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E’ morto Yuri Drozdov, leggendaria spia sovietica

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È morto Yuri Drozdov, uno dei protagonisti della Guerra fredda delle spie. Drozdov fu a capo per lungo tempo, a partire almeno dal 1979, della branca del Kgb dedita alle azioni «illegali» in territorio straniero: finzione, travestimenti, infiltrazioni, soprattutto in quella parte dell’Asia in cui ancora oggi è in vigore «Il grande gioco» (la definizione è di Artur Conolly, ufficiale dell’esercito britannico che la conio’ per descrivere i movimenti diplomatici e segreti delle grandi potenze in quell’area geografica). 

Drozdov, infatti, prese parte all’invasione sovietica dell’Afghanistan, che durò fino al 1989, lavorando alla caduta dell’allora presidente Hafizullah Amin. Lo 007 russo, la cui vita resta avvolta da un mistero chiuso negli archivi dei servizi segreti di Mosca, si era fatto notare ben prima, all’età di 32 anni, nel 1957, quando giocò un ruolo importante in uno dei più drammatici episodi della Guerra Fredda: lo scambio tra l’agente segreto russo, Rudolf Abel, catturato dall’Fbi, e Gary Powers, pilota americano finito nelle mani di Mosca nel 1962. Ricostruito nel 2015 nel film «Il ponte delle spie» di Steven Spielberg, lo scambio avvenne nel 1962 sul ponte Glienecke, che collegava Berlino ovest a Potsdam, nella parte controllata dai sovietici.

Il governo russo ha dato l’addio a Drozdov salutandolo come un «saggio comandante e un vero ufficiale russo». In uno dei suoi romanzi lo scrittore ed ex spia britannica Frederick Forsyth lo ha definito «la figura più importante tra i padri dello spionaggio russo». 

Donne forti e uomini ostinati: la vita dei migranti dell’800

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paola guabello

Nel Biellese un museo dedicato agli artigiani delle montagne



Quindici stanze e più di mille oggetti (senza contare le decine di fotografie d’epoca dai grigi un po’ sbiaditi) che raccontano la vita della gente di montagna alla fine dell’800. Vita dura per donne forti: quelle che restavano in Alta Valle del Cervo (in dialetto la Bürsch, la tana, la casa) a combattere l’«ostilità della natura» che le circondava, in un territorio fatto di un suolo avaro, pochi pascoli, silenzi e raggi di sole rubati a un inverno sempre troppo lungo.

Rosazza è un piccolo paese dai tetti in «lose», calato in una valle stretta da due versanti scoscesi. L’attraversano un torrente pescoso e una rete di mulattiere che portano in quota e che, come il centro abitato, sono tempestate da sculture di pietra. L’autore è Giuseppe Maffei che fu «assoldato» dal senatore e filantropo Federico Rosazza, appassionato d’arte e di occultismo, per dare grazia all’austera valle. In una antica abitazione d’impianto settecentesco, incastonata in un vicolo dove l’ombra regna sovrana, tra giugno e ottobre da trent’anni, la Casa museo della Valle Cervo accoglie visitatori e ricercatori, per raccontare loro una storia lontana. 



Alle pareti, fra scaffali e mobili, gli oggetti descrivono gli anni in cui l’emigrazione degli uomini condannava mogli e promesse spose alla solitudine e a un’economia domestica povera, fatta di attesa e di pazienza. Gli abitanti della Bürsch erano imprenditori (pochi ma notevoli), provetti scalpellini e muratori specializzati nella lavorazione dell’unica «ricchezza» che il luogo offriva loro, la sienite, una varietà di granito di pregio, ideale per l’edilizia e apprezzato in tutto il mondo.

Da un piano all’altro
Il percorso si dipana su quattro piani e un sottotetto, dove un’esposizione, articolata per ambienti di vita e per temi, porta dalla stalla alla cucina, dal «laboratorio» per la lavorazione della sienite fino agli ambienti più intimi in cui si trovano biancheria e camicie da notte ricamate e pure gli «scapin», simbolo perfetto di un sapere antico tramandato di madre in figlia ancora fino a pochi anni fa. Gli «scapin» sono le «scarpe» tipiche della Bürsch, fatte di stoffa la cui tomaia, per essere robusta, era ricavata da più strati di tessuto cuciti insieme con mille punti. 

SCUOLE PROFESSIONALI E SOCIETA’ OPERAIA
Uno spazio della casa è dedicato anche alle scuole professionali a indirizzo edile, caratteristiche del luogo, e agli ambienti delle tre società operaie di mutuo soccorso, che si contendevano gli scalpellini. 
Anima dell’istituzione è Gianni Valz Blin, architetto di origini valligiane che ereditò dal padre la passione per l’etnografia: «Com’é nata l’idea della Casa museo? Nel 1964, con un gruppo di studiosi guidato da Alfonso Sella, allestimmo una mostra durante la quale i visitatori ci suggerirono di creare un’esposizione permanente di tutto il materiale raccolto.

Finalmente nell’84 acquistammo l’edificio per contenerlo (i fondi furono stanziati da due privati e dalla Comunità montana). Si inaugurò nel 1987: eravamo l’unica struttura museale aperta nel Biellese e contavamo 250 visitatori ogni domenica, decine di scuole, gruppi e associazioni: dalla primavera all’autunno si arrivava a 4000 visitatori l’anno, tutti accolti da volontari. Ora sono aperte 14 cellule ecomuseali nel Biellese, ma il 9 luglio noi festeggeremo il trentennale con un evento e la presentazione del libro dedicato a questo anniversario». 

E in prima linea, come sempre, ci saranno le donne. Si chiamano «valete an gipoun» e vestono il costume tradizionale fatto di ampie gonne di lana e scialli ricamati. L’unico gruppo «organizzato» in abiti tradizionali che il Biellese possiede e che non manca mai agli appelli della Casa museo: sono le valete, parte integrante dell’istituzione, a mettere in risalto il valore e il ruolo della donna che abitava la Bürsch.

L’iPhone diventerà una cartella clinica elettronica

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enrico forzinetti

Apple vorrebbe trasformare il suo smartphone in un database completo di informazioni sanitarie degli individui, collezionando in un unico luogo referti, esami e prescrizioni mediche



Basta con le cartelline in cui si tiene in modo disordinato la documentazione medica: l’iPhone potrebbe presto diventare il database in cui collezionare versioni digitali di referti, visite, analisi e prescrizioni riguardanti la propria storia clinica. Lo riporta la Cnbc , secondo cui Apple sarebbe al lavoro per trasformare il proprio smartphone nel custode di tutte le informazioni sanitarie degli individui.

Un’idea che andrebbe oltre la semplice registrazione di dati legati al benessere e all’attività fisica della persona, con un obiettivo ben preciso: mettere fine alla frammentazione di queste informazioni che rischiano di andare perse con il passare degli anni. Il tutto nell’ottica di rendere poi disponibile a medici e ospedali il quadro clinico completo della persona, quando necessario.

A confermare l’interesse del colosso di Cupertino verso un progetto di questo tipo ci sono anche i contatti con altri gruppi attivi nel campo sanitario. Tra questi The Argonaut Project, che lavora per realizzare standard comuni per la trattazione di dati sensibili, e The Carin Alliance, che si occupa di aiutare i pazienti a gestire tutte le informazioni mediche.

Non è la prima volta che Apple si impegna nel campo della salute dei propri utenti. Oltre ad aver introdotto l’app Salute dove raccogliere dati su parametri fisici, alimentazione, ciclo delle sonno e attività delle persone, un paio di mesi fa si è diffusa la notizia di un progetto per inserire un sensore per controllare il diabete all’interno dell’Apple Watch.

Dimettititù

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mattia feltri

L’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ieri ha chiesto le dimissioni di Virginia Raggi. Che problema c’è? Qualche anno fa era Beppe Grillo a chiedere le dimissioni di Alemanno. Ieri Renato Brunetta ha chiesto le dimissioni del ministro Padoan. Matteo Salvini invece ha chiesto le dimissioni del premier Gentiloni. Questo solo ieri. 

Nell’ultima settimana, il Movimento cinque stelle ha chiesto le dimissioni del senatore Formigoni, del presidente della Rai, Monica Maggioni, e di tutto il Cda, metà Parlamento ha chiesto le dimissioni di Luca Lotti, Roberto Calderoli ha chiesto le dimissioni di Chiara Appendino, la forzista Giammanco ha chiesto le dimissioni del presidente Piero Grasso, la Lega ha chiesto le dimissioni di Dario Franceschini, Grillo ha chiesto le dimissioni di Angelino Alfano e Roberto Speranza ha chiesto le dimissioni di Maria Elena Boschi.

Vabbè, le dimissioni di Boschi sono state chieste da tutti. Comunque, per restare all’ultimo mese, sono state chieste le dimissioni dei ministri Fedeli, Minniti, Orlando, Pinotti, Poletti e Lorenzin, del presidente della Repubblica, dei presidenti di Camera e Senato, del direttore del Tg1, del direttore della Repubblica, e forse non ve ne siete accorti ma l’europarlamentare Gianni Pittella ha chiesto le dimissioni del premier inglese Theresa May. La destra chiede le dimissioni della sinistra, la sinistra della destra, i cinque stelle di tutti e tutti dei cinque stelle. Il che spiega perché la qualità di una democrazia si vede anche (o specialmente) dalla qualità dell’opposizione. 

Più ricchi che Rai

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mattia feltri

Se il teatrino di questi mesi è diventato quanto guadagniamo, io tolgo il disturbo, ha detto pochi giorni fa Fabio Fazio. È probabile che ora il teatrino diventi quanto guadagnerà. Ieri gli è stato rinnovato il contratto: quadriennale a 2 milioni e 800 mila euro l’anno. Un milione in più di prima. Complimenti e auguri. Anche perché la faccenda è già stata buttata in politica: per Maurizio Gasparri è il premio milionario al miglior valletto della sinistra, per il renziano Michele Anzaldi è uno schiaffo ai poveri e al Parlamento. È davvero interessante il diffondersi del contagio per cui la lotta alla povertà passa dalla riduzione degli stipendi, ma su un punto Anzaldi ha ragione: il Parlamento aveva deliberato il tetto dei compensi a 240 mila euro, cifra a cui si è adeguato anche il presidente della Repubblica.

