa, secondo la sua tradizione, venera i santi e tiene in onore le loro reliquie autentiche e le loro immagini».

Da sottolineare in particolare l’aggettivo “autenticheˮ. Rimane poi ancora in vigore la tradizione, iniziata nel IX secolo nella Chiesa latina, di incastonare una reliquia all’interno di ogni nuovo altare che viene consacrato. La parola reliquia deriva dal latino (reliquiae) e sta a letteralmente a significare “avanziˮ, “restiˮ ma poi assume il senso di “resti di una persona mortaˮ. In ambito cristiano, fin dal IV secolo, il termine è utilizzato non soltanto per definire i resti del corpo di un santo o di un martire, ma anche per gli abiti o altri oggetti che fossero stati a contatto con la tomba di un martire, oltre agli strumenti eventualmente utilizzati per la sua uccisione.

Luoghi comuni e verità
Tra le reliquie considerate più preziose c’è ovviamente la croce di Gesù. Sant’Elena, la madre dell’imperatore Costantino, la ritrovò in una specie di cisterna sotterranea oggi visitabile nei pressi del Golgota, all’interno della Basilica del Santo Sepolcro. Frammenti della Santa Croce si trovano in tantissime chiese. Già nel 1543 Calvino nel suo “Traité des Reliquesˮ scriveva che «Non c’è abbazia così povera da non averne un esemplare… In breve se tutti i pezzi ritrovati fossero raccolti, formerebbero un grande carico di nave». Il teologo protestante però aveva torto. La croce di Gesù, considerando il palo verticale già conficcato nel luogo dell’esecuzione (stipes, alto circa tre metri) e quello orizzontale che il condannato portava sulle spalle (patibolum, lungo circa 1,80) si ottengono all’incirca 36mila centimetri cubi di legno. Mettendo insieme tutte le reliquie della Santa Croce che sono conosciute si arriva a meno di 2.000 centimetri cubi. Ben diverso è il caso dei chiodi recuperati da Elena, secondo la tradizione.

Difficile immaginare che fossero più di quattro ma nel mondo se ne venerano almeno 33 (18 dei quali in Italia). Un inganno? Forse. Ci sono però antiche cronache nelle quali si legge che spesso si limava una parte del chiodo ritenuto autentico per incorporare un po’ di polvere di ferro in un nuovo chiodo. Elevato anche il numero delle spine della corona posta sul capo di Gesù, come raccontano i Vangeli. Uno studio recente, del 2012, le ha censite una ad una arrivando a contarne la bellezza di 2.283, poco meno della metà conservate in Italia. Troppe? Può darsi. Di certo c’è che, anche a giudicare dall’immagine dell’Uomo sindonico, quella che siamo abituati a considerare una corona, cioè una fascia che corre attorno al capo ma non lo copre interamente, doveva essere in realtà una specie di casco, ottenuto intrecciando i rami della pianta Zizyphus vulgaris o Zizyphus jujuba, un rovo mediorientale con spine lunghe fino a 7 centimetri.

La “reliquiaˮ delle reliquie
La Chiesa non si è mai pronunciata sulla sua autenticità, ma la custodisce e la venera con solenni ostensioni alle quali hanno partecipato anche i Papi. Parliamo della Sindone di Torino, che un discusso esame al radiocarbonio ha datato al Medio Evo ma che altre evidenze scientifiche e storiche portano invece a ritenere probabilmente il lenzuolo funebre di Gesù. A usare quella parola senza remore fu Giovanni Paolo II, anche lui oggi santo, con reliquie sparse nel mondo, basti pensare alle ampolline con il suo sangue raccolte dal suo segretario Stanislaw Dziwisz. Viaggiando verso il Madagascar, rispondendo a una domanda del vaticanista Orazio Petrosillo, grande studioso della Sindone, Papa Wojtyla disse: «Se si tratta della reliquia, io penso che lo è. Se tanti lo pensano, non sono senza fondamento le loro convinzioni del vedere in essa l’impronta del corpo di Cristo».

Il 2 maggio 2010, durante la visita a Torino e alla Sindone, Benedetto XVI evitò accuratamente di usare il termine reliquia, preferendo sempre riferirsi al sacro lenzuolo come a un’icona. Ma meno di un anno dopo, in occasione della pubblicazione del secondo volume su “Gesù di Nazaretˮ lo stesso Pontefice usò quella parola osservando: «Inoltre è importante la notizia secondo cui Giuseppe comprò un lenzuolo in cui avvolse il defunto. Mentre i sinottici parlano semplicemente di un lenzuolo al singolare, Giovanni usa il plurale “teli” di lino (cfr 19,40) secondo l’usanza giudaica nelle sepolture – il racconto della risurrezione ritorna su questo ancora più dettagliatamente. La questione circa la concordanza con la Sindone di Torino non deve qui occuparci; in ogni caso, l’aspetto di tale reliquia è in linea di massima conciliabile con ambedue i rapporti». 

