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Roma, il segreto della stanza murata di Villa Medici

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andrea cionci

I lavori fatti nel 1943. Tra le ipotesi quella che la stanza contenga i beni confiscati agli ebrei dai nazifascisti. Sulle verifiche polemica tra un archeologo francese e l’Accademia di Francia, che ha sede nell’edificio



Uno dei gioielli rinascimentali di Roma, Villa Medici, sede, dal 1803, dell’Accademia di Francia, cela un segreto sul quale, dalla Seconda guerra mondiale fino ad oggi, nessuno avrebbe avuto ancora il coraggio di fare luce in modo completo e definitivo. Una stanza nei profondi sotterranei dell’edificio, affittata dal Banco di Roma, venne murata nel 1943, per motivi ancora oscuri.

L’Accademia sostiene, tramite i suoi tecnici, che ciò avvenne per questioni di staticità, ma non ha mai voluto abbattere quel muro e ha ripetutamente respinto, dal 2009 al 2016, la proposta dell’archeologo francese Vincent Jolivet, direttore di ricerca presso il CNRS di Parigi, di compiervi un sondaggio.
Naturale che sul contenuto di questo locale siano fioccate le ipotesi più varie e, tra le più interessanti, vi sono quelle che riguardano beni librari, o forse tesori, confiscati agli ebrei dalle autorità nazifasciste e dimenticati lì per settant’anni. Non a caso è intervenuta la Comunità ebraica di Roma. La richiesta di chi scrive circa il poter visitare il sito, ricevuta dall’Accademia il 20 maggio, non ha ricevuto risposta. Ad esprimere un giudizio imparziale sulla polemica divampata tra Jolivet e la prestigiosa istituzione francese abbiamo così chiamato un architetto specializzato in bunker con una certa esperienza anche in tema di tesori nascosti.

Ma andiamo con ordine.
 



Dai cunicoli romani al caveau della banca
Villa Medici è situata sul punto più alto e panoramico della Città eterna: anticamente vi sorgevano i famosi Horti Luculliani, uno splendido complesso costruito dal console romano - e famoso ghiottone –contemporaneo di Pompeo. Dopo la morte di Lucullo, la villa ebbe numerosi e illustri proprietari, tra questi, il senatore Valerio Asiatico, che vi si suicidò nel 47 d.C. e l’imperatrice Messalina che vi fu assassinata nel 48 d.C. 

Caduto l’impero, il sito rimase abbandonato fino al Rinascimento, epoca in cui passò nelle mani di due cardinali, prima Giovani Ricci da Montepulciano e poi Ferdinando de’ Medici. Quest’ultimo affidò a Bartolomeo Ammannati l’incarico di costruire una nuova, superba villa. Già in epoca romana era stata creata, sotto gli Horti, una fitta rete di cunicoli per la raccolta dell’acqua. Nel Rinascimento, un ulteriore livello di gallerie fu scavato per estrarre tufo e pozzolana.

Al di sopra della profonda cantina che il cardinale Ricci aveva fatto realizzare, Ferdinando de’ Medici fece erigere la Terrazza del Bosco, un enorme terrapieno, dell’altezza di 5 m, sormontato da una collina artificiale alta 12 m, concepita a imitazione di un tumulo etrusco. Passarono, da allora, circa 350 anni senza che venissero apportati molti cambiamenti ai sotterranei, finché, nel gennaio 1943, temendo i bombardamenti alleati che si ripetevano con sempre maggiore virulenza sulla Penisola, il Banco di Roma richiese di prendere in affitto la cantina di Ferdinando de’ Medici come riparo antiaereo per valori e documenti. (Si ricordi che, durante la guerra, i francesi non erano più i padroni della villa).



La muratura della camera e la sua datazione
Era una buona sistemazione per la banca: l’ipogeo si trova al centro di Roma e i suoi locali sono sepolti a una profondità di circa 11 metri sotto il livello del piazzale della Villa, e 16 metri sotto la Terrazza del Bosco. Prima di iniziare il trasferimento dei beni, il Banco di Roma fece realizzare una pianta del complesso da occupare. I lavori prevedevano, tra l’altro, la realizzazione di un impianto di condizionamento, alimentato a carbone, destinato a deumidificare l’ambiente.

Tuttavia, mentre la maggior parte della cantina venne adattata al suo nuovo ruolo di deposito di documenti cartacei, ad ovest del sotterraneo, una stanza di 2 x 3 m, con un’altezza di c.a 2,50 m, venne chiusa, inspiegabilmente, da un muro. E’ possibile datare con certezza questo intervento poiché le tracce dell’impianto di condizionamento si fermano in corrispondenza della tamponatura. La stanza fu sigillata nel 1943, quindi, tra la ricognizione dei sotterranei e l’esecuzione dell’impianto di condizionamento. Alla fine del 1944, il Banco di Roma sgomberò i luoghi, ma la stanza chiusa non venne riaperta. 



Prime scoperte
Nel 2008, fu l’archeologo Vincent Jolivet, ricercatore responsabile, dal 1981 al 2005, degli scavi sotto Villa Medici, a riscoprire interamente la vicenda dell’utilizzo dei sotterranei da parte del Banco di Roma, e a scriverne in un articolo scientifico, raccogliendo le testimonianze di un anziano cameriere di Villa Medici. “Questo signore parlava della Banca d’Italia, solo in seguito abbiamo potuto chiarire, grazie all’operato della storica Rosanna Scatamacchia, che si era trattato, invece, del Banco di Roma. Più di una volta – spiega Jolivet – ho presentato richiesta ai vari direttori di Villa Medici, per eseguire un sondaggio nel muro di questa sala. La mia idea, molto semplice e poco invasiva, era quella di praticare un piccolo foro nella parete attraverso il quale far passare una apposita telecamera. Ho sempre ottenuto risposte negative o evasive e la cosa mi colpì dato che l’amministrazione dell’Accademia di Francia stava realizzando, in questi stessi anni, imponenti operazioni di scavo sui terreni di Villa Medici”. A questo punto, Jolivet, nell’impossibilità fisica di fare chiarezza, elabora diverse teorie. 

Un lavoro di consolidamento?
La stanza è vuota, o riempita con detriti. Sarebbe stata chiusa per problemi di statica, di fragilità del banco di tufo, o per motivi di sicurezza rispetto alla possibilità di bombardamenti. Se è vero che la camera non dista molto dal sovrastante viale degli Aranci essa è però è stata scavata a una profondità di ben 11 m, in uno spesso strato di salda roccia vulcanica. E’ strano – secondo Jolivet - anche che la pianta del Banco di Roma indicasse esplicitamente come il locale dovesse essere adibito a deposito.



Deposito di sculture?
In questa seconda ipotesi, il Banco di Roma vi avrebbe sigillato beni non deperibili (più probabilmente, in questo caso, sculture, che non temono l’umidità degli ambienti chiusi). In effetti, dall’Antichità, fino all’ultimo secolo, si hanno numerosi esempi di questa pratica nel corso di conflitti. Potrebbe essere plausibile anche che le statue siano state “annegate” nel terriccio, a ulteriore protezione dagli urti. Manca tuttavia una documentazione in proposito, e pare difficile che, dopo la guerra, nessuno abbia rivendicato la proprietà di quelle opere. 

 Soldati tedeschi in ritirata da Roma (consulenza fot. Massimo Castelli)
 
Beni confiscati agli ebrei?
Nella terza opzione, la stanza murata conterrebbe beni confiscati dai nazifascisti alla comunità israelitica di Roma. Tra questi, vi potrebbero essere i 7000 volumi antichi della biblioteca della Sinagoga che mancano all’appello. Nelle fasi finali della guerra, dei libri antichi, probabilmente, ai tedeschi in ritirata non sarebbe importato granché e per questo motivo avrebbero potuto abbandonare a se stesso il deposito murato. Questa ipotesi, pure non suffragata da documenti, spiegherebbe anche il perché i valori, ritenuti definitivamente dispersi, non siano stati reclamati da nessuno alla fine della guerra. C’è da ricordare, anche, la forte vicinanza del Banco di Roma, all’epoca, con il regime fascista.

“Se nella camera vi fossero stati nascosti oggetti così “scottanti” – ipotizza Jolivet - si potrebbe comprendere come mai si sia preferito, dopo la guerra, tenere segreto lo scabroso contenuto di quella stanza”. Nel febbraio 2015, l’archeologo, ritenendo particolarmente degna di attenzione l’ultima ipotesi, scrive alla Comunità ebraica di Roma, accennando alla questione. Quest’ultima, il 22 giugno, invia all’Ambasciata di Francia e alla Direzione dell’Accademia di Villa Medici una lettera chiedendo di consentire a Vincent Jolivet di eseguire un sondaggio per verificare la questione. 



La risposta di Villa Medici alla Comunità ebraica
Il 6 agosto, il direttore di Villa Medici Éric de Chassey risponde alla Comunità ebraica spiegando che il sondaggio era stato già fatto poche settimane prima della loro richiesta (perciò senza la presenza di Jolivet) dalla società Acanthus, composta dalla stessa equipe di archeologi che lavorano negli scavi di Villa Medici. Il rapporto allegato alla risposta contiene due fotografie: un operaio colto nell’atto di praticare un “carotaggio” nella parete murata e, a parte, la fotografia della sezione di materiale che sarebbe stata scavata. Non vi è, tuttavia, la fotografia del foro praticato. Il documento afferma che il carotaggio ha incontrato tre strati di muro di tufo, intervallati da strati di frammenti di materiale tufaceo misto a malta e laterizi. 



Oltre le murature, una massa di terriccio vulcanico cedevole (terreno rimaneggiato) ha reso impossibile – si sostiene - infilare una telecamera nel foro. Nel rapporto, pure, si specifica che, “per un appianamento definitivo delle polemiche relative alla presenza di preziosi nascosti”, sarebbe necessaria la riapertura della tamponatura (abbattimento completo del muro) ma questa non è stata effettuata sia per i costi dei lavori che dello smaltimento dei materiali. In un secondo rapporto, inviato da Acanthus in risposta ai dubbi espressi da Jolivet, si ribadisce con convinzione il fatto che la sala sarebbe stata murata per motivi statici come già avvenuto in altre parti dei sotterranei, anche in considerazione della fragilità del tufo e della vicinanza con il Viale degli Aranci. Si afferma, inoltre, che il terriccio di riempimento esclude la presenza di manufatti nascosti. 



I dubbi e la proposta dell’esperto.
L’architetto strutturista Gregory Paolucci si occupa, fra le altre cose, della progettazione e costruzione di bunker moderni ed è il presidente dell’Associazione Bunker Soratte, noto per una vicenda riguardante l’oro della Banca d’Italia che sarebbe ancor oggi nascosto fra le sue gallerie. Data la sua diretta esperienza in materia, quindi, gli abbiamo sottoposto i due report di Acanthus: “Trovo che i dati acquisiti siano solo in parte significativi – spiega Paolucci – oggi la tecnologia offre strumenti che forniscono dati decisamente più completi e utili a sfatare miti e ad evitare il periodico svilupparsi di dubbi e “voci”.