La Rai invece no. E con questa bizzarra formulazione: sfonderà il tetto chi «offre intrattenimento generalista» o «crea o aggiunge valore editoriale in termini di elaborazione del racconto nelle sue diverse declinazioni». A parte la prosa, da taglio immediato del mensile, la frase non vuol dire niente, quindi vuol dire tutto. E chiunque potrà avere ingaggio eccezionale. E discende da una considerazione: la Rai, per essere competitiva sul mercato, deve pagare i fuoriclasse. Vero. Ma qui sta il problema. O la Rai è sul mercato, e allora non prende il canone. O la Rai è servizio pubblico, e allora non deve competere. La via di mezzo non è uno schiaffo alla povertà né al Parlamento: è una presa per i fondelli.

Prossimamente su YouTube: video verticali e panoramiche a 180°

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lorenzo fantoni

Una nuova interfaccia, pensata per chi non riesce a fare video orizzontali, e fotocamere in arrivo per un formato panoramico ristretto ma più versatile



Da oggi i video verticali non sono più sbagliati. Anziché continuare a ricordare che il formato giusto è quello orizzontale, Google ha preferito aggiornare l’app di YouTube per permettere di vederli in maniera corretta. Una vittoria simbolica per un formato nato e cresciuto con gli smartphone che ha trovato la sua consacrazione in Snapchat e che è addirittura approdato a festival prestigiosi come il SXSW.

L’app era già compatibile con i video da un paio di anni, ma con l’ultimo aggiornamento i video si adattano automaticamente all’orientamento del telefono e alle dimensioni dell’interfaccia. Mountain View ha studiato una nuova interfaccia mobile che si adatta alle dimensioni del video e mostra i filmati verticali a schermo pieno, ovviamente se lo smartphone è orientato nello stesso modo. Così il video viene visualizzato più chiaramente e si evitano le fastidiose bande nere laterali che accompagnano la proporzione 16:9. Una scelta che ha anche delle implicazioni commerciali; con la diffusione degli smartphone i video verticali sono diventati uno dei formati pubblicitari più utilizzati e grazie a questa nuova app Google va incontro ai bisogni delle agenzie di pubblicità che vogliono utilizzarli anche dentro YouTube. 

Ma le novità non sono finite, perché Google ha intenzione di sperimentare molto con le panoramiche orizzontali a 180°. Presto verrà infatti lanciato un nuovo formato, chiamato VR 180 che ha l’obiettivo di garantire parte dell’esperienza di un video a 360°, bilanciando ciò che viene perso in termini di campo visivo con una maggiore facilità di realizzazione e la possibilità di riprodurre il filmato anche su uno schermo normale, senza perdere la qualità.

In questo tipo di video non sarà dunque possibile guardarsi intorno in ogni direzione, ma solo ruotarlo di 180 gradi. Il vantaggio è che chi gira un video VR 180 non deve nascondersi in qualche modo per non apparire al suo interno e che i file sono molto più semplici da manipolare con un software di editing. Per realizzare filmati di questo tipo serviranno telecamere apposite il cui prezzo e aspetto sono ancora sconosciuti, ma che dovrebbero arrivare entro l’inverno, prodotte da Yi, Lenovo, e LG. Il formato VR 180 non è un passo indietro di Google rispetto ai video a 360° e alla realtà virtuale, ma potrebbe essere semmai un modo per avvicinare più creatori di contenuti (e più pubblico) all’idea dei video panoramici.

I vecchi giochi SEGA gratis su iPhone e iPad

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andrea nepori

Tutti i titoli per le vecchie console della casa giapponese arriveranno su App Store e Google Play Store con cadenza mensile. Tutte le app saranno gratuite e si potrà giocare anche offline, senza limitazioni



Ottime notizie per gli appassionati di retrogaming: SEGA ha annunciato che quasi tutti i giochi lanciati in passato sulle proprie console arriveranno su iPhone, iPad e dispositivi Android. Mese dopo mese l’azienda giapponese lancerà nuovi titoli originariamente pubblicati per Mega Drive, Master System, Game Gear o Sega Saturn, sempre con un denominatore comune: la possibilità di scaricare i giochi gratuitamente. Nelle app sarà presente la pubblicità (in maniera poco invadente, promettono dall’azienda) ma si potrà eliminare ogni annuncio pagando 2€ con un acquisto in-app.

Sul sito dedicato all’iniziativa, chiamata SEGA Forever, si possono scoprire i giochi disponibili e quelli che arriveranno su App Store e Play Store con cadenza mensile. I titoli già scaricabili gratuitamente sono cinque: il classico Sonic The Hedgehog (il primo episodio della saga), Altered Beast, Phantasy Star II, Kid Chameleon e Comix Zone.

In futuro SEGA terrà dei sondaggi tra i fan per decidere a quali titoli dare la precedenza, ma l’intenzione rimane quella di rendere disponibile su iOS e Android il catalogo completo dei vecchi giochi SEGA.Tutte le app saranno compatibili con i controller Bluetooth, prevederanno una classifica globale dei punteggi, permetteranno di salvare i progressi di gioco e soprattutto non avranno bisogno di una connessione Internet per giocare, come invece avviene per molti giochi freemium.

«Ci sono già 15 classici Sega disponibili sull’App Store; verranno inclusi e raccolti nella collezione Forever», ha spiegato Mike Evans, responsabile del Marketing di Sega, in un’intervista a GamesIndustry.biz. «Rendere quei giochi gratuiti per noi è una conversione molto semplice e siamo convinti del nuovo modello di business che prevede la pubblicità e un singolo acquisto in app per disattivarla».

L’iniziativa di SEGA sfrutta il ritrovato interesse per il retrogaming, cui hanno contribuito anche i rivali storici di Nintendo con il lancio del progetto NES mini e lo sviluppo di nuovi format dei titoli storici ripensati per le piattaforme mobili. Una strategia che ha pagato: il mini Nintendo, lanciato a Natale 2016, è andato a ruba, mentre Pokèmon Go e Super Mario Run, grazie all’enorme battage di marketing a cui ha contribuito la stessa Apple, sono due tra le app più scaricate di sempre sull’App Store.

Ma l’iPhone senza iOS non è un iPhone

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carolina milanesi*

Una proposta di legge in discussione al Senato imporrebbe all’azienda di Tim Cook di aprire i suoi prodotti a tutti i sistemi operativi. Ma non è detto che darebbe maggiori libertà ai consumatori, anzi



Negli ultimi giorni sono stata scioccata dalla notizia che in Italia sia in discussione un disegno di legge che forzerebbe Apple ad aprire i propri prodotti ad altri software, come Android e Windows.
Perché sono scioccata? Prima di tutto, vorrei essere certa che davvero di questo si tratta, e poi capire chi sono quei consumatori italiani che vogliono una libertà di software che permetta questo tipo di accoppiamenti. Magari mi sbaglio, ma mi sembra più una lotta politica che non una battaglia per la difesa dei diritti del consumatore. Il punto più importante, però, è che chiunque pensi che in un prodotto Apple si possa scindere il software dall’hardware davvero non capisce i prodotti progettati a Cupertino.

Anche se per l’hardware, iPhone, iPad e Mac possono essere superiori in qualità e finitura rispetto ai prodotti di altre aziende, sono però il software e l’ecosistema di applicazioni e servizi a renderli unici. Se vi è mai capitato di andare in Cina, è possibile vedere cloni di prodotti Apple equipaggiati con software Android o copie pirata di Windows. Questi dispositivi sono ovviamente non ufficiali, il che è ben diverso da quanto sembrerebbe richiedere questo disegno di legge. Il mercato italiano è anche differente, e per chi non volesse usare software Apple la scelta è ampia, sia come marchi che come prezzi.

Se il disegno di legge dovesse essere approvato e imporre davvero la possibilità di installare altri sistemi operativi, non vedo come l’azienda di Tim Cook possa ottemperare alla richiesta. Nonostante l’italia sia un mercato importante, il numero delle vendite non giustificherebbe mai il danno di immagine di un prodotto ufficiale Apple con software Android, Windows o Linux. Con la politica italiana, poi, il rischio è che l’iter del disegno di legge diventi una saga infinita. O meglio, una fine possibile esiste: Apple potrebbe ritirare dal mercato italiano i suoi prodotti, e così la libertà di scelta dei consumatori, anziché aumentare, sarebbe drasticamente ridotta. Così non mi resta che sperare di aver interpretato male, perché un decreto così concepito non sarebbe una vittoria per i consumatori, ma solo una sconfitta per il buonsenso.
 
* Carolina Milanesi è analista di Creative Strategies, Inc. Si occupa di hardware e servizi, ma anche software e piattaforme. È stata in precedenza responsabile della ricerca di Kantar Worldpanel e Vice Presidente Ricerca Apparecchi Consumer per Gartner. Suoi contributi appaiono regolarmente in Bloomberg, The New York Times, The Financial Times e il Wall Street Journal, ed è spesso ospite di BBC, Bloomberg TV, Fox and NBC News e altre televisioni.

Fico: “Vergognoso il comportamento di Fazio. Ora non scappa più”

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Esposto Anzaldi a Anac e Corte Conti sul rinnovo del contratto del conduttore



Dopo il Cda di venerdì e in vista della presentazione dei palinsesti il prossimo 28 giugno, esplode il caso Fabio Fazio e la Rai è travolta non solo dalle polemiche, ma anche dalle annunciate interrogazioni parlamentari del presidente della Commissione di Vigilanza Roberto Fico e dall’esposto per possibili «abusi» all’Anac e alla Corte dei Conti, del segretario della bicamerale Michele Anzaldi. Mentre il consigliere di Viale Mazzini Carlo Freccero, che ieri ha abbandonato la seduta del consiglio prima del voto, oggi dice che darà battaglia senza tregua dall’interno al nuovo direttore generale Mario Orfeo.