Abusi e web
Per comprendere come non sempre vi sia stata adeguata attenzione e accuratezza da parte dell’autorità ecclesiastica in merito alle reliquie basta citare lo scabroso caso del presunto prepuzio di Gesù, tagliato durante la circoncisione rituale. Ne esistono in circolazione almeno una decina di esemplari e l’esistenza di queste presunte reliquie è stata anche oggetto di dispute teologiche sulla possibilità che un pezzetto seppur minuscolo della carne di Cristo potesse essere rimasta sulla terra dopo la sua resurrezione. Quello che è certo è che per anni i cristiani hanno venerato le reliquie, ritenendo un dono preziosissimo poterne avere un frammento.

Oltre ai grandi reliquiari un tempo esposti nelle chiese e oggi talvolta confinati nei musei annessi o negli armadi, si sono diffusi migliaia di piccoli reliquiari da portare sempre con sé. Fondamentale, per il loro valore, il sigillo di ceralacca e possibilmente la dichiarazione di autenticità dell’autorità ecclesiastica. Culto del passato, dunque? Navigando sul web non si direbbe. Digitando la voce “reliquieˮ su Ebay, il sito di aste online, ci si rende conto di come il commercio sia piuttosto fiorente, con rivenditori specializzati e dunque altrettanto specializzati acquirenti. Il Codice di diritto canonico promulgato nel 1983 ne proibisce assolutamente la vendita. Ma i siti d’aste non sono tenuti a rispettarlo.

Listino prezzi, i più quotati
Scorrendo questi elenchi si fanno delle scoperte. Ad esempio ci si imbatte nella potenza di Padre Pio da Pietrelcina, un cui «vero originale capello» viene venduto alla bellezza di euro 500. Più economico ma pur sempre caro un pezzo della sciarpa del frate stimmatizzato del Gargano. Tanto per fare paragoni, su Ebay costa meno un (presunto) frammento della croce unito un frammento di pietra del Santo Sepolcro (280 euro). Con 200 euro si acquista una reliquia di santo Stefano, protomartire cristiano, mentre quotazioni alte hanno tutte le reliquie collegate o collegabili a sant’Antonio da Padova: 150 euro per un minuscolo frammento.

Decisamente più bassi i prezzi per i santi che portano aggregato un piccolo pezzetto di stoffa preso dagli abiti indossati dai santi: quello di santa Faustina Kowalska, alla quale era devotissimo Papa Wojtyla, costa 7 euro, mentre con 25,50 euro si possono avere ben 12 santino con altrettanti frammenti di stoffa presi da un sari di Madre Teresa di Calcutta. Solo 9 euro per un’immaginetta del vescovo martire Oscar Romero, assassinato in Salvador mentre celebrava la messa. E don Bosco, il grande santo salesiano del quale polizia e carabinieri cercando il frammento di cervello trafugato? Su Ebay ci son prezzi modici: un piccolo reliquiario dei primi del Novecento realizzato con del cordoncino rosso contenente un frammento della tonaca viene via per 10 euro.

Fermato con l’accusa di apologia del terrorismo, 24enne kosovaro dovrà tornare libero

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federico gervasoni

Arrestato nel Bresciano e poi rimpatriato. Il Riesame: non può essere arrestato



Gafurr Dibrani deve restare libero. È questa la decisione del Riesame che prevede la scarcerazione del 24 enne kosovaro arrestato lo scorso 3 novembre a Fiesse nel Bresciano. Il giovane era stato fermato con l’accusa di apologia di terrorismo, dopo essere stato scoperto a condividere in rete video inneggianti al Califfato. Dibrani dopo due settimane di carcere a Brescia era stato poi espulso su provvedimento del ministero dell’interno e rimpatriato in Kosovo. 

Decisione tuttavia non condivisa dagli ermellini della Cassazione che avevano fatto ricorso, senza però riuscire a ribaltare il Riesame. Secondo i giudici i video jihadisti del kosovaro sarebbero troppo brevi per rappresentare una significativa adesione all’Isis. Opinione completamente diversa quella rilasciata dagli investigatori che avevano condotto il suo arresto. Dibrani stando alle loro dichiarazioni si voleva unire ai combattenti dello Stato Islamico. In passato aveva infatti instaurato una corrispondenza con Anas El Abboubi, foreign fighter di Vobarno, sempre nel Bresciano, partito per la Siria nel 2014 dopo alcune settimane di carcere e probabilmente morto. 

Messaggi di solidarietà anche a Resim Kastrati, 23 enne di Cremona, espulso nel 2015 dopo aver esultato in rete a seguito della strage di Charlie Hebdo. Nato a Pristina nel 1992, il 24 enne kosovaro, residente in Italia dal 2005, aveva addirittura coinvolto il figlioletto di due anni, immortalandolo vestito da mujahideen. Da tempo gli uomini della Digos avevano inoltre iniziato a monitorare la sua attività, dopo l’avvio di un veloce e preoccupante percorso di radicalizzazione. 

Trump prepara la svolta anche con Cuba: il 16 giugno l’annuncio del passo indietro

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Il presidente Usa Donald Trump si prepara a ufficializzare la svolta nella posizione degli Stati Uniti nei confronti di Cuba. Trump, ha appreso il Miami Herald da fonti vicine al presidente, sarà a Miami venerdì prossimo per annunciare la nuova linea della sua amministrazione nei confronti dell’Avana.
La decisione di presentare a Miami la marcia indietro Usa sull’apertura decisa da Barack Obama è significativa data la presenza di molti esuli il cui sostegno alle elezioni di novembre è stato determinante per la vittoria in Florida e alla Casa Bianca. 