Se l’Accademia volesse approfondire la conoscenza di ogni dettaglio degli ipogei, ritengo che potrebbe effettuare una prospezione con il georadar (affiancato ad altre prove geofisiche non distruttive) senza necessità di abbattere il muro. Questo tipo di test permetterebbe di conoscere con grande precisione, non solo l’esistenza di pieni e cavità, ma fornirebbe dati utili a discriminare la qualità dei materiali di riempimento e perfino l’esistenza di eventuali oggetti. E’ chiaro che un singolo carotaggio indaga su una porzione minima del locale e, in un ipogeo forse già storicamente interessato da eventi di crollo e cedimento, non si può avere la totale certezza che non vi possa essere qualcosa di sepolto. 

Per quanto riguarda l’ipotesi della natura difensiva della tamponatura della sala, posso garantire che l’assenza di rinforzi in cemento armato non avrebbe garantito la resistenza agli impatti di eventuali bombe cadute in prossimità o sulla verticale del sito. Se per un ricovero antiaereo destinato alle persone, la stanza sotterranea sarebbe stata quindi pericolosa, per un deposito di oggetti inanimati, la stanza, posta a quella profondità, avrebbe svolto egregiamente la propria funzione”.

L’impiego del georadar - che si potrebbe noleggiare con poca spesa - consentirebbe, a quanto pare, di fugare ogni dubbio rimanente, rasserenando gli animi di tutti, a condizione – come aggiunge Jolivet - che il nuovo sondaggio venga realizzato in un quadro metodologico e deontologico pienamente trasparente, con la presenza di tutti coloro che si sono dedicati a questo sito e alla sua misteriosa vicenda.

Ecco il trucco con cui Bernardo Caprotti ha costruito l'impero Esselunga

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di Luca Piana

Una vertenza in corso a Milano rivela come il patron della catena di supermercati riuscisse a ottenere licenze più grandi. Ve lo spieghiamo

Ecco il trucco con cui Bernardo Caprotti ha costruito l'impero Esselunga

All’inizio dello scorso autunno , quando venne aperto il testamento di Bernardo Caprotti, l’attenzione dei più era rivolta al futuro dell’azienda che l’imprenditore milanese aveva fondato negli anni Cinquanta assieme ai fratelli Guido e Claudio. Esselunga è la seconda maggiore catena italiana di supermercati, dietro al gigante cooperativo Coop, e il suo anziano patron, scomparso il 30 settembre 2016, fino all’ultimo aveva lasciato in sospeso i futuri assetti di comando di un gruppo che dà lavoro a 22 mila persone

Il documento, rivelato il 5 ottobre, fugò ogni dubbio. Come le persone vicine alla famiglia si aspettavano, il controllo dell’azienda andò alla seconda moglie Giuliana e alla figlia dei due, Marina Sylvia. Le sorprese comunque non mancarono. Fecero sensazione i 75 milioni di euro alla segretaria, Germana Chiodi, così come la decisione di cancellare le donazioni previste alla Galleria di Arte Moderna di Milano, i cui esperti si erano resi colpevoli di non voler attribuire a Leonardo una testa di Cristo dipinta da un allievo del maestro rinascimentale, che Caprotti aveva acquistato all’asta. Insomma: chi sperava di trovare nel testamento dell’imprenditore gli indizi di una personalità incline ai colpi di scena era certamente accontentato.

Quel che non era possibile individuare nemmeno nell’ultimo atto di Bernardo era uno dei segreti del suo successo, che emerge invece oggi da un procedimento di cui ha dovuto farsi carico la Regione Lombardia . Anche se il Gruppo Esselunga si sta allargando in tutto il Nord Italia, e in particolare in un territorio finora poco esplorato come la Torino di Chiara Appendino , e ha inaugurato il primo supermarket di Roma beneficiando di testimonial illustri quali Pier Luigi Bersani e Luca Lotti, resta un fatto che la grande espansione vissuta negli ultimi anni della gestione di Caprotti ha avuto come fulcro la Lombardia. Quando a Milano sono state messe in vendita numerose aree abbandonate dalle fabbriche, Esselunga ne ha fatto incetta. Ancora oggi, sono concentrati in Lombardia 93 dei 153 supermercati della catena (erano solo 128 appena dieci anni fa) e la densità maggiore si riscontra nella metropoli guidata dal sindaco Beppe Sala.

Bernanrdo Caprotti
Bernanrdo Caprotti

Una delle strategie attuate da Caprotti per questo sviluppo è venuta alla luce martedì 30 maggio, quando in una stanza al quarto piano del palazzo della Regione Lombardia si è svolto un incontro a cui erano convocati i tecnici delle istituzioni che si occupano di commercio, i rappresentanti dei negozianti, i sindacati. L’argomento della riunione aveva un carattere in apparenza burocratico: l’autorizzazione a trasformare un’area commerciale di vendita già esistente, portandola da media a grande. L’indirizzo dell’area è a Milano, in via Pellegrino Rossi, a due passi dalla stazione della metropolitana di Affori. Si tratta di un Esselunga, naturalmente. Ma perché ampliare la licenza commerciale di un supermercato inaugurato soltanto quattro anni fa?

Basta recarsi sul luogo perché il motivo diventi evidente. L’edificio che ospita il supermercato è già della misura definitiva, costruito così fin dall’origine, con due piani di parcheggi sotterranei che la mattina appaiono pressoché deserti. La sorpresa è all’interno: le casse sono lontanissime dall’ingresso; gli spazi sono in buona parte liberi. A metà, un cartello avverte la clientela che l’enorme area vuota che separa l’ingresso dagli scaffali è dovuta al fatto che quell’ambiente «al momento non è autorizzato alla vendita». È scritto proprio così, «al momento», come se i dirigenti dessero per scontato che si tratta di una lacuna temporanea.

Più large che medium
Ecco il punto: negli anni passati a Milano, in via Pellegrino Rossi e in altri casi ben documentati, è stato consentito all’azienda di Bernardo Caprotti di costruire supermercati di taglia large, quando le licenze commerciali sottostanti erano per strutture medie. Fin dall’inizio Esselunga sapeva che le misure, in seguito, sarebbero state portate alle dimensioni definitive, ben più grandi, come dimostra il fatto che le autorizzazioni edilizie erano state rilasciate per edifici più ampi rispetto a quanto previsto dalle licenze commerciali, e costruiti fin da principio per essere utilizzati in maniera integrale. Ai profani della burocrazia, la differenza tra grande e medio può sembrare poca cosa. Basta però scavare nei fascicoli delle autorizzazioni di alcuni di questi progetti per intuire gli interrogativi che una simile situazione proietta sul negozio di via Pellegrino Rossi e su altri casi simili.

In Lombardia c’è una linea di demarcazione netta che separa i centri commerciali di piccola o media dimensione da quelli grandi. È legata all’area di vendita. Sotto i 2.500 metri quadri per aprire le saracinesche basta un’autorizzazione del Comune. Sopra quella soglia la pratica diventa più complicata: serve l’ok della Regione, e si deve passare attraverso una “conferenza dei servizi”, un procedimento aperto dove tutti gli interessati possono intervenire per presentare condizioni, richieste, obiezioni. Bisogna coinvolgere i Comuni confinanti, le associazioni dei commercianti, i rappresentanti dei quartieri interessati. Il motivo è semplice: un megastore ha un impatto - sugli affari dei negozi di zona, sui cittadini, sul traffico, sui concorrenti - di gran lunga superiore rispetto a un supermercato più piccolo.

Può richiedere modifiche alle strade, misure per aiutare i negozi della zona a rinnovarsi e non essere costretti a chiudere, parcheggi. Di qui il discrimine dettato dalle norme, che per le grandi strutture fa aumentare i tempi d’autorizzazione delle licenze, i costi di costruzione, gli oneri di compensazione da pagare al Comune e alle altre istituzioni coinvolte. Fare come ha fatto Esselunga in via Pellegrino Rossi, aprendo prima un supermercato più piccolo per poi chiedere l’autorizzazione a ingrandirlo, non sana la differenza, perché l’esito di una procedura d’ampliamento è scontato, quello di una conferenza dei servizi per un progetto che parte da zero molto meno. Di qui lo stratagemma usato da Caprotti, di cui lui stesso era certamente a conoscenza, come mostra un documento di qualche anno fa.

Chi ha lavorato con Bernardo racconta che fosse dotato di un vero talento per capire dove un supermercato avrebbe funzionato e dove no. Sapeva che certe posizioni sono una fortuna e che altre rischiano di non diventare mai redditizie. È quindi con tutto l’orgoglio del caso che, il 21 febbraio 2011, l’imprenditore manda un appunto ai suoi dirigenti per rendere conto del sofisticato lavoro di intelligence effettuato per aprire un nuovo supermercato, sempre a Milano, in via Losanna. Lo chiama “progetto Bollicine”, perché l’edificio è nato dove prima c’era un vecchio stabilimento dell’acqua San Pellegrino. Anche lì, le casse sono poste inizialmente a metà del megastore appena inaugurato: «L’apertura al momento è parziale», ammette Caprotti, precisando subito che i metri quadri della struttura sono destinati a crescere: «Probabilmente diventerà un 2.500, la sua capacità massima è 2.800». Come faceva a saperlo?

L’azienda aveva cominciato a ristrutturare l’intera area, che comprende anche un palazzo di abitazioni e un parcheggio, senza presentare, almeno inizialmente, una domanda di ampliamento di un Esselunga originario, che occupava soltanto 1.003 metri quadri. I lavori erano partiti nel 2006 e dovevano terminare il 14 aprile 2010, quando era prevista la riapertura al pubblico. Pochi giorni prima della scadenza, il 23 marzo, la prima sorpresa. L’azienda chiede la proroga di un anno per terminare i lavori di ristrutturazione; qualche mese più tardi, il 24 giugno, presenta poi «un’istanza di ridistribuzione della superficie di vendita già autorizzata con ampliamento da 1.003 a 1.500 metri quadri».

Infine, l’autunno successivo, chiede l’aumento a 4.884 metri quadri di un ulteriore parametro, la «superficie lorda di pavimentazione», che in teoria non riguarda l’area dove piazzare gli scaffali con le merci. A quel punto il nuovo supermercato è pressoché finito e tutti, dai concorrenti ai consiglieri comunali, si rendono conto delle vere dimensioni. Vengono effettuate interrogazioni e ricorsi ma la risposta delle istituzioni è sempre la stessa: tutto regolare. Scrive Caprotti nel suo appunto dell’11 febbraio 2011: «Diamo con gioia il benvenuto a questo nuovo nato, che ci darà molte soddisfazioni; non senza dire grazie a tutti coloro che ci hanno messo tanto di sé, tanta intelligenza, tanta discrezione».

Compensare con il pesce
 
Come possa un’amministrazione comunale non rendersi conto di quel che cresce sul proprio territorio, nonostante tutta la discrezione e l’intelligenza del caso, è una domanda interessante. Ma quel che colpisce di più è il poco che, a cose fatte, basta per sanare progetti in grado di cambiare la geografia di interi quartieri. È stato questo l’argomento della riunione nel Palazzo Lombardia del 30 maggio, relativa all’area di via Pellegrino Rossi.