Il prossimo appuntamento per il Consiglio d’amministrazione comunque sarà già martedì quando si troveranno in audizione proprio in Vigilanza: «la prima analisi sarà su Fazio ma poi su tutti i palinsesti, perchè fermo restando che si tratta di scelte strettamente editoriali del dg e del cda, alla Vigilanza toccano gli indirizzi generali. Faremo un approfondimento con un ciclo di audizioni e io farò anche delle interrogazioni su tutta la questione», annuncia il presidente, esponente M5S, Fico. Però il tema centrale resta Fabio Fazio, che per Fico è «il classico comunista col cuore a sinistra e portafogli a destra. Prima voleva andarsene in un’altra tv. Ora che è arrivato il suo compare Orfeo e gli aumentano lo stipendio non vuole più scappare dalla Rai a cui deve tutto». 

Si parla di un compenso di Fazio che «passa da 1,8 milioni di euro annui a 2,8. Un aumento del 50%, mentre l’azienda con una direttiva approvata dal Cda solo una settimana fa si impegnava a tagliare di almeno il 10% tutti i compensi sopra al tetto da 240mila euro», spiega Anzaldi nel suo esposto ad Anac e Corte dei Conti. Ma introduce anche un’altra questione: «la produzione delle puntate della trasmissione di Fazio verrà affidata, in appalto parziale, ad una costituenda società:

il Cda di un’azienda pubblica può deliberare di stipulare un contratto di appalto con una società che ancora, a quanto risulta, non esiste? Società di cui, peraltro, sarà socio lo stesso soggetto già beneficiario del contratto principale?». Insomma per l’esponente del Pd, «di fronte al silenzio o addirittura la connivenza dei consiglieri di amministrazione, che hanno approvato un contratto che smentisce quanto hanno deliberato solo una settimana prima, è opportuno che siano le autorità di controllo Corte dei Conti e Anac a valutare se siamo di fronte o meno a degli abusi».

Ma le critiche non sono solo per il compenso di Fazio. «Non c’è un aumento del pluralismo da quanto si legge dalle cronache. Eppure la mancanza di voci diverse, soprattutto nei talk show, è stato uno dei motivi principali di critica all’ex dg Campo Dall’Orto”, chiosa Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia e vicepresidente di Palazzo Madama (FI), che teme la chiusura de L’Arena di Giletti perchè parlava con troppa chiarezza, come «ad esempio ha detto la verità sul caso Fini».

Tra i consiglieri prende le distanze Carlo Freccero che sostiene di avere intenzione «di battagliare dall’interno del consiglio. Sarà una battaglia continua e costante - dice - perchè errori se ne compiono continuamente». A questo proposito racconta: «Io ho proposto persino la rivalutazione di Tv7 spostandolo al mercoledì in seconda serata. Mi sembrava infatti che con l’arrivo di Fazio al lunedì andasse rimodulata tutta la seconda serata, e io che mi intendo di tv vedevo bene rilancio di Tv7, testata storica. Ma mi hanno risposto come se avesse parlato un cretino.

Ecco questo è un caso esemplare», sostiene denunciando: «Sono andato via perchè il direttore generale Mario Orfeo non mi ha mai assecondato, non mi ha mai risposto, se mi avesse risposto non si troverebbe in questa situazione».

Milan, il cacciatore di tesori e i misteri del mito

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di Giacomo Valtolina

Lo statuto del 1899 trovato da uno studente. Sarà esposto al museo rossonero al Portello. Prima traccia di una storia ancora misteriosa. «Festa a metà dicembre per il compleanno»



Siamo alla metà di dicembre - che come si vedrà è un periodo ricorrente in questa storia di Milan - e l’anno è il 2015. Un giovane appassionato di numismatica di nome Marco Boscolo, 24enne studente di Storia alla Statale, sta catalogando, lente d’ingrandimento alla mano, l’imponente collezione privata di un’importante famiglia di industriali milanesi. Setaccia la biblioteca della loro tenuta di campagna, tra volumi preziosi, rarissime prime edizioni, documenti notarili e reperti di vario genere finché all’improvviso non salta fuori una scatola di pelle nera dell’Esercito: dentro, tra la corrispondenza dal fronte, le fotografie coloniali e le spillette dell’Ippodromo fa capolino, discreto, un libretto rosso, 14,8 centimetri per 11. Sulla copertina, la scritta: Statuto del Milan cricket and football club.

È l’atto che certifica la fondazione della società allora italo-milanese all’hotel Duca d’Aosta (l’attuale Principe di Savoia), datato una sera di metà dicembre 1899, tra il 13 e il 17. Presidente (Edwards), vicepresidente (Nathan), segretario (Davies), cassiere (Allison), consiglio direttivo (Blomenstock, Celli, il fondatore Kilpin, Osculati, Steele, ma ci sono anche altri italiani come Angeloni, Dubini e Camperio), regole (quelle di un normale circolo) e quote associative (25 lire per il primo anno e poi 15) messe per iscritto in quella che la Gazzetta racconterà come la sera in cui tutta la Milano che contava «mise un obolo» per la fondazione nella sede della Fiaschetteria Toscana di via Berchet, oggi, beffa della storia, boutique dell’Inter.

«Nessuno aveva capito il valore dello statuto - racconta Boscolo -, così è rimasto per mesi tra le carte sul mio comodino di casa, come un dépliant qualsiasi. Poi ho chiamato il Milan per capire quali documenti fondativi esistessero. Era effettivamente l’atto più antico mai trovato, ma dato che l’offerta ricevuta non era soddisfacente abbiamo deciso di metterlo all’asta». Compratore americano già con l’assegno in mano, pronti 120 mila euro. Una volta depositato alla casa d’aste Bolaffi, però, l’atto diventa pubblico, così il direttore di Casa Milan, Marco Amato (con Triennale e Padiglione Zero di Expo sul curriculum), chiede alla Soprintendenza un vincolo archivistico che, tempestivo, arriva impedendo l’espatrio dell’atto.

Sfuma così la vendita oltre Oceano e l’avvocato Giuseppe La Scala, presidente dei piccoli azionisti del Milan, può aggiudicarselo per quasi 94 mila euro nell’auction - e riecco di nuovo la data ricorrente - del 14 dicembre. Con una conseguente decisione (la cessione in comodato d’uso a Casa Milan) e due auspici («che venga esposto il 13 dicembre e che quel giorno diventi il compleanno del Milan, da celebrare nel mondo a suon di vin brulé in una grande festa casciavít , tra Sant’Ambrogio e Natale»).

Teca nell’anticamera del museo di Casa Milan, tra i vessilli (labari) anni 20, 40 e 70, e debutto al pubblico con alcuni altri pezzi appena recuperati dal team di Amato (una lettera della società di macchine agricole del presidente Edwards con la sua firma originale e una copertina rossonera di Lo sport illustrato del 1921), una squadra fatta di appassionati, storici e archivisti volontari, sguinzagliati a caccia di reperti da donare o condividere con museo e popolo rossonero.

Ma il 13 dicembre resta una data ancora oggi misteriosa, simbolica della peculiare nebulosità d’informazioni sul primo ventennio rossonero, confermata dalla difficoltà, anche per gli stessi eredi dei fondatori, di trovare reperti originali («Diavolo smemorato» scriveva sul tema la Domenica del Corriere nel 1949). Lo dimostra anche il fatto che a Casa Milan, il pezzo più antico in collezione sia una maglia (della nazionale italiana) usata da De Vecchi nel 1912. La prima casacca rossonera esposta - in attesa che ritorni la maglia primi anni Dieci una volta in mostra a San Siro - è addirittura del 1951/52, appartenuta (ma probabilmente mai usata) ad Annovazzi.

I pezzi forti di Mondo Milan sono infatti pezzi successivi, dalle Coppe campioni ai Palloni d’oro concessi da Van Basten e Shevchenko, nel percorso che attraversa la storia gloriosa del club. Un’altra chiave di volta della storia rossonera è l’editoria. Non solo per il core business delle vecchie proprietà (Rizzoli prima e poi Berlusconi) o per il know-how tipografico cittadino dell’epoca, ma in questo caso anche per le valutazioni sulla autenticità dello Statuto. Ai fini della certificazione della Soprintendenza, utile è stato infatti il nome della tipografia industriale riportato a pagina 2 (G. Pizzi, via Visconti 14, specializzata in libelli giuridici). «Un’altra eccellenza milanese» sottolinea La Scala. Il dettaglio è un logo a quadratino a righe rossonere, in alto a destra, in prima pagina.

Curiosamente a strisce orizzontali. Ciò che stupisce, e che ha dato anche adito a dubbi, è l’ottimo stato di conservazione dello statuto, con le pagine sì ingiallite ma senza ombra di ruggine nei punti metallici. «È la prova della capacità tecnica delle tipografie milanesi» dice La Scala, mentre Amato annuncia «tecnologie per conservarlo e digitalizzarlo».

Oggi, quel quadratino striato (che guardandolo sembra quasi poter dirimere la querelle sul plagio tra Pink Floyd e Isgrò) è diventato il logo, inaspettatamente attuale, di El nost Milan , casa editrice che pubblica volumi sul Milan e che ha fatto risorgere, grazie all’intervento di una cordata di persone tra cui proprio l’avvocato La Scala (noto per la sua storica rivalità con l’ex amministratore delegato Adriano Galliani), la tipografia Campi. Fondata nel 1898, è l’unica a stampare professionalmente con composizione monotype e caratteri di piombo creati con una fonditrice. Una copia dello statuto qui prodotta verrà regalata con il libro Milan 1899, una storia da ricordare , ai primi 1899 sottoscrittori della neonata Radio Rossonera, gestita da blogger e influencer milanisti (e supportata dalla società) che dà voce al tifo critico, le cui opinioni sembrano essere oggi più rilevanti per le nuove strategie di comunicazione del Milan «orientale» .