Per la visita del Papa al Quirinale l’esordio del primo corazziere nero

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Particolare coincidenza questa mattina al Quirinale in occasione della visita di papa Francesco. Ha fatto il suo esordio nel servizio d’onore al palazzo il primo corazziere di colore, un giovane di origini brasiliane nato in Italia. Nel reparto da due anni, nei giorni scorsi aveva prestato servizio in occasione della presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alle celebrazioni per l’anniversario di fondazione dell’Arma dei Carabinieri. Oggi invece il corazziere si trovava nell’imponente scalone che porta al Salone dove il Capo dello Stato e il Papa hanno tenuto i loro discorsi.

Ladri di cipolle scatenati e i contadini di Breme organizzano le ronde

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simona marchetti

La rabbia del presidio pavese Slow Food. “Manca poco al raccolto, rischiamo gravi danni”


Luca Righetti (a destra) con alcuni familiari e colleghi nei campi accanto al fiume Po

Preziosa, così preziosa da essere presidiata con ronde notturne nei campi, per proteggerla dai furti: è la cipolla rossa di Breme, coltivata nelle campagne a ridosso del piccolo centro in provincia di Pavia sorto intorno a un’abbazia benedettina costruita nel X secolo vicino alle sponde del Po. 
Proprio la sua posizione geografica ha consentito a questo ortaggio, presidio di Slow Food, di diventare un pezzo pregiato del made in Italy gastronomico: «Crescono soltanto in una sottile lingua di sabbia - spiega Luca Righetti, agricoltore che si è dedicato a questa coltivazione -. Si tratta di un’area golenale, da cui si è ritirato il corso del fiume». 

Centinaia di euro
In zona il prezzo è di due euro al chilo. Bastano cinquanta chili di cipolle per raggiungere la somma di cento euro: un guadagno facile, che attrae i malintenzionati specialmente durante le ore notturne. Per questo i coltivatori, che sono circa una ventina con appezzamenti spesso piccolissimi, si sono organizzati spontaneamente per presidiare i campi.

Il momento più «caldo» è proprio questo, all’inizio di giugno. «In questo periodo il prodotto è ancora nei campi - aggiunge Righetti -. Lo raccogliamo a fine mese, ma fa gola a tanti. Ci sono privati che se ne portano via qualche chilo e ladri più organizzati che arrivano di notte con i sacchi. Un paio d’anni fa me ne hanno rubati circa cinque quintali, sui duecento circa che produco ogni anno. Questo significa un danno da mille euro». 

In tutta l’area se ne coltivano non più di 1.500 quintali: «È un quantitativo che purtroppo diminuisce anno dopo anno a causa dei cambiamenti climatici e delle malattie». Anche le rese sono in calo, perché i metodi di produzione sono quelli originali: la filiera di coltivazione non prevede utilizzo di mezzi meccanici. La sarchiatura viene fatta a mano o con il motocoltivatore, per mantenere il terreno libero dalle infestanti. Il seme viene prodotto in proprio, ricavandolo dalle migliori cipolle raccolte a fine giugno. 

Un lavoro duro, da tutelare anche rubando qualche ora al riposo notturno. «A una certa ora della sera usciamo di casa, saliamo in auto e cominciamo a girare - conclude Righetti -. Ci muoviamo tutti insieme o a piccoli gruppi. Ci fermiamo nelle vicinanze dei terreni, e restiamo lì, per vedere se spuntano dei fari. Qualche volta, lo confesso, ci è capitato anche di addormentarci in mezzo ai campi».

La “dolce morte” di cani e gatti costa troppo? Veterinari contrari al prezzo politico

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REUTERS

Anche gli animali hanno diritto a un fine vita dignitoso. Ma quanto costa accompagnarli all’eutanasia in caso di malattia grave e inguaribile? A sollevare il caso nei giorni scorsi è stata l’onorevole del Pd Ileana Argentin. Raccontando sul web la triste esperienza vissuta con il suo cane Ettore, l’esponente dem ha segnalato il problema dell’onorario pagato per la prestazione («ben 200 euro»), invitando i veterinari, «nel rispetto del proprio lavoro e del pagamento che per esso va effettuato», a valutare «un prezzo diverso a seconda del peso delle tasche di chi si trovano davanti». Sul tema interviene l’Associazione nazionale medici veterinari italiani (Anmvi), contraria a fissare «prezzi `politici» per una pratica certamente giustificabile in situazioni senza alternativa terapeutica, ma che bisogna fare attenzione a «non incoraggiare o deresponsabilizzare». 

«La libertà di scelta per morire, a meno che non si abbiano i soldi, non esiste in Italia per gli uomini e posso dire anche per gli animali», osservava Argentin riflettendo sull’esperienza di «cittadini comuni che», in caso di soppressione del loro amico a 4 zampe, «devono vivere un doppio livello di dolore: quello affettivo e quello economico». Uno sfogo «del tutto comprensibile», premette il presidente dell’Anmvi, Marco Melosi. «Con la dolce morte di Ettore a causa di un grave male - osserva il medico - la deputata ha vissuto la dolorosa esperienza dei proprietari che si trovano a compiere, come lei stessa scrive, `la scelta più difficile, quella di capire che l’animale non deve soffrire, esattamente come l’essere umano´». 