Anche in questo caso Esselunga ha costruito l’intero edificio sulla base di una licenza commerciale precedente, prima di 1.500 metri quadri, poi salita a 2.500. Il Comune non ha avviato una specifica pratica di autorizzazione in quanto il progetto prevedeva che nella nuova struttura non ci fosse solo il supermercato, ma anche due negozi di merci che, in gergo tecnico, vengono definite “ingombri non immediatamente amovibili”.

E cioè, una concessionaria d’auto e un’esposizione di arredamenti. Di queste due attività, nello spazio vuoto che separa l’ingresso dalle casse, a quattro anni dall’apertura non c’è traccia. Anzi, nella procedura avviata pochi mesi fa per portare la superficie di vendita a 3.821 metri quadri, Esselunga ha già prodotto l’impegno di entrambi i titolari a venderle i rispettivi spazi.

Più che una vertenza fra parti con interessi diversi, la conferenza dei servizi del 30 maggio - a cui L’Espresso ha potuto partecipare - si è così trasformata in un coro di benestare. L’ampliamento «non comporta consumo di nuovo suolo» e «non verranno costruite nuove cubature», è stato detto dai tecnici di Comune e Regione, senza sottolineare il fatto che l’edificio non dev’essere toccato perché è stato costruito di dimensioni eccedenti la licenza commerciale già in partenza. E ancora: «In fondo si tratta solo di un accorpamento di autorizzazioni già rilasciate», nonostante la concessionaria d’auto e l’esposizione di mobili esistano solo sulla carta.

Come detto, quello che colpisce maggiormente è però l’elenco delle compensazioni che l’azienda propone per sanare tutto. Ci sono contributi per 642 mila euro per opere di urbanizzazione. Ma le voci più sorprendenti sono altre. Un «contributo di 60 mila euro» che andrà al Comune per «riequilibrare» l’impatto che il nuovo megastore avrà sul «piccolo commercio di vicinato». L’impegno a spendere 25 mila euro in due anni mediante accordi con artigiani e commercianti locali per «promuovere il territorio». La «disponibilità» a fornire ai clienti la spesa on line, il pagamento dei bollettini postali, le casse automatiche, la prenotazione di «pesce fresco già pulito». L’immancabile promozione di prodotti tipici lombardi.

Perché queste voci ricadano sotto i costi che dovrebbe sostenere Esselunga per farsi regalare la licenza, e non sotto i vantaggi che le permetteranno di mettere in ginocchio i negozi vicini, è uno dei segreti che solo la burocrazia comunale sembra poter custodire.


Esselunga non ha segreti

espresso.repubblica.it

Con riferimento all’articolo“Il trucco di Caprotti”, Esselunga dichiara con fermezza di aver sempre agito nel pieno rispetto delle normative regionali e comunali, senza trucco o segreto alcuno. Sconcertano i riferimenti gratuiti e offensivi, a partire dal titolo, riservati al Dottor Bernardo Caprotti, senza che possa più smentire. Dopo averlo attaccato su più fronti senza ritegno da vivo, si continua pervicacemente ad offenderlo e a tentare di lederne l’onorabilità anche dopo la scomparsa. L’Azienda ritiene che le espressioni utilizzate nell’articolo siano gravemente lesive del suo buon nome, nonché di quello del suo fondatore e delle 28.000 persone che ogni giorno vi lavorano.
Esselunga SpA


La nostra replica
L’Espresso ha riportato in maniera il più possibile analitica una serie di dati e di fatti in gran parte tratti da documenti ufficiali, reperibili nelle procedure del Comune di Milano e della Regione Lombardia per la concessione delle autorizzazioni commerciali.

Perché la benzina in autostrada costa sempre più cara

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fabio poletti

Cara benzina mi costi, ma quanto mi costi? Il calcolo lo hanno fatto il sindacato dei gestori Figisc e la Confcommercio. Il prezzo medio di un litro di benzina alla pompa nella settimana tra il 5 e l’11 giugno è stato di 1 euro e 512 centesimi. Con un certo entusiasmo l’Osservatorio prezzi del ministero dello Sviluppo economico fa sapere che lunedì scorso - 2 giorni fa quindi è il dato più aggiornato che c’è - il prezzo medio sarebbe sceso a 1 euro e 510 centesimi. Con un sostanzioso risparmio per noi consumatori di ben 0,002 centesimi. In calo anche se si fa fatica a definirlo vertiginoso è pure il prezzo del gasolio. Settimana scorsa era di 1 euro e 361 centesimi al litro. Che lunedì era in media di 1 euro e 353 centesimi.

Che ad alzare vertiginosamente i prezzi siano tasse e accise si sa. È bene ricordare qualche numero. L’Iva al litro sulla benzina è di 273 centesimi. Le accisa arrivano a 737 centesimi. Che fanno per lo Stato un introito, questo sì vertiginoso, di 1,010 euro per ogni litro. Se non bastasse il caro prezzi c’è l’ulteriore rincaro se la benzina si acquista in autostrada. Secondo Leonardo.itMoney la benzina in autostrada costa il 30 se non il 45% in più rispetto alla normale rete. Secondo Altroconsumo che ha fatto una ricerca molto dettagliata nel 2016 sulle autostrade nell’area di Milano la benzina costa il 9% in più, di Bologna il 6%, di Firenze l’11%, di Roma il 7% e addirittura il 12% a Napoli. Gestori e società autostradali si rimpallano la responsabilità su costo della benzina, addebitandolo alle royalties che queste ultime incassano per ogni litro venduto.

Marco Bulfon responsabile prezzi carburante di Altroconsumo ha pure un’altra idea: «Da noi c’è la benzina più cara d’Europa anche se l’Italia è uno dei massimi produttori al mondo di carburante. Questo avrebbe dovuto garantire prezzi più concorrenziali. Ma va a finire che il nostro carburante venduto in Francia là costa meno. Da noi c’è un gigantesco problema di distribuzione e di organizzazione». Per non parlare dei costi fissi. Delle royalties alle società autostradali e tutto il resto.

L’esperto risponde: «Fino a che lo Stato utilizza la benzina come salvadanaio siamo di fronte a una ingestibile follia. Da noi poi ci sono il doppio delle stazioni di servizio che in Europa». In Italia sono 24 mila solo sulla rete autostradale. Che vendono meno di 1 miliardo e 800 milioni di litri di carburante. Un dato sempre più in decrescita visto che l’oro nero è oramai caro come l’oro vero. E dal 2008 al 2013 la vendita sulla rete autostradale è crollata in media del 45%. Complice la crisi e non solo quella.

I BENZINAI: “COLPA DELLE ROYALTIES, A NOI RESTANO I CENTESIMI”

Stefano Cantarelli, presidente della rete autostradale della Federazione Italiana Gestori Impianti Stradali Carburanti, perché fate pagare di più la benzina dopo il casello?
«Intanto il costo di esercizio è più alto. Anche se è stato ridotto all’osso deve essere garantito personale 24 ore al giorno e non solo un servizio automatico alla pompa».

Basta per il salasso?
«Il dato che incide molto sono le royalties che chiedono le società autostradali per assegnare alle compagnie petrolifere o ai gestori la singola area di servizio. Negli anni si è arrivati ad un costo che si aggira tra i 12 e i 13 centesimi al litro. Soldi che finiscono direttamente ai gestori».

In passato erano meno?
«Fino al 2002, quando si è privatizzata la rete autostradale, le royalties arrivavano al massimo a 1 centesimo e mezzo al litro. Il problema che l’aggiudicazione è su base d’asta. Pur di accaparrarsi l’area di servizio anche le compagnie petrolifere offrono di più. Secondo un dato in nostro possesso le società autostradali incassano tra i 150 e i 160 milioni di euro l’anno».

Che Iva e accise siano tra le più alte in Europa lo sappiamo...
«Sì, ma ricordiamo anche che al benzinaio, fatto un prezzo medio della benzina di 1,4 euro al litro, rimangono in tasca appena 5 centesimi».

C’è qualche anomalia su cui si potrebbe intervenire?
«Bisognerebbe ristrutturare l’intera rete. Andrebbero chiusi il 30% degli impianti. Quelli che ci sono oramai sono decisamente troppi».

Si vende meno benzina?
«La crisi ha picchiato duro anche in questo campo. Nel 2002 in autostrada si vendevano 4 miliardi di litri l’anno di carburante. Nel 2016 siamo a meno di 1,8 miliardi. Contro i 26/27 miliardi dell’intera rete ordinaria. Siamo sotto addirittura al 1979 quando la rete autostradale era grande la metà e si vendevano 2,5 miliardi di litri». 

LE SOCIETA’ : “LE RESPONSABILI SONO LE COMPAGNIE PETROLIFERE”

Luca Ungaro, lei è vicepresidente esecutivo di Autostrade per l’Italia e responsabile delle aree di servizio: i gestori degli impianti dicono che sia colpa vostra se la benzina in autostrada costa di più e costa troppo...
«Noi facciamo le gare per le assegnazioni delle aree di servizio direttamente con le compagnie petrolifere. Sono loro poi, eventualmente, che le danno ai gestori».

Il presidente di Figisc dice che voi intascate 12-13 centesimi per ogni litro di benzina venduto sulla vostra rete.
«Il nostro dato è diverso. Nell’ultimo biennio 2015-2016 abbiamo rinnovato i contratti con il 75% delle aree. Oggi le royalties valgono il 4% del prezzo al litro».

Sono le compagnie che offrono di più durante le vostre aste per accaparrarsi la singola area di servizio?
«Le compagnie offrono royalties che sono in linea con gli altri punti vendita. Devono ovviamente trovare un equilibrio tra offerta e quanto puoi guadagneranno. Non avrebbe senso offrire troppo».

Però rimane troppo distante il prezzo tra benzina offerta in autostrada e quella venduta nelle altre aree di servizio. Perchè?
«I differenziali alla pompa si stanno abbassando. Il Codacons farà comunicazioni sui prezzi nelle aree di servizio allineate con la rete stradale normale».

Non sono troppe le aree di servizio?
«Sono 24 mila. Andrebbero ridotte a 15 mila. Nel 2015 c’è già stato un ridimensionamento. Sull’intera rete autostradale sono state chiuse 30 aree di servizio e 15 sulle nostre reti. Ma le aree di servizio sono una ricchezza per l’utente. È vero che ce ne sono di più che in altri Paesi europei, ma questo garantisce una migliore assistenza. In media c’è un’area di servizio tra un casello e l’altro».

Quei jihadisti improvvisati senza legami con il Califfo che colpiscono l’Occidente

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lorenzo vidino

Dalla nascita dell’Isis sono stati 51 gli attacchi in Usa ed Europa. Tre quarti degli attentatori erano cittadini del Paese colpito

Negli ultimi tre anni, l’Europa e il Nord America sono stati colpiti da un’ondata senza precedenti di attacchi terroristici. Quali sono gli obiettivi del terrore? Chi sono gli individui che hanno eseguito questi attentati? Come si sono radicalizzati? Sono nati e cresciuti in Occidenti o rappresentano una minaccia esterna (cioè sono rifugiati e migranti)? Hanno trascorsi criminali? Erano ben istruiti e integrati o, al contrario, vivevano ai margini della società? Hanno agito da soli? Quali erano le loro connessioni con lo Stato islamico?