“Fu il Lodo Moro a tenere gli italiani al sicuro a Beirut nell’82”

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francesca paci

Bassam Abu Sharif: l’Italia fu l’unico paese con cui il Fronte per la liberazione della Palestina strinse un patto di non belligeranza. Le Br? Nessun rapporto


Bassam Abu Sharif

Bassam Abu Sharif è uomo di molte parole. Fuma una sigaretta dietro l’altra con la mano a cui dal 1972 mancano quattro dita: sopravvissuto a un’operazione del Mossad, perse però anche l’occhio e l’orecchio destro. All’epoca era il responsabile dell’informazione dei marxisti-leninisti del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), in seguito sarebbe diventato uno dei più ascoltati consulenti di Arafat. «È possibile che non dica tutto quello che so, ma quello che dico è tutto vero» ripete durante l’intervista in esclusiva rilasciata a La Stampa all’indomani dell’audizione alla Commissione parlamentare sulla morte di Moro.

Dice che l’Italia fu l’unico Paese con cui il Fplp prese un impegno scritto di non belligeranza, il cosiddetto Lodo Moro. Dice che grazie a quell’accordo la nostra ambasciata a Beirut venne risparmiata dagli attentati in cui 35 anni fa morirono oltre 300 militari francesi e americani. E dice che sa di un rapporto simile voluto dalla Germania con l’organizzazione palestinese al Fatah dopo il massacro alle Olimpiadi del 1972 a Monaco.

Come nasce l’accordo che in Italia è noto con il nome di Lodo Moro?
«Le relazioni tra i palestinesi e l’Italia, intesa anche come istituzioni preposte alla sicurezza, iniziano nei primi anni ’70. C’era il sospetto che le Brigate rosse avessero rapporti con il Fplp il cui leader era George Habbash. Le Br erano il prodotto di una storia europea dovuta al fallimento del partito comunista nel portare cambiamenti sociali. Questo piccolo gruppo estremista ed altri analoghi si chiesero cosa fare e pensarono di ricorrere alla violenza. In Medioriente la situazione era movimentata per altri motivi, la sconfitta dei paesi arabi nel 1967 aveva dato a noi palestinesi la possibilità di iniziare la nostra battaglia contro l’occupazione israeliana e molti gruppi vennero in Medioriente per incontrarci. Non ricordo i nomi dei tanti italiani che vidi ma ricordo Andreas Baader e Ulrike Meinhof. Venivano a migliaia. Li chiamavamo i turisti della rivoluzione».

Cosa facevano lì con voi?
«Wadie Haddad (il capo delle operazioni del Fplp) aveva una scuola rivoluzionaria per insegnare alle forze sociali oppresse economicamente a combattere il capitalismo. In Europa non si poteva, la situazione non era matura. Per indebolire l’imperialismo era meglio agire nel terzo mondo, affiancare noi nella lotta contro Israele, l’avamposto mediorientale dell’imperialismo e del neocolonialismo americano. Oltre mille italiani frequentarono i nostri campi in Giordania tra il 69 e il 70. Erano campi di due settimane, si parlava di politica, si imparavano a smontare e rimontare le pistole o a sparare, soprattutto si spiegavano i pilastri della nostra rivoluzione. Alcuni divennero membri del Fplp, solo una piccola parte erano combattenti ma combatterono esclusivamente nelle file del Fplp e nelle nostre battaglie, mai nei loro paesi d’origine».

Perche’ questo rapporto speciale con l’Italia?
«Vennero da noi da tutti i paesi, oltre 10 mila europei ci raggiunsero dopo la battaglia di al Karama, nel 1968. Ma l’Italia aveva una location importante, confinava con la Jugoslavia, con la Francia, aveva il più forte partito comunista occidentale e un popolo caldo. Il nostro maggior alleato non era il Pci ma il sindacato. In quel contesto nascono le Br ma la seconda generazione viene infiltrata: nel 71, diffidandone, Wadie Haddad, dice di voler avere niente a che fare con loro.

Ed eccoci al 1972: attraverso dei giornalisti incontrammo a Beirut l’intelligence italiana, fui io il primo a vedere Giovannone, all’epoca ero il direttore della rivista del Fplp. Giovannone era un patriota, voleva proteggere l’Italia. Iniziò a mandare aiuti umanitari ai campi profughi palestinesi, ambulanze, medicine. Poi si mise a lavorare con noi per ottenere un documento da presentare al suo governo il cui il Fplp affermava di non avere rapporti con le Br. Voglio sottolineare che noi palestinesi non abbiamo mai avuto rapporti diretti ne indiretti con le Br».

Fu un’idea di Giovannone?
«Giovannone era simpatetico. Io proposi che avrei chiesto un documento firmato in cui il Fplp affermasse che non avrebbe mai messo a rischio la sicurezza dell’Italia e non avrebbe mai collaborato con chi lo facesse. Voi lo chiamate accordo ma in realta’ fu una promessa scritta. Una copia per noi e una per voi, sar’ stato l’inizio del 73. Non so a chi la diede Giovannone, doveva convincere qualcuno in Italia riguardo a noi».

Perché Arafat non firmò?
«Io parlo per noi, affiancai Arafat solo nel 1987. Non so cosa facesse in quel momento Al Fatah e se Giovannone o altri parlassero con loro, posso immaginarlo. So che Abu Iyad, il responsabile dei servizi segreti di Fatah, venne molte volte a Roma a incontrare capi della sicurezza e una volta ci incrociammo per caso».

Il Fplp prese lo stesso impegno con altri paesi europei?
«Il Fplp solo con l’Italia. I volontari erano benvenuti, tutti. Ma nessun altro in Europa fece uno sforzo come Giovannone di venire in quanto Paese. Io parlo del Fplp. So che dopo Monaco la Germania instaurò un rapporto con Abu Iyad (Fatah) per avere qualcosa di simile».

Cosa aveste in cambio dall’Italia?
«Ci accontentavamo degli aiuti umanitari. Chiedemmo se magari si potessero aumentare, ma non era una condizione».

Chi era il garante della vostra promessa in Italia?
«Nessuno, il garante era Habbash. Eravamo molto centralizzati. Le organizzazioni di studenti palestinesi in Italia facevano solo campagne di solidarietà. In quel periodo vennero a contattarmi anche altri dall’Italia con altre offerte, ma io parlavo con Giovannone e basta».

Come è passato di generazione in generazione l’impegno di Habbash?
«È stato sempre rispettato. Poi col tempo le relazioni sono diventate politiche, abbiamo iniziato a dialogare su piani diversi, parlavamo con Andreotti, Craxi. Tenete conto che nel frattempo c’e la dichiarazione di Venezia nel 1980 con il riconoscimento dell’Olp che ci permette di aprire 50 uffici palestinesi del mondo, dobbiamo quell’accordo all’Italia».

La dichiarazione di Venezia può essere considerata un frutto dell’impegno preso da Habash e il Fplp?
«Sì, lo possiamo considerare uno sviluppo di Venezia. Inoltre in Italia c’era una forte opinione pubblica pro-palestinese. Furono gli italiani a mandarci l’informazione dell’invasione in Libano nel 1982».

Per questo in quegli anni l’Ambasciata italiana, diversamente da quella francese e americana, non fu attaccata a Beirut?
«L’impegno a evitare azioni che colpissero l’Italia era a tutto campo, si sottintendeva che non avremmo colpito neppure interessi israeliani in Italia. E ovviamente comprendeva le ambasciate italiane. A Beirut dovemmo difendere anche fisicamente gli italiani».

Rispettaste sempre l’impegno preso? Chi fece gli attentati alla sinagoga e a Fiumicino, nell’82 e nell’85?
«Non ne sappiamo niente. Di altri non so ma noi, come Fplp prima e poi insieme a Fatah come Olp, rispettammo l’impegno al cento per cento. In quel momento in Italia agivano gli 007 iracheni, arabi, israeliani, gruppi palestinesi infiltrati come quello di Abu Nidal dopo la rottura con Fatah».

Gli attentati no. Ma i missili in transito nel 1979 per cui fu arrestato Daniele Pifano erano vostri, giusto?
«Quella non era un’operazione, era trasporto di materiale. L’impegno diceva chiaramente che avremmo evitato ogni operazione che colpisse gli italiani o l’Italia: lo rispettammo e l’Italia lo sa».

L’Italia sapeva anche del transito dei missili di Pifano?
«In Italia c’erano differenti istituti».

Vuol dire che la mano destra non sapeva cosa facesse la sinistra?
«Esatto. Ma poi Pifano fu rilasciato quasi subito, giusto? Ecco».

Sa qualcosa della stazione di Bologna? E di Ustica? Anche allora si nominarono i palestinesi.
«Non ne so nulla. Ma c’era di tutto in Italia in quel periodo. Le racconto una storia. Una volta, sara’ stato l’89, dovevo andare in Francia con Arafat sorvolando l’Italia, dove c’erano molte basi americane. Prima di partire ricevemmo una nota da un buon contatto italiano che diceva di fare attenzione ai missili. Allora Arafat chiese due jet identici, su uno volava lui e sull’altro io con la delegazione palestinese. Volammo a diverse altitudini per confondere i radar».

“Scattata con un iPhone”? Sì, più o meno

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emanuele capone

Nelle campagne pubblicitarie, Apple utilizza spesso il suo smartphone. Ma non per questo tutti possono arrivare a un risultato altrettanto professionale: servono software e hardware speciali



Non c’è dubbio che gli iPhone scattino bellissime immagini, tanto che per anni sono rimasti ai vertici delle classifiche degli smartphone con la migliore fotocamera. Così tanto, che Apple ha utilizzato più volte proprio questa caratteristica per spingere ulteriormente le vendite del “melafonino” con la riuscita campagna “Shot on iPhone”: vengono mostrate foto (e clip) stupende che sono state, appunto, “scattate con un iPhone”. Più o meno.

Recentemente, a sollevare qualche dubbio è stato il sito DPreview, punto di riferimento per gli amanti della fotografia digitale, con un pezzo pubblicato ieri dal titolo inequivocabile: “Non tutto è come sembra nelle pubblicità ‘Shot on iPhone”: nel testo, accompagnato dal video dello youtuber Marques Brownlee che vedete qui sopra, si spiega chiaramente che le foto mostrate da Apple (o anche da altri produttori di smartphone, a onor del vero) sono in effetti “scattate con un iPhone”. Che però è stato “potenziato” da una buona dose di gadget costosissimi e lunghe sessioni di fotoritocco.