Melosi tiene a precisare che «nella circostanza eutanasica il medico veterinario non è un mero esecutore di sentenze, ma fa esperienza in prima persona di quanto accade, spesso sopportando un carico psico-emozionale molto pesante di cui non c’è una piena consapevolezza. Si tratta invece di uno dei maggiori fattori di sofferenza professionale della nostra categoria», assicura l’esperto. Da qui il no all’idea di imporre una tariffa: «L’eutanasia non va né incoraggiata né deresponsabilizzata - ammonisce il numero uno dell’Anmvi - L’eutanasia di un cane che è stato per anni un compagno di vita e un paziente in cura è una decisione fra le più complesse da assumere, che medico veterinario e proprietario devono condividere in tutte le sue fasi.

Se quella è davvero l’ultima strada, bisogna garantire al paziente animale tutti gli accorgimenti necessari a evitargli ogni sofferenza. Tutto questo purtroppo ha un costo, sia umano che economico, per questo è importante che il proprietario sia adeguatamente informato di ogni risvolto». 

E se aprissimo una Guantanamo europea?

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Una delle cose che fu più spesso rinfacciata a George Bush dopo la reazione contro gli attentati dell’11 settembre fu l’apertura del carcere di Guantanamo, nella base americana a Cuba, dove vennero rinchiusi senza processo, e talvolta in condizioni difficilmente accettabili in un Paese civile, centinaia di individui di varie nazionalità fortemente sospettati di fare parte di Al Qaeda ma contro cui era difficile istruire un regolare processo.

Uno dei cardini del programma di Obama, quando diede per la prima volta la scalata alla Casa Bianca nel 2008, era la chiusura di quella prigione, ma in otto anni di presidenza non è riuscito nell’intento. Guantanamo esiste e funziona ancora, sia pure con un numero di detenuti molto ridotto perché gli americani sono riusciti a “scaricarne” un buon numero sui Paesi di origine, dove molti avranno probabilmente ripreso la loro militanza terroristica.Sono rimasti un po’ di individui che nessuno vuole,non sono perseguibili in giudizio, ma restano pericolosi.

L’opposizione a Guantanamo in Europa è stata molto forte, anche in ambienti moderati e perfino di destra,ed è stata una delle cause della impopolarità di Bush: era considerata un’offesa allo stato di diritto, una plateale violazione dei diritti fondamentali dell’uomo.

Ma dopo quello che sta succedendo ora in Europa,c’è chi cominciato a ripensarci. Buona parte degli attentatori jihadisti, ultimi quelli della London Bridge, erano stati segnalati come estremisti, inclusi in una lista di soggetti pericolosi, ma crano sfuggiti a una condanna perché le prove della loro appartenenza alla filiera terroristica non erano sufficienti in base al nostro (troppo generoso) diritto o avevano avuto la fortuna di imbattersi in magistrati di manica particolarmente larga.

Clamoroso è il caso di Youssef Zagba, il giovani italo marocchino risultato essere il terzo attentatore di Londra. Fermato lo scorso anno all’aeroporto di Bologna perchè partiva quasi senza bagaglio con un biglietto di sola andata, non esitò a rispondere ai poliziotti “Vado a fare il terrorista”. A questo punto lo arrestarono, gli confiscarono computer e cellulare e gli perquisirono la casa, ma il magistrato di turno non ritenne che ci fossero prove sufficienti contro di lui e ne ordinò il rilascio SENZA NEPPURE LASCIARE AI PERITI IL TEMPO DI ESAMINARE I SUOI STRUMENTI ELETTRONICI.

A questo punto, la polizia non potè che rimetterlo in libertà, premurandosi peraltro, visti i legami con la Gran Bretagna, di segnalarlo a Scotland Yard e all’MI5 con nota dell’aprile 2016 (di cui, pare, non di trova più traccia). Ancora più scandaloso il caso del suo “capo”, il pakistano Kuhram Butt, che era stato più volte denunciato da altri cittadini come pericoloso integralista ed aveva addirittura spiegato una bandiera nera dell’ISIS a Regent Park: era sì, stato incluso nella famosa lista delle persone pericolose, ma, evidentemente, dopo nessuno di era più occupato di lui.

Il problema è che le liste di queste persone pericolose sono ormai, nei grandi Paesi europei, talmente piene di nomi da non servire praticamente a nulla. La polizia, per quanto motivata e potenziata, non ha né gli uomini né i mezzi per tenerli sotto sorveglianza e nella maggior parte dei casi proseguono le loro attività. Molti, magari, vanno “in sonno”, ma come si vede dalla crescente frequenza degli attentati, altri si preparano a diventare “martiri”. Non so dire perché, ma pare che non si possa neppure obbligarli a portare un braccialetto elettronico, che almeno permetterebbe di seguire i loro movimenti.