Per cercare di rispondere a questi e altri quesiti dai fondamentali risvolti di policy, un nuovo studio, di cui sono co-autore insieme a Francesco Marone, e pubblicato da Ispi e George Washington University, ha analizzato i 51 attacchi e i 66 attentatori che hanno colpito l’Occidente dalla nascita del Califfato nel giugno del 2014 a oggi. I dati che ne sono derivati, e che sono qui parzialmente sintetizzati, danno una panoramica dettagliata della minaccia, utile a capirne l’entità e le caratteristiche.

Innanzitutto i 51 attacchi, che in totale hanno provocato 395 vittime e almeno 1549 feriti, variano enormemente in termini di sofisticatezza, letalità, bersagli e legami con lo Stato islamico. Alcuni sono attentati coordinati con un ingente numero di vittime, sul modello di quelli avvenuti a Parigi nel novembre 2015. Ma la maggior parte sono azioni eseguite da attori solitari, spesso all’arma bianca e pertanto meno letali (ma l’attentato compiuto con un camion a Nizza da un lupo solitario ha causato 86 vittime). Sono tutte azioni compiute da soggetti ispirati dall’ideologia jihadista, ma solo l’8% degli attacchi sono stati perpetrati da individui che hanno ricevuto ordini direttamente dai vertici del Califfato e 26% sono stati compiuti da individui aventi una qualche forma di connessione con lo Stato islamico, ma che hanno agito autonomamente. 



A conferma che lo spontaneismo, pericoloso perché imprevedibile, domini la presente ondata di jihadismo, il 66% degli attacchi sono stati compiuti da soggetti privi di qualsiasi legame operativo col Califfato. E solo il 38% degli attacchi è stato rivendicato da gruppi jihadisti (quasi sempre dallo Stato Islamico). Il Paese più colpito è la Francia (17), seguito da Stati Uniti (16), Germania (6), Regno Unito (4), Belgio (3), Canada (3), Danimarca e Svezia (1).

Chi sono gli attentatori? Nonostante la crescente presenza femminile nelle reti jihadiste, su un totale di 66 attentatori vi sono solo 2 donne. E nonostante vi sia una generale tendenza verso la radicalizzazione di individui sempre più giovani, l’età media degli attentatori è di 27,3 anni (con solo 5 minorenni). Il 17% sono convertiti all’Islam, con percentuali sensibilmente più elevate in Nord America. Il 57% ha trascorsi criminali. Solo il 18% vanta un’esperienza di combattimento all’estero come foreign fighter; tuttavia, tendenzialmente, tale tipologia di terroristi è coinvolta negli attacchi più letali. 

Viste le implicazioni dal punto di vista politico si è voluto analizzare anche lo status migratorio degli attentatori. I dati mostrano che il 73% degli attentatori è composto da cittadini del Paese in cui è stato eseguito l’attacco; il 14%, poi, era legalmente residente in tale Paese o in visita da Paesi confinanti. Solo il 5% è composto da individui che al momento dell’attacco erano rifugiati o richiedenti asilo. Il 6%, infine, risiedeva illegalmente nel Paese bersaglio al momento dell’attacco.

Sebbene sia arduo prospettare sviluppi futuri, pare chiaro che la minaccia posta dal terrorismo jihadista non sia destinata a svanire nel breve termine – da presidente, Obama aveva parlato di una «sfida generazionale». Il modo in cui i decisori politici, le autorità antiterrorismo e il grande pubblico concettualizzeranno e risponderanno a questa inedita ondata terroristica avrà implicazioni significative, poiché potrà plasmare varie questioni di politica interna ed estera strettamente intrecciate. Dei freddi numeri da soli non ci fanno capire cosa motivi giovani musulmani occidentali ad adottare il credo jihadista, ad uccidere e farsi uccidere in nome di esso. È però fondamentale che qualsiasi tipo di analisi e decisione parta dai fatti e non da fuorvianti preconcetti e illazioni politiche. 

Individuata la prima “arma digitale” per attacchi contro reti elettriche

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carola frediani

Usata lo scorso dicembre in Ucraina, è il primo malware progettato solo per sabotare la fornitura di elettricità, spiegano due report

Lo scorso dicembre un attacco informatico al gestore ucraino di rete elettrica Ukrenergo è riuscito a disconnettere una sottostazione di trasmissione provocando un blackout di un’ora per alcune migliaia di utenti a Kiev. All’epoca l’episodio non ha avuto molta pubblicità, anche perché era oscurato da un attacco avvenuto esattamente un anno prima, nel dicembre 2015, sempre in Ucraina, che aveva tolto la corrente per almeno sei ore a oltre 230mila residenti della regione di Ivano-Frankivsk.

Un malware contro reti elettriche
Ma a quanto pare quel secondo attacco avrebbe dovuto preoccupare molto più del primo. Perché utilizzava un malware diverso, specificamente progettato per interrompere il normale funzionamento di una rete elettrica in modo automatizzato. E perché potrebbe essere usato anche contro gestori dell’energia di altri Paesi, soprattutto europei, mediorientali o asiatici (e con alcuni aggiustamenti anche americani).

Il fatto di avere come missione esclusiva l’attacco a sistemi di controllo industriale e il sabotaggio di una infrastruttura critica lo rende dunque degno erede di Stuxnet, che fu il primo software malevolo progettato (o quanto meno impiegato con successo) ad avere quell’obiettivo nel suo Dna. La prima cyberarma, secondo molti osservatori. Nello specifico, Stuxnet venne sviluppato con lo scopo di danneggiare silenziosamente le centrifughe di un impianto di arricchimento dell’uranio in Iran e rallentare il programma nucleare iraniano. Il malware che ha colpito in Ucraina mostra invece un crescente interesse per lo sviluppo di attacchi contro reti elettriche che potrebbero avere effetti subito visibili e concreti sui servizi essenziali di un Paese e parte della popolazione

Cosa differenzia CrashOverride da altri attacchi
In particolare, secondo l’analisi di Dragos - società specializzata nella difesa di sistemi di controllo industriale fondata da Robert M. Lee, veterano della cyberguerriglia nel governo americano poi passato all’industria - il malware usato in Ucraina a dicembre, e battezzato CrashOverride, sarebbe il primo del genere progettato e utilizzato per attaccare reti elettriche. Per spiegare cosa significa dobbiamo fare un passo indietro e confrontare i due diversi attacchi che hanno colpito parti della rete elettrica Ucraina nel dicembre 2015 e nel dicembre 2016.

Nel 2015 infatti gli attaccanti usarono un malware noto come BlackEnergy 3, che è sostanzialmente uno strumento di cyberspionaggio con il quale hanno avuto accesso alle reti corporate delle aziende elettriche e da lì sono arrivati alle reti di controllo dei sistemi industriali (SCADA). E sono stati poi gli attaccanti a gestire i vari passaggi di disconnessione delle sottostazioni.

Progettato per il sabotaggio
Nel caso dell’attacco del 2016 contro l’operatore Ukrenergo le procedure per interrompere le operazioni di fornitura dell’energia sono state codificate e automatizzate nel malware CrashOverride. 
«BlackEnergy 3 è stato sfruttato per ottenere l’accesso alle reti elettriche nell’attacco del 2015 ma il malware non ha causato l’attacco vero e proprio e l’interruzione del servizio», spiega a La Stampa Robert M. Lee. «Ha dato accesso agli operatori umani che hanno usato gli stessi sistemi della rete elettrica contro sé stessa, in un approccio manuale. Invece nel 2016 CrashOverride ha codificato dentro il malware quella conoscenza relativa a come rivoltare i sistemi contro loro stessi. Le due famiglie di malware - BlackEnergy e CrashOverride - non sono collegate dunque. Inoltre il secondo è più automatizzato e scalabile».

Potrebbe essere utilizzato per attacchi simultanei contro più siti. E poiché è composto da moduli, blocchi che aggiungono o modificano funzionalità, potrebbe essere esteso ad altri Paesi e industrie, nota il report di Dragos. In quanto alla comparazione con Stuxnet, «si può fare perché questo è il secondo tipo di malware confezionato apposta per sistemi industriali e progettato per interrompere il servizio», commenta ancora Lee. «Gli altri due malware usati contro industrie (BlackEnergy 2 e Havex) erano focalizzati sullo spionaggio».

Riassumendo: sono quattro i malware rinvenuti in attacchi che hanno colpito sistemi di controllo industriale: Stuxnet, BlackEnergy, Havex e CrashOverride. Ma BlackEnergy e Havex sono stati progettati per fare cyberspionaggio. Stuxnet e CrashOverride servono solo a fare sabotaggio. Nel caso di Stuxnet si otteneva distruzione fisica delle macchine (le centrifughe). Nel caso di CrashOverride si ottiene una interruzione del servizio.

Protocolli di comunicazione vecchi
Da notare che CrashOverride (chiamato Industroyer da Eset) non utilizza vulnerabilità zero-days, cioè falle ancora sconosciute, ma si distingue per la capacità di sfruttare i protocolli di comunicazione usati dai sistemi di controllo industriale. «Il problema è che questi protocolli sono stati progettati decenni fa, e allora i sistemi industriali dovevano essere isolati dal mondo esterno», scrive Eset nel suo report. «Perciò, i loro protocolli di comunicazione non erano fatti pensando alla sicurezza. E ciò significa che gli attaccanti non hanno bisogno di cercare vulnerabilità nei protocolli; gli basta insegnare al malware a “parlare” con quei protocolli». Tuttavia chi gestisce sistemi industriali può difendersi da questo tipo di attacco, e i due paper danno delle indicazioni tecniche al riguardo.

Chi c’è dietro?
In quanto all’identità degli attaccanti dietro a CrashOverride, Dragos ritiene che si tratti di un gruppo legato comunque agli hacker che avevano usato BlackEnergy in Ucraina nel 2015, gruppo identificato da altri come Sandworm. Dunque, stando ai report di varie società, si tratterebbe di hacker russi, anche se non ci sono prove definitive sulla loro identità. Dragos ha dato loro anche un nome: Electrum. Certo, il target rientrerebbe nella sfera d’azione e di interesse russa. E del resto l’Ucraina negli ultimi anni è stata un terreno di scontro anche digitale e di sperimentazioni di cyberguerriglia.

Riina Party

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mattia feltri

Da nove giorni l’Italia è impegnata in una discussione allucinogena: Totò Riina va scarcerato? Tutto parte lunedì della settimana scorsa quando la Cassazione riceve la sentenza con cui il tribunale di sorveglianza stabilisce, per l’ennesima volta, che no, Riina deve restare nella clinica di Parma dov’è detenuto. La Cassazione dice ok, però c’è un piccolo problema, le motivazioni sono insufficienti, vanno precisate meglio perché dire che Riina è pericoloso non basta: la Costituzione, valida per tutti, buoni e cattivi, e anche cattivissimi, garantisce pure ai reclusi il diritto a una morte dignitosa (sempre che stiano morendo), magari in altre strutture, raramente persino a casa. Che poi è un concetto giuridico prossimo alla banalità almeno dai tempi in cui furono dichiarate illegali la razzia e lo squartamento. 