Così, per esempio, si scopre che per catturare alcune immagini l’iPhone era montato su un drone più o meno grande, incastrato in una griglia che garantisce una maggiore stabilizzazione, oppure aveva otturatore a controllo remoto, obiettivi da far invidia a un paparazzo, tempi di scatto prolungati via software e così via. Lo ammette anche Apple, che nelle sue carrellate di immagini mozzafiato fa comparire per 3 secondi la scritta «è stato usato software ed equipaggiamento supplementare». “Dimenticandosi” di dire che difficilmente lo troverete nei negozi, quell’equipaggiamento supplementare.

Giù le mani dall’Inno di Mameli

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alberto mattioli

Forse per Il canto degli Italiani , alias Fratelli d’Italia , è davvero la volta buona. Inno «provvisorio» della Repubblica dal 12 ottobre 1946, potrebbe diventare definitivo se passerà il disegno di legge in discussione alla Commissione Affari costituzionali della Camera, prossima seduta giovedì. Quella di essere provvisorio da settant’anni non è la sola stranezza dell’Inno. È anche l’unico brano musicale del mondo ad essere attribuito non all’autore della musica, Michele Novaro, ma a quello del testo, Goffredo Mameli. Come dire che La traviata è di Francesco Maria Piave o Acqua azzurra, acqua chiara di Mogol.

La proposta è del Pd ma sono d’accordo tutti i partiti, compresa la Lega che si era sempre opposta. Unica voce dissenziente ed emendante, quella dell’onorevole Gian Luigi Gigli del Des-Cd, e così si scopre anche l’esistenza di Democrazia solidale-Centro democratico. Gigli, presidente del Movimento per la vita, è uno di quei cattolici che ancora non hanno digerito il Risorgimento. Però le sue obiezioni al Mameli-Novaro sono più estetiche che politiche. Lo accusa di essere brutto «sia per la musica che per il testo» e assai inferiore a quelli degli Stati preunitari. Qui forse non ha tutti i torti. L’Inno del Regno delle Due Sicilie era di Paisiello, quello del Lombardo-Veneto austriaco di Haydn e quello pontificio, allora come oggi, di Gounod. Gigli propone un concorso per scrivere e scegliere un Inno nuovo di zecca.

Per inciso, nessuno pensa mai di riesumare l’«altro» Inno di Mameli, Suona la tromba, parole sempre del prode Goffredo ma musica di un certo Giuseppe Verdi. Ora, è vero che l’Allegro marziale di Novaro, quattro quarti in si bemolle maggiore, non è esattamente un capolavoro. Né, sinceramente, lo sono i versi di Mameli, grondanti retorica e pieni di riferimenti storici incomprensibili ai più. Però anche le parole della Marsigliese sono pulp e la musica, molto probabilmente, un plagio (oltretutto, di un italiano, Giovanni Battista Viotti). Dell’Inno tedesco si canta solo la terza strofa di von Fallersleben, perché le altre evocano ricordi poco piacevoli. Quanto alla Marcia reale spagnola, c’è solo la musica perché non ci si è mai riusciti a mettere d’accordo sui versi.

Ma il punto è che un Inno nazionale non dev’essere «bello». Dev’essere orecchiabile, popolare, identitario, facile da ricordare e soprattutto radicato nella coscienza popolare. Tutte caratteristiche che il Novaro-Mameli ha. Quindi Gigli si rassegni, ben venga il riconoscimento ufficiale e dopo 71 anni facciamola finita, perché l’eterna discussione su Fratelli d’Italia è uno dei fardelli d’Italia. Cari parlamentari, stringetevi a coorte e votate ’sta legge.

La beffa dei disabili a carico Record di maestri furbetti trasferiti nelle scuole del Sud

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di Gian Antonio Stella

La Calabria batte il Friuli Venezia Giulia 79% a 0. I trasgressori restano al loro posto. I dati elaborati da Tuttoscuola

Calabria batte Friuli 79 a 0. La gara per l’abuso della legge 104 sulla precedenza ai docenti che dichiarano un disabile a carico fa segnare un risultato più rotondo del mitico match Australia-Samoa 32-0. Uno squilibrio folle. Che dilaga in tutto il Sud danneggiando colleghi che in graduatoria erano davanti ai furbetti. Ma ancor più insopportabile è che questa prepotenza, anche se smascherata, non sia repressa con l’unica sanzione vera: il trasferimento degli imbroglioni lì dove stavano.

La conferma dell’andazzo, denunciato più volte da una associazione di insegnanti bidonati di Agrigento e lì accertato dalla magistratura, arriva da un’elaborazione di Tuttoscuola dei dati ministeriali sui trasferimenti interprovinciali di docenti della «primaria» (le medie e le superiori arriveranno più avanti) per il prossimo anno scolastico. Il tutto dopo un’interrogazione del leghista Paolo Grimoldi sulla voce che 530 insegnanti su 1.000 avessero ottenuto «il trasferimento al Sud grazie a quanto previsto dalla legge 104 sulla tutela dei disabili». Notizia approssimativa sui numeri, non sulla sostanza.
Cosa dice la legge
Premessa: nessuno ma proprio nessuno ha contestato mai il principio di quella legge del ‘92 che prevede nei trasferimenti degli insegnanti un diritto di precedenza a favore di quanti documentano la propria disabilità o la necessità di fornire «assistenza al coniuge, ed al figlio con disabilità; assistenza da parte del figlio referente unico al genitore con disabilità; assistenza da parte di chi esercita la tutela legale». Un ventaglio ampio ma non generico: non prevede comunque, come ricorda la rivista di Giovanni Vinciguerra, la precedenza per «l’assistenza ad altri familiari disabili». Giusto così.

Il guaio è che dopo le denunce di Dorenzo Navarra, un insegnante di Sciacca che aveva creato l’Associazione Insegnanti in Movimento perché furente contro l’eccesso di trasferimenti concessi con la motivazione di quella legge sacrosanta, i giudici avevano accertato con l’inchiesta «La carica dei 104», che in effetti uno su quattro dei docenti «premiati» col trasloco ad Agrigento da Cuneo, Rovigo o Vipiteno, aveva ottenuto quello spostamento dichiarando il falso. I numeri noti, però, si limitavano finora all’area girgentina. Tuttoscuola conferma: l’uso corretto e insieme quello scorretto della legge del ‘92 incidono sul 72,6% dei trasferimenti interprovinciali nelle «primarie» siciliane.

Con punte dell’81,5% a Palermo, dell’83,3% a Trapani, del 100% a Agrigento e a Enna. Cento percento! Numeri appena appena ridotti al di là dello Stretto, con l’87,5 in provincia di Vibo Valentia e del 97,1% a Cosenza.
Il divario Nord-Sud
Sia chiaro: vivere nel Mezzogiorno, per chi deve farsi carico di una persona non autosufficiente, è molto più complicato che vivere al Nord. I presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari, usati principalmente come spiega l’Istat «da anziani e non autosufficienti», sono squilibrati in modo agghiacciante: «l’offerta raggiunge i più alti livelli nelle regioni del Nord, dove si concentra il 66% dei posti letto complessivi (9 ogni 1.000 residenti) e tocca i valori minimi nel Sud con il 10% dei posti letto (solo 3 posti letto ogni 1.000)».

Le regioni settentrionali, prosegue l’istituto di statistica, «dispongono anche della quota più alta di posti letto a carattere socio-sanitario, con 7 posti letto ogni 1.000 residenti, contro un valore di 2 posti letto nelle regioni del Sud». In valori assoluti: 243.320 letti nel Nord, 38.129 nel Sud, 30.919 nelle isole. Per non dire degli altri servizi d’assistenza e collaborazione: la battaglia dei giovani disabili palermitani che sono riusciti a mobilitare Pif, Fiorello, Jovanotti e altri dice tutto. Non c’è proprio paragone, tra chi ha certi problemi gravi nel Sud o nel Nord. E sarebbe ingiusto non tenerne conto.

Detto questo, l’uso sistematico del raggiro della legge da parte di molti furbetti, com’è emerso dalle inchieste e dalle stesse denunce (rare: e mai seguite da gesti di rottura) di qualche sindacato, grida vendetta a Dio. Perché va «a scapito di docenti settentrionali»? No, risponde Vinciguerra: se pure si accertassero abusi, questi non farebbero danni ai docenti del Nord perché comunque, «su quei posti sarebbero stati trasferiti altri docenti meridionali senza 104». Ma è proprio qui la vergogna. Gli imbroglioni non vendicano neppure ipotetiche ingiustizie ministeriali o padane: profanano i diritti di chi è come loro ma rispetta la legge.
I confronti
I numeri non lasciano dubbi: su 2.902 trasferimenti interprovinciali per l’anno 2017/2018 nella scuola primaria, solo 7 son dovuti alla precedenza data dalla «104» in tutto il Nord Ovest, 5 in tutto il Nord Est, 48 nel Centro e 564 nel Centro-Sud. Le quote regionali confermano: 0,0% di spostati grazie alla 104 in Friuli, 0,7% in Veneto, 0,9% in Piemonte e nelle Marche, 1,0% in Toscana, 1,2% in Lombardia, 1,5% in Emilia-Romagna… Sul versante opposto: 35,0% in Molise, 37,2% in Puglia, 66,6% in Campania, 72,9% in Sicilia e infine quel sonante 79,5% in Calabria. A dispetto di tutte le polemiche e le inchieste: tutto come prima. Ciò che più insulta chi è stato sorpassato nelle graduatorie, però, è che anche i furbetti cui è stato revocato il trasferimento ottenuto con l’imbroglio non sono stati tuttavia rimandati dove stavano.