Come rimediare? Diciamocela tutta, con le leggi liberali attuali, anche inasprite come è avvenuto ultimamente in Francia e in Gran Bretagna, non ci possiamo far niente. Finchè non hanno commesso l’atto di terrorismo o sono pescati in flagrante mentre lo preparano, la maggioranza non sono processabili.Ultimamente l’Italia è ricorsa con maggior frequenza alla espulsione, peraltro non praticabile nel caso, molto frequente, in cui i sospetti siano cittadini europei, e che comunque può essere facilmente vanificato dagli interessati grazie e un barcone di profughi o con mezzi più comodi come è emerso proprio oggi da una indagine della Guardia di Finanza.

E’ a questo punto che si affaccia la domanda “PROIBITA”: non sarebbe il caso di prendere in considerazione, a livello europeo, un campo di detenzione in cui rinchiudere coloro che rappresentano al di là di ogni dubbio una minaccia, che domani potrebbero farsi saltare in uno stadio o altrove, e chefigurano da tempo sulle liste degli individui pericolosi. La sola idea susciterà la rivolta di milioni di persone che considerano le leggi sacre anche quando giocano a favore dei nemici e anche di coloro che ritengono che un campo del genere, simile a quelli creati in USA per i nippo-americani nel 1941, diventerebbe un focolaio di radicalizzazione ( con ospiti già radicalizzati.Hanno tutti le loo ragioni,che in parte condivido, ma io sono giunto a un grado di frustrazione tale di fronte al fallimento di molti servizi noti per la loro eccellenza che l’IDEA PROIBITA la butto là: vediamo che cosa ne pensano i nostri concittadini.

P.S.POche ore dopo avere postato questi blog, ni è venuta in soccorso, per così dire, Theresa May. “Se è necessario per sconfiggere il terrorismo, sono pronta a stracciare anche alcune leggi sui diritti umani”, cioè a detenere senza processo gli individui ritenuti veramente pericolosi e per cui non esistono prove sufficienti per una condanna giudiziaria. Detto dal PM della Gran Bretagna, considerata uno dei baluardi della democrazia, non è poco. Se noi non vogliamo mettere a disposizione l’Asinara o Procida, diventate nel frattempo parchi nazionali, il Regno Unito ha una quantità di isole che si presterebbero benissimo allo scopo

Totò

"I ladri arrestati sempre liberi: carabinieri frustrati dallo Stato"

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Claudio Cartaldo - Dom, 11/06/2017 - 17:03

Il j'accuse del comandante dell'Arma, Fabio Ottaviani: "In Italia si parla di elezioni, non dei problemi della gente. Io do voce ai miei carabinieri"

Nei giorni scorsi a Cosenza si è celebrato il 203esimo anniversario dalla fondazione dell'Arma dei Carabinieri.

Una cerimonia commovente, anche grazie ad uno straordinario discorso del Colonnello Fabio Ottaviani che ha emozionato i presenti e che ha fatto il giro del web. Conquistando condivisioni e migliaia di visualizzazioni.

Per prima cosa il colonnello ha focalizzato l'attenzione su un tema scottante di questi tempi, ovvero il ruolo delle forze dell'ordine nell'arresto di malviventi in flagranza di reato. Molte volte, infatti, banditi e rapinatori ammanettati dai carabinieri vengono immediatamente rimessi in libertà dal giudice di turno. Con tanti saluti agli sforzi delle divise. "La maggior parte dei nostri interventi - dice Ottaviani - si conclude con l'immediata rimessione in libertà dei soggetti e questa ha un effetto devastante nella percezione di sicurezza del cittadino. È devastante vedere la vittima che rimane in caserma con i carabinieri a compilare tonnellate di atti e il delinquente che se ne torna a casa"

 (guarda il video).

"Come può il cittadino fondare la sua fiducia nello stato" quando accade tutto questo? La domanda del colonnello è fondamentale. E merita una risposta. "Voi direte: perché un comandante provinciale alla festa dell'Arma affronta un argomento così spinoso? - continua Ottaviano - Il mio personale tutti i giorni conduce una battaglia, si espone in prima persona e queste cose producono frustrazione. Anche la polizia condivide il nostro stesso destino. E la frustrazione delle forze dell'ordine significa che poi, queste persone, si demotivano".

Semplice e diretto. Continua poi il comandante: "Permettetemi di sottopori quelle che sono le frustrazioni che condividiamo quotidianamente, perché lo devo ai miei carabinieri, perché io non sto in strada con loro, non richio con loro, ma io ho la forza di dare voce a loro. Per cui quello che vi dico se vogliamo vincere la battaglia dobbiamo riflettere si queste criticità, perché io nel dibattito politico nazionale non veo questi problemi. Ma vedo percentuali, liste, proporzionali tedeschi, inglesi, francesi. Non vedo i problemi della gente. Noi sulla strada parliamo con la gente, per cui la politica deve riscoprire il dialogo con le persone e capire veramente quali sono le esigenze dei cittadin.