Chissà come, sui giornali la notizia diventa che la Cassazione libererà Riina. E parte un dibattito surreale fra politici, magistrati in carriera e in pensione, avvocati, opinionisti, sociologi, passanti e semplici conoscenti, coralmente allibiti dalla demenza (e delinquenza) dello Stato. Un abbaglio globale e comico che spiega molto dei nostri tempi, e non se ne parlerebbe più se ora, sulle basi del nulla, non si fossero mobilitate le istituzioni, nella persona della presidente dell’Antimafia, Rosi Bindi, autoincaricata di un blitz a verificare le condizioni di prigionia e salute del boss. Sta benone, muoia pure lì, ha detto Bindi. Questa è l’unica verità: Riina morirà lì e non serviva Bindi, basterà una sentenza scritta meglio. 

L’antisemitismo viaggia in Rete e si diffonde anche dagli e-book

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paolo colonnello


Il rapporto sull’antisemitismo del Centro di documentazione ebraica, presentato oggi a Milano, segnala almeno settanta titoli che circolano indisturbati nei circuiti ufficiali degli e-book

Come al solito, alla fine sono le parole a pesare come pietre. E a tenere viva la fiamma dell’antisemitismo nel nostro Paese: ogni giorno canali di distribuzione importanti come Amazon o Ibs diffondono via Internet antisemitismo a piene mani con la vendita di libri che vengono recensiti come se si trattasse di tomi qualsiasi, mentre veicolano l’odio verso gli ebrei.

E poi, ecco il quotidiano che mette in vendita il Mein Kampf di Hitler senza sentire il bisogno di fare almeno un’edizione critica; il politico che fa riferimento al complottismo delle lobby ebraiche; i gruppi di tifosi che sfoggiano slogan razzisti e antisemiti. Per non parlare del linguaggio che passa sui social, dei gruppi nazisti e fascisti nati su Fb, delle parole che viaggiano su Twitter. Insomma, guardando il rapporto sull’antisemitismo in Italia nel 2016, che questa mattina verrà presentato a Milano dal Centro di documentazione ebraica diretto da Gadi Luzzato Voghera a Palazzo Marino (www.osservatorioantisemitismo.it), emerge un quadro per niente tranquillizzante.

La fotografia di un Paese che se da una parte ha aumentato la sicurezza nei confronti dei centri ebraici, facendo diminuire drasticamente gli atti di violenza, dall’altra culturalmente sembra scivolare sempre più nell’indifferenza per l’uso di termini e parole che esprimono invece grande aggressività e coltivano una rinascita dell’antisemitismo assai preoccupante: negazione e minimizzazione della Shoah sono sempre più frequenti e manifesti senza che vi siano mezzi legali importanti per contrastarli. 

«Nel corso della nostra ricerca - spiega Luzzato - ci siamo scontrati con dinamiche malate: si spende per andare nelle scuole a parlare di Shoah e poi si lascia che la vendita di paccottiglia antisemita circoli tranquillamente». Per esempio, la vendita dei libri. Sono almeno una settantina i titoli che circolano indisturbati nei circuiti ufficiali degli e-book. Opere di teorici del nazifascismo, di apologetica cattolica preconciliare, antisionista e cospirativista. Queste le sigle editoriali più aggressive: Edizioni Ar, Anteo Edizioni, Effepi, Thule Italia Editrice, Effedieffe, Ritter, Settimo Sigillo, Edizioni Radio Spada, e via dicendo. Di queste, 19 sono riconducibili alla destra radicale, 3 alla corrente di New age (millenarismo progressista), 1 alla sinistra estrema.

Ma il rapporto ha monitorato anche il linguaggio dei politici scoprendo per esempio che l’antisionismo venato di cospirativismo è presente nel lessico di esponenti del M5S così come dell’ex parlamentare Massimo D’Alema che «nel corso del 2016 ha più volte definito Matteo Renzi agente del Mossad».

Copyright online, la Corte europea contro The Pirate Bay

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innocenzo genna

I contenuti pubblicati dagli utenti devono essere autorizzati dai titolari dei diritti



Le grandi piattaforme di condivisione social quali Youtube ma anche website o forum online potrebbero avere grossi problemi in futuro qualora i loro utenti e lettori carichino sui loro server dei contenuti (in particolari video o file musicali) protetti da copyright. Tali operatori potrebbero infatti essere perseguiti dai titolari dei contenuti (produttori di film, majors, etichette discografiche) in base all’assunto che la piattaforma stessa abbia commesso un’infrazione del copyright. Si aprirebbe una lunga stagione di contenziosi e negoziazioni che investirebbe non solo le tradizionali piattaforme di video-sharing (Youtube è già impegnatissima su questo fronte in Italia con Mediaset) ma potenzialmente qualsiasi operatore online che ospiti contenuti di terzi per la condivisione: Facebook, giornali online, forum ecc.

Oggi infatti la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha statuito (sentenza nella causa C610/15 Stichting Brein/Ziggo BV, XS4ALL Internet BV) che la messa a disposizione su Internet di contenuti caricati da utenti costituisce una forma di “comunicazione al pubblico”, cioè un’attività che dovrebbero essere autorizzata o licenziata dagli aventi diritto, altrimenti si tratterebbe di un’infrazione. Allo stato attuale della normativa, le piattaforme social, così come gli altri intermediari online, sono normalmente protetti da queste situazioni, che sono imputate direttamente agli utenti che diffondono materiale non protetto (salvo poi il potere degli aventi diritto di chiederne alla piattaforma la rimozione). Ma la sentenza di oggi va un passo oltre, perché sembra suggerire una responsabilità diretta degli intermediari, non più indiretta come avveniva ora.

Occorre specificare che la Corte europea ha emesso la sentenza in un caso molto specifico, e cioè contro il sito The Pirate Bay, che della pirateria online ha da sempre fatto una battaglia politica ma anche un business. Per questo la Corte ha ravvisato una serie di circostanze che fonderebbero la responsabilità dei sui amministratori (ladri per uni, eroi per altri), in particolare: lo scopo del profitto; la consapevolezza, se non addirittura la volontarietà, delle infrazioni del copyright; l’indicizzazione e gestione dei vari files. Bisognerà quindi vedere se queste circostanze specifiche saranno sufficienti per riscrivere i rapporti (anche di forza) tra piattaforme online e industria tradizionale dei contenuti.

Tuttavia, il mondo Internet è già in fibrillazione e nei prossimi giorni fioriranno le analisi giuridiche sull’argomento. Sulla decisione della Corte di Giustizia abbiamo ricevuto anche un commento di Enzo Mazza, presidente della Federazione dell’industria musicale italiana:

«La decisione della Corte di Giustizia è molto importante in quanto chiarisce molti elementi che portano le piattaforme online ad essere responsabili per il caricamento di contenuti da parte degli utenti. La decisione è anche significativa per quanto riguarda la problematica del value gap e del ruolo di piattafome di video sharing come Youtube. Le posizioni dei giudici di Lussemburgo seguono in modo lineare il ragionamento già seguito a suo tempo dalla Cassazione italiana nel caso attivato da Fimi contro Pirate Bay . Ora questa decisione sarà fondamentale anche nel dibattito al Parlamento EU sulla proposta di direttiva copyright».

Il ristorante piu’ antico del mondo? Si trova a Madrid

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F. G.

La capitale spagnola da Guinness dei Primati: è qui infatti che si trova il ristorante piu’ antico del mondo, il cui edificio risale al 1590

Il ristorante piu' antico del mondo si trova a Madrid
©Botin.es

Il ristorante piu’ antico del mondo secondo il Record Guinness è il Sobrino de Botin e si trova a Madrid. Sembra, infatti, che le prime notizie riguardo ad una Casa Botin risalgano già al 1590. Fu quella l’epoca in cui venne edificato il palazzo che ancora oggi ospita il ristorante. E il momento in cui il proprietario della casa decise di aprire un’osteria per viandanti. La storia continua nel nel 1620 quando Plaza Mayor venne completamente trasformata. E in tutta l’area circostante nacquero una serie esercizi commerciali. In questi anni Jean Botin, giovane cuoco francese, decise di stabilirsi a Madrid rilevando l’antica osteria. Che in breve tempo divenne famosa per la sua ospitalità. Nel 1725 il nipote di Jean Botin decise di ristrutturarla, lasciando il grande camino in pietra, ancora oggi funzionante.

MADRID: LA STORIA DEL RISTORANTE PIU’ ANTICO DEL MONDO

Una nuova ristrutturazione avvenne agli inizi del XIX secolo, con l’ingresso ed il primo piano destinati ad accogliere i clienti mentre i piani superiori destinati all’uso della famiglia.  Si deve arrivare agli inizi del XX secolo per vedere la Casa Botin così come la si conosce oggi.  Quando venne rilevata dalla giovane famiglia Gonzalez formata da Amparo, il marito Emilio ed i loro tre figli. Dopo varie vicissitudini a causa della Guerra Civile che costrinse la famiglia a dividersi, ecco che il locale torna a nuova vita. Con la terza generazione dei Gonzalez è diventato oggi uno dei più conosciuti e tradizionali ristoranti della capitale spagnola.

RISTORANTE PIU’ ANTICO DEL MONDO: COME E’ OGGI

Occupa tutti e 4 i piani dell’edificio, struttura che è stata mantenuta il più possibile fedele all’originale locanda del 1700. La cucina tradizionale ed impeccabile è quella tipica castigliana e il servizio sempre attento e cordiale coccola i clienti. Due curiosità aumentano il fascino di questo simbolo cittadino. La prima riguarda Hemingway ed Emilio Gonzalez, ovvero nonno dei giovani proprietari attuali. I due erano legati da una forte amicizia, tanto che il celebre scrittore chiese più volte al proprietario del Botin di insegnargli a cucinare la paella, senza risultato alcuno. Inoltre sembra che nel 1760 la Casa Botin diede lavoro come lavapiatti ad un giovanissimo artista. Un ragazzo che si guadagnava da vivere in attesa di diventare uno dei più grandi e celebrati pittori spagnoli, ovvero Francisco Goya.

Foorban, la storia del ristorante digitale senza posti a sedere

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lorenza castagneri

La startup, nata a Milano poco meno di un anno fa, serve i suoi piatti solo su consegna: ecco come fa per mantenerli buoni



Come definire Foorban? Il ristorante senza posti a sedere. O come preferisce, Stefano Cavaleri, che lo ha inventato, «il ristorante con più coperti al mondo». 

«Dato che i nostri clienti si accomodano per pranzare direttamente al proprio tavolo, a casa o in ufficio - spiega -, i posti a sedere sono, in teoria, infiniti». A rendere possibile tutto ciò è, l’avrete capito, un servizio di delivery, diverso però da Foodora o Deliveroo. Perché qui si consegnano soltanto i piatti preparati da Foorban, ormai seicento in totale, cinque diversi ogni giorno, sani e pure più buoni perché pensati per essere serviti appositamente dopo il tempo di trasporto. 