Lo spiegò mesi fa su «La Sicilia» il provveditore di Agrigento Raffaele Zarbo: «Non c’è alcuna norma che costringa a revocare il trasferimento ottenuto grazie alla precedenza suddetta, nel caso in cui la stessa venga revocata dopo il medesimo trasferimento». E Ignazio Fonzo, uno dei magistrati più impegnati a smascherare gli imbroglioni, conferma: «Già il rimpatrio là dove chi ha fatto il furbo stava, per me, è poco. Che razza di esempio dà un professore che imbroglia? Lo rimettiamo in cattedra a insegnare? Cosa insegna agli studenti: “furbizia applicata”? Ma queste sono le regole. Se non le cambiano noi giudici possiamo soltanto fare solo ciò che dice la legge. Fine. A volte “ammuttamu u fumu co a stang’”, spostiamo il fumo col bastone…».

1 luglio 2017 (modifica il 2 luglio 2017 | 08:16)

In Romania c'è un cimitero allegro che ricorda i morti con opere d'arte e tanta ironia

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noemi penna



Un cimitero «allegro» da visitare come un museo. A Sapanta, in Romania, a 4 chilometri dal confine con l’Ucraina, si trova il coloratissimo Cimitirul Vesel, un campo santo decisamente unico: le tombe sono dipinte con scene di vita (anche ironiche) della persona che vi è sepolta, le croci in legno sono tutte intagliate e di colori sgargianti mentre sulle lapidi non ci sono parole di cordoglio bensì battute e poesie umoristiche che descrivono il defunto.



I romeni considerano la morte un momento molto solenne. Ma questo cimitero è associato alla cultura degli antichi Daci, la cui filosofia si basa sull'immortalità: loro considerano la morte un momento di gioia, che porta il defunto ad una vita migliore della precedente. Da qui le insolite lapidi e decorazioni.



Nel Cimitirul Vesel oggi sono presenti 800 tombe decorate e viene visitato quotidianamente proprio come una galleria d'arte. La prima opera risale al 1934 ed è stata realizzata dell'artigiano, poeta e pittore Stan Ioan Pătraș, che decise di realizzare lui stesso la sua futura lapide. Ma la tomba più celebre è sicuramente quella di Dumitru Holdis, le cui miniature sono diventate persino dei souvenir da portarsi a casa.



Gli epitaffi del cimitero sono tutti raccolti nel libro «Le iscrizioni parlanti del cimitero di Sapânta» scritto dal professor Bruno Mazzoni. Qualche esempio? «Lui amava i cavalli. Un’altra cosa amava molto. Sedersi al tavolo di un bar. Accanto alla moglie di un altro», oppure «Coloro che amano la buona grappa come me patiranno perché io la grappa ho amato e con lei in mano sono morto».
Insomma, un modo per superare con ironia la paura della morte ed essere ricordati per sempre con il sorriso.


Addio al vecchio libretto al portatore Voluto da Quintino Sella, vietato da Ue

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di Lorenzo Salvia

Dal 4 luglio lo stop al rilascio. Il motivo: potenziale strumento di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo. È stato per anni l’investimento pensato per figli e nipoti. Chi lo ha già può convertirlo in nominativo o ritirare i soldi entro la fine del 2018



Lì dentro ci sono finiti i primi risparmi di molti di noi. I soldi regalati dai nonni per il compleanno, che di solito duravano poco. E quelli messi da parte dai genitori, «perché un giorno ti serviranno». Una forma di investimento primordiale, nata nel 1875 da un’idea di Quintino Sella, ministro delle Finanze, oltre che scienziato minerario, fondatore del Club alpino italiano e pure insegnante di geometria. Ma per il libretto al portatore è arrivato il momento dei titoli di coda.

Dal 4 luglio, dopodomani, non potranno più essere rilasciati dagli uffici postali e dagli sportelli bancari. Resteranno quelli nominativi, dove la cifra depositata è legata a un nome e cognome, e i soldi possono essere ritirati solo dal diretto interessato. Ma il libretto al portatore, che basta presentare al banco per prendere o lasciare i soldi, va definitivamente in pensione. Chi ne ha ancora uno non deve correre allo sportello. Per estinguerlo, trasformandolo in nominativo oppure ritirando i soldi, c’è tempo fino alla fine del 2018. Nessuna fretta. Ma è un pezzo di storia che se ne va. E anche stavolta ce lo chiede l’Europa.
Le regole europee
È una direttiva di Bruxelles del 2015 a mettere fuori corso l’invenzione di Quintino Sella. L’accusa è di essere, almeno potenzialmente, uno strumento formidabile per il riciclaggio e per il finanziamento del terrorismo internazionale. Mancando un legame tra i soldi e il nome, depositi e prelievi non sono tracciabili. In effetti la cronaca ci racconta che non stati usati solo da nonni generosi e genitori previdenti. A Palermo vennero sequestrati 473 mila euro depositati su una serie di libretti al portatore trovati a casa di Salvatore Contorno, uno dei primi pentiti di mafia. Stessa storia per Felice Maniero, il boss della mafia del Brenta, che così mise nei guai persino la mamma. Oltre all’Europa, ce lo chiede pure il buon senso. Anche se l’Italia, a differenza di altri Paesi, finora aveva scelto la strada della riduzione del danno.
Le strette precedenti (e insufficienti)
La prima direttiva europea che chiedeva la cancellazione dei libretti al portatore risale al 2005. Noi abbiamo abbassato più volte la cifra massima che poteva essere depositata. L’ultima stretta è arrivata nel 2012 con il governo Monti, quando il tetto è stato portato a 999,99 euro. Cifra minima, anche un po’ sadica. Ma che non basta a Bruxelles, specie in un’epoca di terrorismo globale e paura altrettanto globale. Rischiavamo una nuova procedura d’infrazione. E per questo, poche settimane fa, è passato in consiglio dei ministri il decreto che alza bandiera bianca e recepisce, stavolta in pieno, la direttiva. Il libretto al portatore saluta e se na va.

Per manifestare il loro affetto nonni e genitori previdenti hanno a disposizione mille altri strumenti. Tra piani di accumulo e polizze vita, la finanza più o meno creativa ha trasformato da tempo l’idea di Quintino Sella in un pezzo di antiquariato. A lui, adesso, resta solo la sellaite: minerale raro chiamato così in suo onore.

1 luglio 2017 (modifica il 2 luglio 2017 | 10:04)

Tutti i numeri segreti sull'invasione dell'Italia

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Marco Cobianchi - Dom, 02/07/2017 - 16:44

Dal 2012 a oggi gli allontanamenti nell'Ue sono rimasti a quota 400mila l'anno, mentre i clandestini superano i 2 milioni. E Bruxelles ha regalato 1,2 miliardi alle Ong

Non ne servono molti. Per capire l'origine e la conseguenza dell'emergenza sbarchi bastano due numeri: 1,2 miliardi e 2,1 milioni. Partiamo da quest'ultimo. Due milioni e centomila è il numero di persone illegali che sono sul territorio europeo. Il dato proviene dall'Eurostat ed è stato pubblicato dal sito Truenumbers.it.

Come si vede nel grafico pubblicato nella pagina a fianco la crescita di clandestini in Europa inizia a partire dal 2012. Fino ad allora i decreti di espulsione emessi dai Paesi europei sono rimasti stabili a quota di 500mila circa l'anno. Il numero delle espulsioni effettive è sempre stato leggermente inferiore, intorno a 400-450mila. Poi, dal 2012 inizia il boom degli sbarchi e gli Stati, Italia compresa, vanno in tilt: mantengono stabile il numero dei decreti di espulsione mentre la marea umana che approda in Europa aumenta in modo incontrollato. Restando stabili anche le espulsioni effettive, nel 2015 il fenomeno va fuori controllo e i clandestini arrivano a quota, appunto, di 2,1 milioni.

Si tratta di persone delle quali nessuno sa praticamente nulla se non, forse, il giorno e il luogo dello sbarco e la struttura di accoglienza nella quale sono state ospitate fino al giorno in cui hanno deciso di rendersi irreperibili. Veniamo al secondo numero. I 2,1 milioni di clandestini sono la conseguenza (anzi, una delle conseguenze) della politica europea sull'immigrazione e, in particolare del rapporto assolutamente opaco che l'Ue ha deciso di intavolare con le Organizzazioni non governative. Se molte di queste, impegnate nel recupero degli immigrati e del loro trasporto sulle coste italiane con delle navi di loro proprietà, non accettano di mostrare nemmeno i loro bilanci, altrettanto, però, l'Europa che le finanzia.

Nel 2015 (mancano dati più recenti) l'Ue ha versato alle Ong europee qualcosa come un miliardo e 248 milioni di euro, come mostra il grafico nella pagina qui accanto. Ma è un dato parziale perché i finanziamenti alle Ong provengono da decine e decine di capitoli di spesa dell'Unione e se l'Ue stessa non si decide a un'operazione trasparenza, sapere quanta parte di questi 1,2 miliardi finisce alle Ong che trasportano gli immigrati è impossibile. Quello che si sa è che sono senza dubbio la maggior parte e che a incassare questi soldi sono state 570 organizzazioni che hanno stipulato con i vari uffici europei 1.239 contratti per realizzare altrettanti progetti.

In altre parole: da una parte Bruxelles finanzia organizzazioni non governative per svolgere un compito che dovrebbe essere svolto da lei stessa. Oltre il 93% dei finanziamenti alle Ong, infatti, proviene dal capitolo di spesa chiamato Global Europe il cui budget viene usato per le attività extra Ue, spesso identificate come attività di «buon vicinato» tra le quali è compreso anche il traghettamento dei profughi. Appena 46,74 milioni di euro finiscono alle Ong per realizzare progetti interni ai confini europei come l'assistenza ai poveri, sanità e cultura.

Significa che l'Europa ha deciso di appaltare a soggetti terzi una fetta importante della sua politica estera e di sicurezza (ma si può affidare a organizzazioni private non trasparenti la politica di sicurezza esterna di un continente?) sapendo benissimo di non avere l'autorità per imporre agli Stati membri di accogliere l'incredibile onda di immigrati che arrivano proprio in seguito anche ai suoi finanziamenti. Il risultato sono quei 2,1 milioni di persone di cui le autorità statali e comunitarie non sanno nulla e che vagano senza documenti, senza permessi e senza lavoro in giro per il continente.