Perché se da una parte noi vediamo i cittadini che urlano disperati e dall'altra quello che ci impone la legge, vediamo un evidente discrasia, siccome la sovranità appartiene al popolo in una democrazia".
"Singori - aggiunge il comandante - io non go una soluzione. La mia soluzione è quella di spingere i miei ufficiali, i miei carabinieri a dare comunque una risposta al cittadino. Per cui se inteveniamo, se ci sono i presupposti arrestiamo, poi se quel delinquente non può finire in galera per motivi tecnici, ci rammarichiamo ma questo è un rischio che dobbiamo tenere presente". L'importante è fare in modo che non prevalga la delinquenza. Perch*é - conclude Ottaviano - "se la legge della strada prevale sulla legge dello Stato, lo Stato è finito. Ma noi saremo sempre al fianco della gente".

Capuozzo: "L'esempio del giocatore saudita. Ribelle nella squadra avvilente"

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Claudio Cartaldo - Dom, 11/06/2017 - 22:37

Toni Capuozzo elogia l'unico calciatore dell'Arabia Saudita che ha rispettato il minuto di silenzio per le vittime dell'attentato di Manchester



Nei giorni scorsi aveva fatto scalpore l'oltraggio della nazionale di calcio dell'Arabia Saudita che durante la partita valevole per le qualificazioni mondiali si era rifiutata di rispettare il minuto di silenzio in in onore delle vittime dell'attentato di Londra. L'immagine dei calciatori sauditi disposti in ordine sparso mentre gli australiani erano tutti abbracciati a metà campo, ha indignato il mondo. Ma Toni Capuozzoha voluto rendere omaggio all'unico calciatore che ha avuto il coraggio di distinguersi dai suoi compagni.

Le parole di Capuozzo

"Visto il dibattito, qui, sul minuto di silenzio in omaggio alle vittime dell'attentato di Londra non rispettato dai sauditi ad Adelaide - ha scritto Capuozzo - prima dell'incontro Australia-Arabia Saudita, voglio precisare un dettaglio. In realtà il numero 7 della squadra saudita, Salman Al Faraj, il minuto di silenzio l'ha fatto. Statisticamente è poco, ma mi piace perchè sottolinea l'insopprimibile libertà dell'individuo, davanti a valori (in questo caso disvalori) collettivi, davanti ad abitudini, culture, connivenze di gruppo.

Fatte le debite proporzioni, sembra l'immagine di piazza Tien An Men, con un uomo solo che si oppone all'indifferenza blindata e disciplinata dei suoi compagni. E' un singolo, ma è anche un gesto potente, una ribellione muta a un gioco di squadra avvilente". Il titolo che Capuozzoha dato al suo post è eloquente: quando il numero 7 è il numero 1. Titolo azzeccato.

Con iOS 11 l’iPhone sarà più sicuro: niente notifiche mentre si guida

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Con il prossimo aggiornamento del sistema operativo, lo smartphone Apple, non visualizzerà messaggi e cambiamenti di stato quando l’auto è in movimento, per non distrarre il guidatore



Nei prossimi mesi l’iPhone darà il proprio contribuito alla sicurezza degli utenti mentre sono in auto. In autunno, con l’aggiornamento del sistema operativo iOS 11, lo smartphone Apple infatti riconoscerà quando l’utente sta guidando e disattiverà in automatico le notifiche, così il display non si accenderà.

La novità, annunciata alla Conferenza annuale degli sviluppatori, si chiama «Do Not Disturb While Driving», non disturbare alla guida, e blocca l’iPhone collegato all’auto, sia via cavo che Bluetooth, quando il veicolo è in movimento. L’utente può impostare una risposta automatica ai contatti nella lista preferiti, così da far sapere che è al volante e non potrà rispondere finché non arriverà a destinazione.

Apple non è l’unica a voler limitare le distrazioni al volante. Il mese scorso Samsung ha lanciato l’applicazione «In-Traffic Reply», che risponde in modo automatico quando si riceve un messaggio o una telefonata, per far sapere al mittente che la persona cercata è nel traffico. La app sfrutta il Gps per capire se l’utente è in auto, ma anche in bici, e consente di scegliere tra una risposta standard, del tipo «sto guidando, ora non posso rispondere», e una risposta divertente, con animazioni.

Il re dello Swaziland e le sue 15 mogli: “Qui da noi il divorzio non esiste”

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francesco de leo

Nel sud del continente africano esiste una monarchia assoluta, il Regno dello Swaziland, un piccolissimo Stato di 17.000 km quadrati nella Regione del Lubombo, governata dal Re Mswati III, 66° figlio dell’ultimo sovrano Sobhuza


Donne Swazi si esibiscono in una danza tradizionale davanti alla residenza reale

Nel sud del continente africano esiste una monarchia assoluta, il Regno dello Swaziland, un piccolissimo Stato di 17.000 km quadrati nella Regione del Lubombo, popolato da un milione di persone, il 50% dei quali ha meno di quindici anni. Non è un Paese per vecchi, ma uno dei più poveri del mondo con la più alta percentuale di adulti malati di HIV. 

Siede sul trono Re Mswati III, 66° figlio dell’ultimo sovrano Sobhuza. Incoronato alla morte del padre appena maggiorenne, tempo fa dichiarò di aver ricevuto una visione da Dio: “il Paese non sarà più retto da una monarchia assoluta, ma da una democrazia monarchica”. Per ora solo un sogno per i sudditi, visto che per legge non esiste l’associazionismo politico, qualsiasi manifestazione di protesta e sedata nel sangue, si applica la tortura e le prigioni sono un inferno. 