«La nostra sfida più grande è la pasta. Per friggere utilizziamo la tecnica di spruzzare l’olio sul cibo, in modo che si mantenga croccante, mentre il polipo viene cotto sottovuoto perché resti morbido», racconta Cavaleri. Ma, al di là degli stratagemmi culinari, è la tecnologia che conta.



«Abbiamo messo a punto algoritmi che ci aiutano, per esempio, nella logistica, per individuare il percorso più ideale per i nostri rider in modo che il cibo arrivi a destinazione in perfetto stato, o, ancora, che servono a fare analisi predittive delle preferenze dei clienti per capire quali piatti riproporre o, al contrario, abbandonare, fermo restando il fatto che noi proponiamo soltanto menù con verdura di stagione».

Foorban si è fatto paladino del piatto unico bilanciato. Soltanto a marzo ne sono stati ordinati e serviti oltre quattromila, esclusivamente a pranzo e a Milano città. «Visto il successo, a breve il servizio si estenderà anche alla cena e il prossimo anno apriremo in altre città», rivela Caveleri, affiancato da altri due confondatori, Marco Mottolese e Riccardo Pozzoli. Dove è ancora top secret. Di sicuro a contribuire all’espansione saranno i 650mila euro del micro investimento appena ricevuto da un gruppo di investitori privati che si aggiungono ai 500mila già ricevuti l’anno scorso. Fondi che serviranno, pure, per finanziare il settore ricerca e sviluppo, il pilastro di ogni azienda. 

“È falso, ma di qualità”. E metà dei giovani sceglie il tarocco

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paolo baroni

Aumenta di intensità la lotta alla contraffazione, cresce la consapevolezza tra i consumatori, ma la qualità dei prodotti tarocchi a sua volta migliora sensibilmente e questo rende più difficile contrastare le attività di commercio illecito. È il paradosso che emerge da una indagine realizzata dalla società Field Service nell’ambito del progetto “Io Sono Originale” promosso dal ministero dello Sviluppo e dalle associazioni consumatori presentata in occasione della Settimana Anticontraffazione. 

Proteggere marchi e brevetti
Tra i giovani risulta molto alta la conoscenza del concetto di proprietà industriale (per le invenzioni, i loghi e il design creativo dati stabili tra l’80% e il 96% mentre è in aumento per i beni di consumo e le nuove soluzioni tecniche degli stessi) e comunque nel complesso più del’88,4% (in aumento rispetto al 2016) dichiara che è giusto tutelare le categorie proteggibili di cui sopra. Non solo, ma oltre il 92% dei giovani dichiara che è giusto considerare reato la contraffazione di prodotti industriali protetti da marchi o brevetti, l’80% la copia di un prodotto di design e il 75% la pirateria audio-visiva (in crescita di oltre 10% punti dal 2016). Di contro però il 50% degli intervistati dichiara di comprare contraffatto con consapevolezza. Questo deriva dal fatto che la qualità della merce contraffatta è migliorata, aumentando lievemente il rapporto qualità/prezzo (+ 3% dal 2016).

Cosa si compra
La merce più acquistata è in linea con le precedenti edizioni della ricerca: al primo posto ci sono gli accessori pelletteria (27,4%) seguiti da abbigliamento (26,8%), cd/dvd (21.9%), occhiali (19%), scarpe e gioielli (13,4% ciascuna), giocattoli (10%) e solo in penultima posizione (6% ) alimentari mentre i cosmetici (5,8%) rappresentano il fanalino di coda. Per quel che riguarda l’ambito alimentare un anello ancora debole, spiegano i ricercatori della Field Service, è rappresentato dalla ancora scarsa conoscenza del fenomeno dell’ Italian Sounding: se la contraffazione può essere legalmente impugnabile e sanzionabile, la stessa cosa non vale per i prodotti che imitano un prodotto, denominazione o un marchio con richiami alla presunta italianità.

Un settore dove l’acquisto di contraffatto è invece minimo (10% dato stabile) è quello dei giocattoli, a dimostrazione del fatto che la sensibilizzazione sul tema sicurezza – sostengono le associazioni dei consumatori raccolte nella Cncu, ha avuto effetto. Oltre il 71% dichiara infatti che i prodotti contraffatti possono diventare pericolosi per se stessi e per la famiglia.

Ma le multe non servono
Più in generale il 61,4% di chi ha comprato contraffatto ha dichiarato di aver diminuito l’acquisto di tali prodotti, mentre solo il 2,9% ha aumentato a fronte di un 35,7% che non ha modificato le sue abitudini di acquisto. Tra le motivazioni di questo comportamento c’è l’aumento considerevole di oltre 5% punti dell’opera di sensibilizzazione della istituzioni, ma la delusione della qualità/durata del prodotto contraffatto è in diminuzione di circa 9% rispetto al 2016. Proprio per questo tra i metodi più suggeriti dai consumatori per disincentivare questo tipo di acquisti risulta essere quello di “evidenziare la differenza di qualità tra marca e contraffatto” e di “incrementare la trasparenza e la tracciabilità dei prodotti”, mentre la “multa” per chi acquista contraffatto è invece ritenuta meno persuasiva anche perché il consumatore ritiene insufficiente l’azione delle autorità nella piccola distribuzione, nei negozi tradizionali e chiaramente nel commercio on line.

La campagna “Io Sono Originale”
Per aumentare il livello di auto-tutela del consumatore e coinvolgere e stimolare il consumatore ad impegnarsi in modo attivo nella lotta alla contraffazione nell’ultimo anno è proseguita la campagna di comunicazione e di informazione sul territorio nazionale e sul web: tra l’altro sono stati realizzati 40 road show e 30 flash mob nelle principali piazze Italiane e nei luoghi di maggior frequentazione, come le piazze, i mercati e i centri commerciali. E sono proseguite le campagne sui social e nelle scuole per coinvolgere in particolare i giovani. In parallelo sono stati lanciati anche un videogioco ed un concorso a premi.

Via libera dalla Cassazione all’iscrizione all’anagrafe di Venezia di un bambino come figlio di due donne

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Via libera dalla Cassazione all’iscrizione all’anagrafe di Venezia di un bambino come figlio di due donne, cittadine italiane coniugate all’estero, una delle quali aveva partorito a Londra il piccolo nato con fecondazione eterologa. L’ufficio dello stato civile britannico aveva registrato il bambino come figlio di entrambe le `mamme´. La coppia aveva chiesto di fare altrettanto agli uffici veneziani ricevendo un `no´. Per gli ermellini invece, al richiesta della coppia, «non è contraria all’ordine pubblico internazionale». 

Nel suo verdetto, la Cassazione non ignora ed anzi ricorda che la legge 40 sulla procreazione assistita, pur dopo gli interventi della Consulta che hanno ampliato la possibilità di ricorrere alla fecondazione eterologa, prevede tuttora dei `paletti´ stabilendo che «i conviventi siano di sesso diverso e che la procreazione assistita si effettui in caso di sterilità della coppia». «Tuttavia, trattandosi di fattispecie effettuata e perfezionata all’estero e certificata dall’atto di stato civile di uno Stato straniero, si deve necessariamente affermare», è l’avviso della Suprema Corte, «che la trascrizione richiesta non è contraria all’ordine pubblico (internazionale)».

A questa posizione, la Cassazione è arrivata sequendo la giurisprudenza della Corte dei diritti umani che mette in primo piano «la preminenza dell’interesse del minore nonchè il suo diritto al riconoscimento ed alla continuità delle relazioni affettive anche in assenza di vincoli biologici ed adottivi con gli adulti di riferimento, all’interno del nucleo familiare». 

Guareschi: “Insultai Mussolini per la morte di mio fratello”

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Giovanni Terzi

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Giovannino Guareschiè lo scrittore italiano in assoluto più apprezzato e più letto nel mondo: oltre 20 milioni di copie dei suoi libri sono stati venduti e si continuano a vendere, tradotti in decine di lingue, mentre i film su Don Camillo e Peppone, ispirati ai suoi romanzi, continuano a spopolare ovun­que. Umorismo, ilarità, buon gusto, allegria sono le caratteristiche delle opere del grande scrittore emiliano. Ma la serenità non fu la cifra della sua vita. Prima vittima di una giustizia ingiusta, Guare­schi morì al suo secondo infarto, nel 1968, all’età di 60 anni, dopo avere superato il primo nel ’61.

Possiamo dire, oggi, che quel­la ingiusta condanna subita, quell’anno e passa di detenzio­ne trascorso nel carcere di San Francesco del Prato, a Parma, influì in maniera determinan­te sulla sua salute?
«Le rispondo con una mia frase: “Ho dovuto fare di tutto per soprav­vivere, tuttavia tutto è accaduto perché mi sono dedicato ad un pre­ciso programma che si può sintetizzare con uno slogan. “Non muoio neanche se mi ammazzano”».

Lei ebbe una giovinezza molto movimentata, non è così?
«Beh,sì,nel ’36,a 28 anni non ancora compiuti, ero già redattore capo, oltre che vignettista e illustratore, del Bertoldo , la rivista satirica di Rizzoli diretta prima da Cesare Za­vattini, poi da Giovanni Mosca. Ma i guai mi arrivarono addosso nel ’42, quando mi comunicarono la notizia- poi per fortuna rivelatasi non vera che mio fratello, militare nell’Armir, era morto in Russia. Non ci vidi più ed esplosi in una serie di insulti nei confronti di Mussolini».

E cosa accadde?
«Che qualcuno tra i presenti corse a riferire alla polizia. Fui arrestato e condannato a tornare sotto le armi: artiglieria. Dopo l’8 settembre, all’ordine di passare al servizio della Repubblica Sociale Italiana, risposi no. Non mi sognavo neppure di rinnegare il giuramento di fedeltà al Re ».

Già, è vero, un monarchico come lei…
«È la verità. Quel mio no ai fascisti di Salò lo pagai con due anni di deportazione nei Lager nazisti, prima in Polonia, poi in Germania. Ne ricavai Diario clandestino, il mio primo libro di successo».

Al ritorno in Italia, fondò «Candido », sempre con Rizzoli, e diede inizio ad una durissima campagna per impedire che i comunisti conquistassero il potere. Indimenticabili e insu­perabili le sue vignette contro i «trinariciuti». A proposito, qual era la funzione della terza narice?
«Far defluire la materia cerebrale e fare entrare direttamente nel cervello le direttive del partito. Devo dire che non fu una battaglia persa. Molti storici hanno attribuito a Candido e alla sua campagna gran parte del meri­to della vittoria democristiana alle elezioni del ’48».

Giovannino_Guareschi_nel_1945

Ricordo il favoloso appello lanciato dalla copertina di «Candido »: «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no».
«Non fu il solo. Lanciai un manife­sto, da me disegnato, con lo schele­tro di un soldato italiano ucciso in un campo di prigionia sovietico dalla cui bocca uscivano queste parole: “Mamma, cento­mila prigionieri italiani non sono tornati dalla Russia. Votagli contro anche per me”».