Le persone sbarcate in Italia tra il primo gennaio e il 26 maggio sono state 60.200 dei quali appena 6.193 ricollocati presso altri Paesi europei che, spesso, frappongono una serie di motivi burocratici per rifiutare l'accoglienza. La maggior parte, 2.299, li ha presi in carico la Germania mentre la Romania, in 5 mesi, ne ha accettati appena 45. L'Ungheria zero. A fronte di questa situazione ciò che finora il governo Gentiloni ha ottenuto è la promessa del commissario europeo all'immigrazione Dimitris Avamopoulos di sbloccare subito 35 milioni a favore dell'Italia per aiutarla a sostenere l'emergenza di questi giorni.

Per dare un'idea: considerando che, ufficialmente, le persone sbarcate tra il primo gennaio e il 27 giugno (esclusi quindi i 12.500 sbarchi stimati tra il 28 e il 29 giugno) sono 73.380 e che per ognuno si spendono 35 euro al giorno, con 35 milioni possiamo garantire loro vitto e alloggio per i prossimi 14 giorni. Poi?

“La Sindone di Torino ha avvolto un corpo martoriato e poi ucciso”

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andrea tornielli

I risultati di una nuova ricerca condotta da due istituti del Cnr. Spazzata via la teoria che le tracce sul lenzuolo siano dipinte



La Sindone di Torino, il lenzuolo di lino che secondo un’antica tradizione ha avvolto il corpo di Gesù dopo la crocefissione, è venuta effettivamente a contatto con il sangue di un uomo morto per aver subito molti e gravi traumi. È quanto emerge da una ricerca su una fibra di tessuto estratta a suo tempo dall’impronta dorsale del lenzuolo, nella regione del piede. Lo studio è stato condotto da due istituti del Cnr, l’Istituto Officina dei Materiali (IOM-CNR) di Trieste e l’Istituto di Cristallografia (IC-CNR) di Bari, insieme al Dipartimento di Ingegneria industriale dell’Università di Padova.

L’articolo con i risultati della scoperta sarà pubblicato oggi sulla rivista scientifica american «PlosOne» con il titolo Atomic resolution studies detect new biologic evidences on the Turin Shroud («Nuove evidenze biologiche rilevate da studi di risoluzione atomica sulla Sindone di Torino», ndr).
«Gli esperimenti sono stati condotti tramite un nuovo metodo di microscopia elettronica in trasmissione a risoluzione atomica e diffrazione di raggi X ad ampio angolo», spiega Elvio Carlino, dell’IC-CNR, che ha guidato la ricerca.

«Gli studi si sono concentrati sulle regioni della fibra lontane dalle macchie visibili in microscopia ottica. La fibra è stata studiata a risoluzione atomica per lo studio di nanoparticelle organiche, secondo un metodo recentemente messo a punto nel centro di Trieste che ho diretto sino a poche settimane fa. Lo studio ha dimostrato come la fibra di lino sia cosparsa di creatinina, di dimensioni fra 20 e 90nm (un nanometro equivale a un milionesimo di millimetro, ndr), legata a piccole particelle di ferridrato di dimensioni fra 2nm e 6nm, tipiche della ferritina».

L’articolo dimostra, osserva il professor dell’Università di Padova Giulio Fanti «come le particelle osservate, per dimensione, tipo e distribuzione, non possano essere degli artefatti realizzati nei secoli sul tessuto della Sindone». Vengono smentite ancora una volta tante fantasiose ricostruzioni relative alla fattura della Sindone come oggetto dipinto. «Inoltre - aggiunge Fanti - l’ampia presenza delle particelle di creatinina legate alle particelle di ferridrato non è tipica di un organismo sano. È invece indice di un forte politrauma subito dal corpo avvolto nel lino.

Lo studio indica che l’uomo deposto nella Sindone è stato vittima di pesanti torture prima di una morte cruenta». A questa conclusione i ricercatori – firmano lo studio anche Liberato De Caro e Cinzia Giannini dell’IC-CNR - sono giunti «sulla base delle evidenze degli esperimenti di microscopia elettronica a risoluzione atomica e facendo riferimento a recenti studi medici su pazienti che hanno subito forti traumi e torture», conclude Carlino. «Nelle fibre è registrato a livello nanoscopico uno scenario violento, la vittima è stata poi avvolta nel telo funerario. Queste evidenze potevano essere svelate solo con le metodiche messe a punto recentemente nel campo della microscopia elettronica a risoluzione atomica».

Il risultato della ricerca, condotta da centri scientifici di avanguardia, è di notevole interesse e conferma le ipotesi avanzate da precedenti indagini, come quelle compiute dal biochimico Alan Adler negli anni Novanta: non ci sono ormai più dubbi sul fatto che il telo sindonico abbia avvolto il cadavere di un uomo torturato e ucciso con la stessa modalità descritta nei Vangeli per la crocifissione di Gesù. Un elemento importante del quale si dovrà tenere conto nel momento in cui verranno autorizzati dalla Santa Sede nuovi esami completi su campioni ufficiali.

Operazione Catapult: 1940, le bombe di Churchill sugli ex alleati

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di Silvia Morosi e Paolo Rastelli | @MorosiSilvia @paolo_rastelli

Winston Churchill

Secondo lo storico di Vichy Robert Aron, citato da Raymond Cartier in “La seconda guerra mondiale”, fu una
«maniera tutta inglese di bruciare i propri vascelli immolando quelli degli altri».
Per Winston Churchill (Memorie), fu un gesto di sfida paragonabile all’esecuzione del re Luigi XVI da parte dei rivoluzionari francesi nel 1793: «Cosa occorre? Audacia… I re coalizzati ci minacciano. Rispondiamo gettando loro una testa di re». Di sicuro l’operazione Catapult del 3 luglio 1940, 77 anni fa, lasciò il mondo senza fiato. A pochi giorni dalla resa della Francia nella Seconda guerra mondiale, la Gran Bretagna attaccò a colpi di cannone le navi francesi, pressoché inermi, ancorate nella rada di Mers El Kebir, nel nord ovest dell’Algeria. Lo scopo era renderle inutlizzabili dai tedeschi. Morirono 1.300 marinai francesi, una parte dei quali, solo pochi giorni prima (29 maggio-3 giugno), aveva collaborato all’evacuazione di Dunkerque, portando in salvo 338mila soldati tra inglesi e francesi.

Decisione– In un altro post pubblicato su Poche Storie abbiamo cercato di mettere in luce quanto la guerra sia una cosa tremendamente seria, tale da evidenziare con assoluta spietatezza la forza e la debolezza delle compagini nazionali e statuali. In quell’occasione abbiamo raccontato come la classe dirigente fascista, nonostante la sua retorica guerriera, al momento della dichiarazione di guerra (10 giugno 1940) fosse in realtà talmente poco consapevole della smisurata prova in cui si stava infilando da non tentare neppure di sfruttare le opportunità favorevoli (che pure in quel momento si presentavano).

Nel caso della Gran Bretagna e dell’operazione Catapult il discorso è inverso ma speculare: la leadership dell’Impero britannico, e soprattutto il premier Winston Churchill, era talmente consapevole della severità della prova che la attendeva da non indietreggiare davanti ad alcunchè  pur di raggiungere lo scopo del momento. Scopo che era la pura e semplice sopravvivenza, visto che Londra – dopo la caduta della Francia – si trovava da sola ad affrontare la più grande macchina da guerra che il mondo avesse mai visto.

La flotta francese sotto il fuoco (da Historum.com)
La flotta francese sotto il fuoco (da Historum.com)

Moralità
Da ciò discende un altro concetto che pure ci sembra piuttosto interessante: quando si tratta di sopravvivenza nazionale, i concetti di moralità e immoralità che governano (o dovrebbero governare) la vita dei singoli perdono molto del loro valore. Uccidere un ex alleato è, da un punto di vista morale, non meno spregevole che attaccare alle spalle un avversario già  prostrato. Eppure nessun politico o storico britannico si è mai sognato di attaccare Churchill per questo. Invece in Italia, almeno nei mezzi di comunicazione di massa, la questione dell’entrata in guerra si è focalizzata spesso, con monotona, petulante e superficiale ossessività, sulla pugnalata alla schiena alla Francia e per nulla, come avrebbe dovuto essere logico, sui motivi, gli obiettivi, i pro e i contro di una decisione tanto grave che metteva a rischio la stessa sopravivenza nazionale.

Motivazioni – Churchill era ben conscio che l’esercito britannico era del tutto inadeguato a opporsi alla Wehrmacht. Non solo per carenza di equipaggiamento (la cui parte migliore e più abbondante era stata lasciata in Francia al momento dell’evacuazione), ma anche per minori capacità tattiche e di leadership. La coscienza di questa inferiorità era talmente profonda che anche negli anni successivi i britannici fecero di tutto per ritardare il più possibile un confronto diretto con il grosso dell’esercito tedesco, affrontato solo nel 1944 in Europa occidentale con l’aiuto degli Stati Uniti e dopo che la campagna di Russia aveva «sbudellato» (per usare le parole di Churchill) la Wehrmacht.

Nel luglio 1940 il divario era ancora più elevato. I leader inglesi sapevano che solo la scarsa dimestichezza dei tedeschi con le operazioni anfibie, la loro carenza di equipaggiamento adeguato allo scopo e soprattutto la Royal Navy e la Raf erano di scudo all’invasione. La marina di Sua Maestà era di gran lunga più forte di quella tedesca. Ma, essendo la Gran Bretagna una potenza globale, aveva anche mille impegni. Non solo la difesa della madrepatria ma anche la scorta ai convogli da cui dipendeva la sopravvivenza dell’isola assediata.