Il Re ha 15 mogli, un numero imprecisato di palazzi e jet privati. In questi giorni, le donne nubili più giovani del Paese - che per suo ordine devono mantenere la castità fino al compimento del ventiquattresimo anno - si preparano per l’Umhlanga, la più importante festa dello Swaziland. Quel giorno, saranno trentamila, raggiungeranno il complesso reale da ogni luogo, cantando e ballando in topless. Il Re, a petto nudo, con il suo orologio tempestato di diamanti al polso e uno scettro d’oro in mano, sceglierà tra loro una nuova moglie per il suo harem. Come le altre, avrà anche lei un proprio palazzo e illimitate disponibilità di spesa.

Per le donne sposate non è un gran momento. Re Mswati III si è detto pronto ad eliminare il diritto di divorzio. “Non è nella nostra cultura e la parola divorzio non esiste nel vocabolario della lingua Siswati”. Questo è il Regno dello Swaziland e del resto la principessa Pashu, star del rap nel suo Paese, ha detto: “La regalità in Africa è molto diversa dalle monarchie europee, qui non abbiamo molto tempo per divertirci”.

Lampedusa boccia la sindaca Nicolini, simbolo di accoglienza e premio Unesco per la pace

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Giusi Nicolini

La tornata elettorale premia Salvatore detto Martello che, con 1.566 voti, ridiventa sindaco di Lampedusa e Linosa dopo quindici anni. Secondo arrivato è Filippo Mannino che andrà all’opposizione e che ha raggiunto il traguardo dei 1.116 voti. Terza e fuori dall’amministrazione il sindaco uscente, Giusi Nicolini che, con 908 voti non è riuscita ad avere consiglieri di opposizione. Quarta ed ultima la ex senatrice, Angela Maraventano che è riuscita a racimolare appena 231 voti.

Le operazioni di spoglio si sono svolte per tutta la notte dal momento che i vari rappresentanti di lista hanno voluto controllare minuziosamente tutte le schede rallentando così le operazioni che al momento su una sezione, sono ancora in corso. Salvatore Martello, è stato sindaco di Lampedusa per due legislature fino al 2001. Nicolini è componente della segreteria nazionale del Pd, ha ricevuto il premio Premio Unesco per la Pace. A ottobre scorso Nicolini è stata una delle quattro donne «simbolo dell’eccellenza italiana» che ha accompagnato il premier Matteo Renzi alla Casa Bianca per la cena con l’ex presidente degli Stati Uniti, Obama.

Gli hacker di Israele nei computer dell’Isis, così venne scoperta la minaccia dei laptop

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giordano stabile

Emergono nuovi dettagli sul controverso “leak” del presidente americano Donald Trump riguardo informazioni sull’Isis ottenute dai servizi segreti israeliani. Secondo indiscrezioni del New York Times, confermate da Haaretz, gli hacker israeliani erano riusciti a penetrare nei computer della cellula dello Stato islamico che si occupa di preparare ordigni da usare anche in attentati in Occidente.

La “bomb cell” dell’Isis aveva escogitato il modo per trasformare computer e laptop in ordigni in grado di oltrepassare i controlli negli aeroporti del Medio Oriente. La scoperta, comunicata agli Stati Uniti, ha portato alla messa al bando di questi dispositivi elettronici sulla maggior parte dei voli dalla regione verso il Nord America, lo scorso marzo.

A maggio, nel suo incontro con l’ambasciatore russo a Washington, Sergei Kislyak, e il ministro della difesa Sergei Lavrov alla Casa Bianca, Trump ha rivelato queste informazioni, con il rischio di esporre gli agenti che erano riusciti a penetrare nel sistema dello Stato islamico, forse anche con l’aiuto di una talpa all’interno del Califfato.

Le rivelazioni hanno allarmato Israele. Il timore è che i segreti dell’Intelligence israeliana siano passati a quella iraniana e quindi aprire una breccia nei sistemi di difesa dello Stato ebraico. I servizi americani hanno una stretta collaborazione con quelli israeliani. Nel 2008 un’operazione di intelligence, e di hackeraggio, portò a un blitz nei computer che controllavano il programma nucleare e a danneggiare numerose centrifughe per l’arricchimento dell’uranio.

Il paese con una sola abitante: “Il silenzio mi fa compagnia”

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niccolò zancan

Paolina è uscita da Socraggio, in Valle Cannobina, solo due volte In casa tv spenta e nessun libro. “Faccio il fieno e pulisco la chiesa”


La famiglia Paolina Grassi compirà 91 anni il 28 agosto. Il marito è morto nel 1993 e l’ultima delle sue quattro sorelle nel 2016. Ha figli e nipoti, che però non vivono a Socraggio

Ora che non c’è più neanche il cane Fido ad abbaiare festoso, il silenzio ti viene incontro già dopo l’ultima curva. «Un silenzio bellissimo», dice la signora Grassi. «Soprattutto di notte. È quello il momento in cui puoi ascoltarlo meglio. Mi fa compagnia quando non riesco a dormire. Non senti un motore. Fuori dalla finestra della mia stanza è completamente buio, ma in alto il cielo è pieno di migliaia di stelle». 