Gli anni dal ’48 al ’54, quando scoppiò il «caso De Gasperi», furono quelli di maggior suc­cesso, per «Candido».
«Se continuavo a cercarmi dei guai, non era perché fossi ambizioso o pazzo. Non perché avessi mire “politiche”. Ma perché, rinuncian­do io a parlare, avrei tolto la possibilità di parlare a tutti. Iniziai a preoccuparmi dopo la condanna per il “caso De Gasperi”. E  non per me, ma per la libertà e la verità. Motivi di preoccupazione che, a quanto vedo, non sono ancora venuti meno in Ita­lia ».

Parliamo adesso delle sue vicende giudiziarie.
«Non mi querelò solo il presidente del Consiglio, ma anche il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi. Per una vignetta disegnata da Carletto Manzoni che riportava un’etichetta del vino Nebbiolo prodotto nelle terre della famiglia Einaudi, con la scritta “presidente”. Un “conflitto d’interessi”, si direbbe oggi. Al processo mi presentai io, in quanto direttore responsabile di Candido , e mi affibbiarono 8 mesi di reclusione con la condizionale. Era il 1950».

Quattro anni dopo, la «bom­ba » De Gasperi
«Tutto ebbe inizio quando Enrico De Toma, un ex ufficiale della Rsi che aveva ricevuto da Mussolini l’incarico di mettere al sicuro in Svizzera una copia del suo carteggio riservato, vendette quei documenti all’editore Rizzoli. Uno scoop colossale. Il settimanale Oggi, diretto da Edilio Rusconi, iniziò a pubblicare le carte, ma, dopo solo tre settimane, la pubblicazione fu interrotta senza dare spiegazione. Volli ficcare il naso in quegli incartamenti. Scoprii due lettere che De Gasperi aveva in­viato da Roma al colonnello inglese Bonham Carter, a Salerno, sollecitando il bombardamento della periferia di Roma per spingere la popolazione a ribellarsi ai tedeschi ».

E lei decise di pubblicarle. Perché?
«Perché De Gasperi, venendo meno all’impegno preso nel ’48, stava aprendo ai socialisti di Nenni. Non potevo certo essere d’accordo. Da qui la mia decisione di pubblicare le due lettere».

Si disse (e la sentenza confermò questa opinione) che i documenti di quel carteggio erano dei falsi fabbricati durante la Rsi.
«Fui in grado di rendermi facilmente conto che i documenti del carteggio erano autentici».

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Il Tribunale di Milano rifiutò la perizia grafica. E lei fu condan­nato ad un anno di reclusione.
«In tutta quella faccenda tennero conto dell’“alibi morale” di De Gasperi e non ammisero neppure che io potessi possedere il mio “alibi morale”. Me lo negarono. Negarono tutta la mia vita, tutto quello che io avevo fatto nella mia vita. Scriverò: “Mi avete condannato alla prigione? Vado inprigione”».

Nel quale restò non un anno soltanto, ma ben 409 giorni, perché alla condanna del processo De Gasperi si aggiunse quella del processo Einaudi.
«Esatto. Più altri sei mesi di “libertà vigilata”, ottenuta per “buona condotta”. Primo e unico giornalista italiano a scontare interamente in carcere una condanna per diffamazione a mezzo stampa. Lo scopo era di tappare la bocca a Candido. E il potere giudiziario, ovvero il “terzo potere”, si prestò. Nel ’61, dopo che ebbi il mio primo infarto, Candido cessò le pubblicazioni».

E il «quarto potere»?
«Ai miei funerali c’erano soltan­to due giornalisti: Nino Nutrizio, direttore de La Notte e mio grande amico, ed Enzo Biagi, emiliano come me ».

Il nuovo malware russo

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ilgiornale.it
Lorenzo Vita

Secondo gli analisti di Dragos, società d’intelligence che da anni tratta il tema della cyber-guerra, le autorità russe avrebbero messo a punto il più potente sistema di attacco per colpire le reti elettriche degli Stati. L’arma, progettata da esperti informatici russi e da hacker che collaborano con il Cremlino, è stata denominata CrashOverride, ed è un malware che potrebbe avere effetti devastanti nei sistemi elettrici civili e militari delle prossime guerre in cui sono impegnate le forze di sicurezza russa. Secondo le analisi di Dragos, riprese anche dal Washington Post, il malware sarebbe già stato testato a dicembre del 2015 sul fronte ucraino. Lo scorso inverno, il malware avrebbe penetrato i sistemi di sicurezza del gestore dell’energia elettrica ucraino Ukrenergo, provocando un blackout che ha lasciato per ore al buio molte zone di Kiev.

Il malware creato dalle forze russe non sarebbe il primo appositamente progettato per attaccare le reti elettriche di uno Stato. Già negli anni precedenti, Stuxnet, malware generato da Israele e Stati Uniti, fu utilizzato per colpire il progetto nucleare iraniano attaccando i sistemi delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio nelle centrali di Teheran. Se però Stuxnet era un malware malevolo teso a sabotare un particolare tipo di sistemi all’interno delle centrali elettriche, tendenzialmente idoneo a danneggiare silenziosamente un particolare obiettivo, CrashOverride avrebbe al contrario l’obiettivo di colpire manifestamente le reti elettriche dei gestori privati. In sostanza sarebbe stato creato con l’apposito scopo di sabotare il sistema per colpire i servizi essenziali di una città o direttamente provocare blackout che colpirebbero la popolazione.

Il malware ha destato preoccupazione soprattutto negli Stati Uniti, perché il malware avrebbe la particolarità di colpire esclusivamente i sistemi di controllo di apparati industriali e di gestioni delle reti elettriche di uno Stato. E perché basterebbero soltanto piccole modifiche al virus per renderlo letale anche per le reti elettriche degli Stati Uniti. Un pericolo che la difesa nazionale americana ha già da tempo posto in cima alla lista degli aggiornamenti al sistema di sicurezza degli Stati Uniti e in cui sembra che gli avversari sullo scenario internazionale, cioè Cina e Russia, siano molto più avanti.

Chi ci sia dietro la creazione di questo nuovo malware è ancora, evidentemente, un mistero, La società Dragos, citata dal Washinton Post, ha ritenuto che dietro questa nuova arma informatica vi possa essere lo stesso gruppo che tra il 2015 e il 2016 attaccò le reti ucraine con il virus BlackEnergy. In quelle settimane, il malware lasciò mezzo milione di ucraini senza corrente elettrica per molte ore, e fu un segnale notevolmente sottovalutato da parte delle intelligence occidentali. In quell’occasione, BlackEnergy colpì in particolare la rete elettrica dell’oblast di Ivano-Frankivskz, nella zona occidentale del Paese. L’intelligence ucraina additò immediatamente i russi come artefici dell’attacco, ma la notizia fu liquidata in breve come un attacco facilmente neutralizzabile. In realtà, non era così semplice come hanno creduto.

L’attacco alle reti elettriche, con un particolare sistema d’infezioni che usavano per tramite Microsoft Office, doveva essere il segnale di una crescita di know-how da parte di chiunque fosse stato l’autore dell’attacco, perché a detta dei maggiori esperti, l’essersi inseriti all’interno delle reti dell’energia elettrica dimostrava un’abilità degna dei migliori pirati informatici a livello mondiale. Oggi, la notizia della creazione di CrashOverride mette di nuovo in allarme tutti i Paesi occidentali, che si sentono particolarmente vulnerabili in tema di attacchi alla cyber-sicurezza.

Negli ultimi mesi, i Paesi colpiti dal malware Wannacry hanno già ampiamente dimostrato l’impreparazione dei loro sistemi di sicurezza di fronte a questa minaccia. In quel caso, la Russia fu uno dei Paesi maggiormente colpiti dall’attacco hacker, nonostante i media si siano concentrati sul Regno Unito e sulla Spagna. Segno che la cosiddetta cyber-war è una guerra internazionale che miete vittime in ogni Paese e che non ha, attualmente, vincitori né vinti. Il problema, tuttavia, è che in questi mesi gli attacchi di pirateria informatica sembrano concentrarsi non più su obiettivi militari o di strutture statali in particolare, ma su servizi essenziali che vanno a ledere sulla vita dei cittadini. Una forma di assedio 2.0 in cui Russia, Stati Uniti, Cina e loro alleati stanno conducendo passi da gigante per rendersi pronti in caso di conflitto.

Archiviare e nascondere le foto su Instagram: ecco come si fa

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andrea nepori

Il social network fotografico ora permette di rendere privati i vecchi post, in modo che siano visibili solo al proprietario dell’account. Vi spieghiamo come fare



Instagram ha introdotto una nuova funzione di archiviazione dei post, molto utile per rimuovere dal proprio profilo una vecchia foto compromettente, brutta o semplicemente non più adatta alla visualizzazione pubblica da parte degli altri utenti. Finora il social network, parte della famiglia di Facebook dal 2012, non consentiva di eseguire alcuna operazione analoga, tutti i post presenti in un profilo erano automaticamente pubblici, a meno che il profilo stesso non fosse impostato come privato.

Per utilizzare la nuova funzione di archiviazione basta aprire la foto da nascondere e poi fare tap sull’icona con i tre puntini in alto a destra.Tra le opzioni che compariranno nel menu adesso c’è anche “Archivia”. Dal medesimo menu è possibile disattivare i commenti alla foto, modificare il testo del post, condividerlo o eliminarlo. La cancellazione, prima dell’ultimo aggiornamento, era l’unica (drastica) soluzione per impedire la visualizzazione pubblica del post.



Le foto archiviate rimangono visibili all’utente in una schermata a parte, cui si può accedere dall’icona dell’orologio in alto a destra nel profilo utente. Qualora si volesse ripristinare la visibilità pubblica del post basterà selezionare l’immagine, fare di nuovo tap sui tre puntini in alto a destra e poi su “Mostra nel profilo”. La fotografia tornerà al posto originale nel feed dell’utente, in base alla data in cui era stata pubblicata originariamente. «Il tuo profilo è una rappresentazione di chi sei, ed evolve con te nel tempo», hanno detto da Instagram per motivare l’aggiunta dell’opzione di archiviazione. «Grazie a [questa funzionalità], ora hai più flessibilità nel plasmare il tuo profilo conservando allo stesso tempo i momenti che contano».

Un cane ha aspettato per tre anni la sua proprietaria all’ingresso di casa

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cristina insalaco



Ha aspettato la sua proprietaria davanti all’ingresso di casa per tre anni, senza sapere che nel frattempo lei era stata portata in una casa di riposo, a causa della sua demenza senile. E’ successo in Corea del Sud, e il quattro zampe si chiama Fu Shi. Si erano incontrati alcuni anni prima, quando la signora, già anziana, aveva trovato il cane mentre vagava senza una meta per le strade della città di Busan. E aveva deciso di adottarlo. La coppia ha vissuto insieme felicemente fino a quando la padrona è stata colpita da un’emorragia celebrale che l’ha portata alla demenza. Per questo è stata ricoverata d’urgenza in una casa di riposo della zona. Ma il cane non è potuto venire con lei.