La situazione strategica nel Mediterraneo era peggiorata dall’oggi al domani con l’entrata in guerra dell’Italia e la resa francese. Era minacciato il canale di Suez (qui la storia della figuraccia del 1956), vitale per la difesa dell’India e dell’Impero in un momento in cui il Giappone si stava facendo più aggressivo (sarebbe entrato in guerra nel dicembre dell’anno dopo). In una situazione così incerta, la caduta in mani tedesche delle navi francesi, soprattutto i modernissimi incrociatori da battaglia Dunkerque e Strasbourg, avrebbe potuto alterare l’equilibrio con conseguenze catastrofiche.

Marinai francesi il 3 luglio 1940 (da WW2gravestone.com)
Marinai francesi il 3 luglio 1940 (da WW2gravestone.com)

Senza cedimento– Ma c’erano anche altre considerazioni, più politiche. Da subito Churchill si era reso conto che (come del resto era successo nella Prima guerra mondiale) solo l’aiuto americano avrebbe portato alla sconfitta tedesca. Ma l’opinione pubblica degli Stati Uniti era isolazionista, non voleva mischiarsi di nuovo con una guerra europea. Il presidente Franklyn Delano Roosevelt, benché sicuro che una vittoria della Germania avrebbe alla lunga messo in pericolo anche la sicurezza degli Usa, aveva bisogno di tempo per tentare di portare il popolo dalla sua parte.

E durante questo tempo la Gran Bretagna doveva affermare di fronte al mondo la propria volontà di combattere e resistere a tutti i costi, senza segni di cedimento, in modo che Roosevelt continuasse a considerare gli aiuti all’isola un buon investimento e non uno spreco. Una ciambella di salvataggio lanciata a un uomo che sta affogando ma ha deciso di smettere di nuotare. L’ambasciatore americano a Londra dal 1938 all’ottobre 1940, Joseph Kennedy, il padre del futuro presidente ucciso a Dallas, non aveva alcuna simpatia per gli inglesi: era di origine irlandese, isolazionista, ammirava Hitler e aveva molti dubbi sulla capacità e la volontà di una  parte della classe dirigente britannica di resistere ai nazisti. I suoi rapporti a Wahington non erano incoraggianti. Bisognava dare un segnale a Roosevelt. E l’attacco ai francesi era perfetto.

L'ammiraglio britannico James Somerville (da Wikimedia)
L’ammiraglio britannico James Somerville (da Wikimedia)

Preoccupazioni– L’Ammiragliato sconsigliò l’operazione, ma Churchill la impose, nonostante i tedeschi (addolcendo i termini iniziali dell’armistizio con cui il 22 giugno la Francia si era arresa) avessero concesso alle navi di restare, disarmate, in porti controllati dal governo francese di Vichy. Anche Hitler era preoccupato del destino delle navi: le preferiva innocue in mano agli ex nemici piuttosto che tentare di impadronirsene rischiando che passassero agli inglesi e al governo (illegittimo) francese che veniva messo in piedi a Londra dall’allora semisconosciuto Charles De Gaulle. Nonostante le rassicurazioni dell’ammiraglio François Darlan, il capo della marina di Vichy, e le promesse tedesche di non toccare le navi, Churchill non si fidava. Come disse alla Camera dei Comuni, riferendosi alla lunga serie di impegni disattesi da parte di Hitler:
«Qual è il valore (di queste promesse)? Chiedete a  una mezza dozzina di nazioni quanto valgono queste assicurazioni solenni…».
La flotta francese il 3 luglio era divisa in più tronconi. Una parte era in porti inglesi (Plymouth e Portsmouth) o controllati dagli inglesi, tra cui Alessandria d’Egitto dove erano di stanza la corazzata Lorraine e quattro incrociatori. La corazzata Richelieu, ancora in fase di allestimento, era a Dakar, in Senegal. La sua gemella Jean Bart, anch’essa a dotazioni incomplete, a Casablanca. Il grosso era però a Mers El Kebir: la Dunkerque e la Strasbourg, le due corazzate della Prima guerra mondiale Provence e Bretagne e sei cacciatorpediniere. L’attacco fu portato dalla forza H comandata dall’ammiraglio britannico James Somerville, appena costituita a Gibilterra: l’incrociatore da battaglia Hood, le corazzate Resolution e Valiant, la portaerei Ark Royal, due incrociatori e 11 caccia.

I fatti– Il 3 luglio soldati britannici armati presero possesso della navi ancorate in Gran Bretagna: lo scontro fece tre morti, un marinaio francese e due ufficiali inglesi. Ad Alessandria d’Egitto le trattative condotte dall’ammiraglio britannico Andrew Cunningham portarono a un pacifico disarmo. Ma a Mers El Kebir andò diversamente. Alle 7 del mattino del 3 luglio, Somerville (molto a disagio ma senza altra scelta che obbedire agli ordini) si presentò di fronte al porto algerino e mandò al comandante delle navi francesi, ammiraglio Marcel Gensoul, un ultimatum, cui rispondere nel giro di sei ore.

Cinque le alternative: unirsi alla squadra inglese e combattere contro Germania e Italia; raggiungere un porto inglese con equipaggio ridotto; raggiungere le Antille sotto controllo americano; affondare le navi; essere cannoneggiati. Gensoul, mentre aspettava la risposta del suo governo ma deciso a non sottostare senza resistere alle intimazioni inglesi (il rischio era che i tedeschi considerassero violate le condizioni di armistizio e riprendessero la guerra contro la Francia), diede ordine di accendere le caldaie. Mostrò però agli emissari inglesi gli ordini segreti di Darlan: distruggere le navi piuttosto che farle cadere in mani straniere, soprattutto se tedesche.

Un volantino di propaganda francese di Vichy sui fatti di Mers El Kebir (dal Daily Mail, foto di Roger Viollet/Getty Images)
Un volantino di propaganda francese di Vichy sui fatti di Mers El Kebir (dal Daily Mail, foto di Roger Viollet/Getty Images)

Somerville, che intanto aveva fatto minare la bocca del porto per impedire la fuga agli ex alleati, chiese a Londra se poteva bastare. Ma gli ordini non furono cambiati: «Le navi francesi devono adempiere alle nostre condizioni: o autoaffondarsi o essere affondate da voi prima di sera».

Alle 17,54 le navi inglesi aprirono il fuoco. La Strasbourg con quattro cacciatorpediniere, strappò gli ormaggi e schivando proiettili e mine fece rotta per Tolone, dove arrivò in discrete condizioni. La Provence, colpita seriamente, si arenò e lo stesso fece la Dunkerque. Peggio andò alla Bretagne e al caccia Mogador, che saltarono in aria con gravi perdite (977 morti solo sulla corazzata). Dopo trenta salve il fuoco cessò.

La Gran Bretagna aveva dimostrato al mondo la propria volontà di non cedere. Per un attimo la bilancia fu in bilico: la Francia valutò se entrare in guerra contro l’ex alleato. Non avvenne. Ma l’odio e il disprezzo per l’attacco furono molto lenti a placarsi e avrebbero gettato un’ombra anche sull’Europa post-bellica. La reazione francese, anche una eventuale dichiarazione di guerra (che per fortuna però non venne), era un rischio che Churchill ritenne tuttavia giusto e necessario correre. Più tardi, il primo ministro inglese cosi parlerà dell’episodio:
« … fu una decisione dolorosa, la più penosa delle decisioni che io abbia mai preso…».

Scontro sulla legge per i “diritti degli smartphone”, slitta il voto al Senato

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lastampa.it

Il provvedimento porta la firma del parlamentare Stefano Quintarelli: “La legge non impone cambiamenti commerciali, ma tutela i consumatori in tempi più rapidi”



Slitta ancora al Senato la votazione sul discusso disegno di legge Quintarelli, che ha l’obiettivo di facilitare la lotta contro eventuali abusi di operatori telefonici e di costruttori di cellulari. La votazione infatti non è stata ancora calendarizzata: doveva tenersi giovedì scorso, e ora bisognerà attendere la conferenza dei capigruppo per il programma di lavoro di luglio. Il ddl non è piaciuto però a Matteo Renzi, che si sarebbe speso per limarlo.

Il provvedimento porta la firma di Stefano Quintarelli, pioniere dell’informatica in Italia, che ha difeso il disegno di legge sul suo blog, particolarmente seguito dagli addetti ai lavori. Il ddl è stato presentato nel luglio 2014 e approvato dalla Camera nel 2016. Ora il testo attende la calendarizzazione, ma ha acceso la discussione politica che alcuni osservatori hanno ipotizzato stravolgimenti nei rapporti commerciali di colossi come Google, Microsoft e in particolare Apple. L’accusa che arriva da alcune parti del Pd è che la legge sarebbe contro la libertà di impresa e in modo particolare contro la Apple.

È l’articolo 4 del ddl quello più discusso, che permetterebbe all’utente di installare e disinstallare qualunque software, sistemi operativi, app su qualsiasi device. Una norma che complicherebbe l’uso di dispositivi Apple, che sono invece «chiusi». Secondo Quintarelli invece la norma non farebbe altro che introdurre un sistema di tutela più forte per chi usa il dispositivo e garantirebbe maggiore libertà all’utente, affermando il principio di neutralità della rete, secondo cui il proprietario di un telefono deve avere ampia possibilità di scelta.

«La legge non impone alcun cambiamento alle pratiche commerciali di nessuno. Solo, in caso di discriminazioni dolose che causino un danno all’utente - spiega Quintarelli - introduce una possibile procedura semplificata e più breve rispetto all’Antitrust. Il caso Google di questi giorni è durato otto anni, e adesso inizia il ricorso». In sostanza questo disegno di legge prevede che se discrimini (traffico o applicazioni) per ragioni anticompetitive, non tecnicamente motivate «puoi essere sanzionato con una procedura che non richiede un lungo e costoso procedimento antitrust».

Il binario antitrust continuerebbe quindi ad esistere, ma i procedimenti sono lunghi. Per questo Quintarelli ha disegnato questa proposta: «I procedimenti del codice del consumo previsti nella mia proposta di legge sono brevi, meno costosi e le sanzioni sono multe (al massimo 1/500 della sanzione comminata a Google). Inoltre, questi procedimenti possono essere chiusi con impegni in cui il produttore si obbliga a eliminare il presunto illecito».
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