La signora Paolina Grassi compirà 91 anni il 28 agosto. Ha vissuto tutta la sua vita su questa montagna della Valle Cannobina, al confine con la Svizzera. È l’ultima residente di un paese quasi scomparso dalle mappe, il cui nome intero è Casali Socraggio. Il suo portone è quello con il numero 27. «C’erano l’osteria, la rivendita e il fornaio. C’era la scuola elementare. Nella mia classe eravamo in 36. Quando sono nata, il 28 agosto del 1926, tre famiglie avevano dieci bambini. Noi eravamo cinque sorelle: Santina, Domenica, le gemelle Silvia e Giovanna, io ero la più piccola. Mamma mi aveva partorito sull’Alpe Badia, a mille metri di altitudine, dove papà aveva le bestie, faceva il carbone e essiccava le castagne nel graticcio». 

Le giornate della signora Grassi seguono il ritmo delle stagioni. Potrebbero sembrare monotone, ma a lei sono sempre bastate. «Faccio colazione alle 8 con una grande tazza di caffellatte e un pacchetto di cracker. Poi devo dare da mangiare alle galline, c’è da pulire la chiesa, devo prendere le erbe, fare il fieno, lavorare con il rastrello e il falcetto, riempire la gerla di legni per la stufa. L’insalata selvatica va tagliata fine. È un po’ duretta, ma buona». 

A pranzo, un risotto. Dopo, un pisolino con le braccia conserte sul tavolo. La tv è foderata perché non prenda polvere, tanto è sempre spenta. Anche il telefono fisso a rotella, l’unico, ha una piccola copertura di misura. Sulla vetrina della credenza ci sono le foto dei figli, dei nipoti e del cane Fido («è stato come un figlio negli ultimi anni»). Il frigo Zoppas, la panca per mangiare accanto al camino acceso, se fa freddo. 

L’ARRIVO DEI TURISTI
È tornata l’estate. In paese stanno salendo i villeggianti. Sono 12 tedeschi, 2 svizzeri, un italiano di Gallarate e uno di Arona. La signora Grassi chiacchiera benvoluta da tutti, circondata da fiori e piante rigogliose, perché il bosco ormai ha quasi ricoperto le case. La rosa che le regalò il figlio maggiore, quello partito per la Sardegna come carabiniere ausiliario. Il giglio selvatico sulla parete maestra. La robinia, il castagno, il rovere, il tiglio che profuma di miele: «A giugno metto a seccare le foglie all’ombra, in autunno ne faccio tisane». 

Giù a valle, pensionati tedeschi vestiti in pelle nera solcano la strada su motociclette fiammanti, fra ristorantini di lusso, divanetti a bordo lago e pedalò rarefatti nella bruma del pomeriggio. La signora Paolina non ha mai visto quel mondo sottostante. Canobbio, il Lago Maggiore, i motoscafi Riva. Non ha mai sognato New York e neppure sconfinato in Svizzera: «Al massimo sogno di salire ancora una volta sul monte Zeda. Ma sono quarant’anni che non posso più andarci, e va bene così. Sono di buon carattere. Ho fatto solo due viaggi. Uno a Novara per accompagnare mio marito in ospedale, l’altro a Macugnaga per accompagnare il prete». 

Racconta dei camosci e dei cinghiali, delle volpi che danno la caccia ai gatti. Del fatto che non nevichi quasi più. «Nel 1985 mio marito Luigi aveva misurato 92 centimetri di manto bianco». Una sola volta al mese va al supermercato a fare la spesa, grazie all’aiuto della nuora Lucia. Compra quello che serve. Scongela una pagnotta al giorno. Un ricordo felice è quello di un capodanno dopo la guerra, con la famiglia riunita e il cappone in tavola: «Il ripieno era la cosa più buona. Luigi metteva un salamino, uova, pane grattugiato, verza, poca farina».  E la paura? Cos’è, per lei, la paura? «Quando c’erano i rastrellamenti dei tedeschi. Avevo 18 anni. Volevano bruciare il paese perché si erano rifugiati i partigiani. Un aeroplano volava basso. Avevo paura dei bombardamenti». 

AL CINEMA 2 VOLTE NELLA VITA
È andata soltanto due volte al cinema con la scuola elementare, non ha mai letto un libro, ma racconta orgogliosa di quella canzone che aveva inventato all’alpeggio. «Era una canzone per gli inglesi, contro i fascisti. Diceva che le città di Torino, Milano, Firenze e Bari avrebbero festeggiato la liberazione. Mi era venuta alla testa sentendo i discorsi dei grandi, quelli che leggevano i giornali». 
Il marito, un tempo alpino in Jugoslavia, è morto nel 1993, l’ultima sorella nel 2016. Quasi un secolo se n’è andato sulla montagna. Il futuro è questo silenzio perfetto. «Desidero solo la salute dei miei figli e dei miei nipoti. E spero che le gambe mi sorreggano fino alla fine. Andare in una casa di riposo non mi piacerebbe. So che trattano bene gli anziani, ma lì dentro mi sentirei rinchiusa in prigione. Io sono come le nostre pecore, nata per vivere all’aria aperta». 

(Ha collaborato Teresio Valsesia)
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