I vicini di casa, che lo vedevano davanti all’abitazione tutti i giorni, hanno iniziato prima a dargli del cibo, poi si sono preoccupati e hanno chiamato un veterinario: «Il cane tornava in casa solo la sera - dicono - ma rimaneva davanti all’abitazione tutto il giorno nell’attesa di rivedere la signora. Era evidente che l’animale aveva bisogno di aiuto». 

Diamo i ratti ai rom

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mattia feltri

Se foste il sindaco di una grande città afflitta dalla piaga delle buche, che fareste? Voi direte: aggiusterei le buche. Sbagliato. Lo dite perché appartenete alla vecchia politica, che aggiustava le buche, e magari sui lavori ci ricavava qualche mazzetta per il partito o le vacanze al mare. La nuova politica invece non aggiusta le buche: abbassa i limiti di velocità. Geniale, vero? A Roma è stato posto il limite di 30 chilometri orari, col cartello «strada dissestata», su tre vie ad ampio scorrimento, fra la Salaria e l’Aurelia. Che poi sia impossibile percorrerle a trenta all’ora, sono cavoli degli automobilisti. 

Ma se la velocità conosce limiti, il genio no: in altre due vie, più piccole, è appena stato posto il divieto di superare i 10 all’ora (ma c’è il 10 sul tachimetro?) perché il manto stradale è pericoloso. Non ridete. Potrebbe essere un’inversione di prospettiva buona per tutti i mali. Pagate troppe tasse? Facile: guadagnate di meno e si abbasserà l’imponibile. Ci sono le formiche nei letti d’ospedale? E voi restate in salute. Care amiche donne, avete paura del femminicidio?

Diventate lesbiche. Non si sentivano soluzioni così brillanti dai tempi di Jonathan Swift che, per affrontare il flagello della fame in Irlanda, propose di mangiare i bambini dei poveri. Ecco, per esempio, va trascurata l’ipotesi di eliminare dalla capitale ratti e mendicanti dando da mangiare le pantegane ai rom? Che poi, a pensarci bene, se i limiti di velocità vengono portati da 10 a 0, in un colpo solo risolviamo anche il problema del traffico. 

Prima gli italiani

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mattia feltri

Dibattito in Parlamento sullo ius soli. Ferito numero uno: il ministro dell’Istruzione, Valeria Fedeli, che durante un assalto dei senatori leghisti ai banchi del governo all’aula di Palazzo Madama è caduta ed è stata medicata in infermeria con cerotti e antidolorifici, ma ha rassicurato tutti via Twitter. Ferito numero due: Gianmarco Centinaio, capogruppo della Lega, che nel corso della suddetta rissa è stato ferito a una mano da ben sette commessi del Senato, ed è stato medicato alla buvette con del ghiaccio provvidenzialmente sottratto al Campari. 

Feriti numero tre e numero quattro: due ragazzi di CasaPound che, col resto della truppa di nerboruta destra, cercavano di raggiungere il Senato (ignari che dentro se la stessero cavando benissimo anche senza di loro), e sono stati fermati dalla polizia a manganellate (com’è ironica certe volte la vita). Feriti numero cinque, sei eccetera fino al sessantotto: sessantaquattro manifestanti di Forza Nuova, dunque sempre di nerboruta destra, denunciati perché pure loro cercavano di raggiungere il Senato, cantando inni fascisti e salutando romanamente, e sono stati bloccati con gli idranti.

Quindi feriti nell’orgoglio, ma feriti. Ferito numero sessantanove: il presidente Piero Grasso che appena prima di questi edificanti accadimenti si è preso ben tre «vaffanculo» dal senatore leghista Raffaele Volpi. Anche lui ferito nell’autorevolezza, ma ferito. Cerchiamo di vedere il bicchiere mezzo pieno: se le sono date fra di loro. Prima gli italiani.

L'isola del Diavolo è stata un vero inferno ed è ancora oggi off-limits

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noemi penna



L'isola del Diavolo esiste. Ed è la più piccola delle tre isole du Salut, al largo della Guyana francese. Un piccolo paradiso off-limits, che è stato l'inferno per molti: dal 1852 al 1946 fu infatti un famigerato penitenziario, che ospitò, fra gli altri, anche il capitano Alfred Dreyfus.



La prigione venne istituita dall'Imperatore Napoleone III, che approvò anche una legge secondo la quale i detenuti dovevano restare nella Guyana francese dopo il loro rilascio, per un tempo uguale a quello passato ai lavori forzati. Gli ultimi prigionieri vennero spediti dalla Francia alla parte opposta del mondo nel 1938 mentre la dismissione definitiva dei locali è avvenuta soltanto nel 1953. Ma ancora rimane privata.



Inutile nascondere che su quest'isola aleggiano numerose leggende. Molti detenuti la consideravano maledetta, nonché impossibile da lasciare. La storia più famosa - «Papillon» - è diventata un best seller del 1970, scritto dall'ex detenuto Henri Charrière. Nel libro vengono raccontati innumerevoli tentativi fallivi di fuga, approdati anche al cinema nell'omonimo film interpretato da Steve McQueen e Dustin Hoffman.



Oggi l'isola del Diavolo è ancora off-limits: si può far giusto un giro in elicottero sopra l'ex colonia penale, per vedere i resti degli edifici ormai invasi dalla giungla. Ma si può sbarcare sulla vicina Isle Royale, in cui Charrière fu imprigionato prima della sua fuga, sulle cui spiagge di fronte all'isola del Diavolo sono ancora affissi cartelli di pericolo e divieto.

I cinquant'anni di Quella sporca dozzina: dieci cose che (forse) non sapevi sul film

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Autore: Marco Triolo (Nexta)

Il capolavoro bellico di Robert Aldrich compie mezzo secolo. Ecco i segreti del film svelati

Quella sporca dozzina 

Era il 15 giugno 1967 quando Quella sporca dozzina vide il buio delle sale americane per la prima volta. Robert Aldrich, il regista di Piano... piano, dolce Carlotta e Che fine ha fatto Baby Jane?, portò al cinema il romanzo di E.M. Nathanson, firmando uno dei classici assoluti del genere bellico americano. Charles Bronson, Telly Savalas, John Cassavetes, Donald Sutherland, Trini Lopez e il campione di football Jim Brown sono tra i protagonisti del film, un gruppo di soldati colpevoli di crimini di guerra, selezionati e addestrati dal duro Lee Marvin per una missione ad alto rischio. Se aggiungiamo Ernest Borgnine e George Kennedy, quello che si profila è un cast vecchio stampo, quel genere di ensemble che la vecchia Hollywood spesso sfoggiava per traghettare un film in sala e fargli incontrare i favori del pubblico. Che accorse in massa, decretando lo straordinario successo di un film che, cinquant'anni dopo, non ha perso un'oncia del suo fascino. Per festeggiarlo, scopriamo dieci segreti che forse non sapevate del film.



Lee Marvin, larger than life. L'attore è uno dei massimi “duri” della vecchia Hollywood e, anche nella vita reale, era uno che non le mandava a dire. Marvin definì il film “una stupida macchina per soldi”, assolutamente irrealistica nel suo ritratto della guerra (che lui aveva fatto per davvero, e infatti fece anche da consulente alla produzione). Eppure apprezzava Robert Aldrich e lo aveva definito “un uomo fantastico con cui lavorare”.Il demone della bottiglia. Marvin aveva anche un grosso problema all'epoca: il vizio del bere. Si presentava spesso ubriaco sul set e Charles Bronson finì per irritarsi al punto da minacciare di prendere a pugni il collega.



Troppo vecchi per essere veri. Il film si prende una discreta libertà sull'età dei protagonisti. Nel romanzo, Reisman è un capitano sui trent'anni. Nel film fu reso maggiore perché Marvin aveva 42 anni. Anche gli altri attori erano tutti troppo vecchi per interpretare soldati al fronte, e Marvin si lamentò di questo con la produzione. Veterani per davvero. Lee Marvin, Telly Savalas, Charles Bronson, Ernest Borgnine, Clint Walker, Robert Ryan e George Kennedy avevano realmente combattuto nella Seconda Guerra Mondiale.



Allegoria contro il Vietnam. Il regista Robert Aldrich considerava il film un'allegoria contro la guerra in Vietnam. Era un'epoca, inoltre, in cui l'eroismo dei soldati della Seconda Guerra Mondiale stava cominciando a venire ridimensionato proprio per via degli eventi paralleli in Vietnam. E infatti Quella sporca dozzina è uno dei primi film a mostrare soldati Alleati commettere crimini di guerra al pari dei Nazisti. La fortuna di Donald. Donald Sutherland ottenne il ruolo in M.A.S.H., che gli aprì la strada della fama, grazie soprattutto alla scena di Quella sporca dozzina in cui finge di essere un generale e ispeziona i soldati di Robert Ryan. La scena era stata scritta per il personaggio di Clint Walker, ma l'attore non se la sentì di girarla e Aldrich la affidò a Sutherland.



Jim Brown va in pensione. Il campione dei Cleveland Browns avrebbe dovuto recarsi in America per l'allenamento in vista della nuova stagione di football, ma era a Londra sul set di Quella sporca dozzina, le cui riprese erano per giunta state prolungate. Art Modell, proprietario della squadra, minacciò di multarlo di 1.500 dollari per ogni giorno di ritardo. Brown lo prese in contropiede e annunciò il suo ritiro in una conferenza stampa, a soli trent'anni e con una carriera professionale di nove anni (e numerosi record) alle spalle. Ciao ciao, Trini. Il cantante Trini Lopez muore molto presto nell'atto finale del film, addirittura durante il lancio in paracadute. Il motivo è semplice: Frank Sinatra aveva consigliato a Lopez di lasciare il film, perché secondo lui i ritardi nella lavorazione avrebbero compromesso la sua carriera musicale. Lopez seguì il consiglio e Aldrich decise così di farlo fuori subito.



Tagliatevi quei capelli. Lee Marvin raccontò che Robert Aldrich aveva chiesto agli attori di tagliarsi i capelli in maniera coerente con gli stili del periodo in cui era ambientato il film. Marvin si presentò con un taglio a spazzola, gli altri invece si limitarono ad accorciare un po' i loro tagli attuali. Aldrich diede loro una scelta: o presentarsi con i capelli tagliati a modo, o chiamare i loro avvocati.
L'ispirazione della storia. A quanto pare, E.M. Nathanson trasse ispirazione da una storia vera, per scrivere Quella sporca dozzina. Una storia raccontatagli dal futuro regista Russ Meyer, che aveva lavorato come cameraman al fronte. Meyer aveva girato alcuni filmati su un gruppo di prigionieri in un carcere militare, condotti in una base segreta per essere addestrati e mandati dietro le linee nemiche nel D-Day, dove avrebbero commesso atti di sabotaggio e omicidi mirati. Il gruppo veniva chiamato “la sporca dozzina” perché i soldati rifiutavano di lavarsi e radersi. Ovviamente, a questi era stata promessa totale amnistia se fossero tornati vivi. Ma nessuno tornò.
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