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Minacce al compagno di classe ebreo “Da grandi faremo riaprire Auschwitz”

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GIAN PIETRO ZERBINI

Ferrara, choc alla scuola media. L’autore in lacrime. Intervengono docenti e famiglie



«Quando saremo grandi faremo riaprire Auschwitz e vi ficcheremo tutti nei forni». Una frase choc, terribile. La minaccia di un ragazzino di prima media a un compagno ebreo, in una scuola della periferia di Ferrara, durante una lite negli spogliatoi della palestra che ha coinvolto altri due compagni.

Accadeva la scorsa settimana. La scuola non aveva chiuso gli occhi. L’episodio era stato subito riferito agli insegnanti, il ragazzino richiamato e messo di fronte alle sue responsabilità era scoppiato in lacrime, sono state coinvolte le famiglie ed è stato attivato un percorso di riflessione su cui ieri si è abbattuta un’onda mediatica di piena.

La cassa mediatica
Che ha fatto rimbalzare l’episodio tra tv e social, con una cascata di prese di posizione. Più o meno centrate.
Di frase grave parla il rabbino capo di Ferrara, Luciano Caro, «anche se chi l’ha pronunciata, un ragazzino delle medie, probabilmente non si è nemmeno reso conto di ciò che diceva.

Il caso forse è stato un po’ amplificato, in buona fede, perché la vicenda è già rientrata, e circoscritta. Collocherei l’episodio in un ambito di ignoranza di due bambini che litigano - ha proseguito il rabbino di Ferrara – senza un retroterreno antisemita. Insulti comunque gravi sottolinea, perché riflettono quello che i più piccoli respirano negli stadi, nei manifesti per strada, e non si rendono conto della gravità di certe affermazioni».

Solo una ragazzata? «Da un lato, vista l’età dei protagonisti, la cosa potrebbe essere archiviata così – spiega il presidente della comunità ebraica Andrea Pesaro – ma occorre analizzare anche un secondo aspetto importante, cercare di capire come questi ragazzi abbiano

acquisito questo linguaggio, da dove hanno attinto queste affermazioni e riflettere su certi messaggi pericolosi». Nei prossimi giorni il rabbino Caro andrà nell’istituto per parlare con gli scolari e dare testimonianza di cosa è stata la persecuzione degli ebrei.

La reazione politica
Sulla vicenda è intervenuto anche il sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani. «Ho parlato con la dirigente scolastica dell’Istituto. Sono state espressioni che credo non nascano dal cuore dei bambini, ma da ciò che sentono e prendono da quella parte di società che è sempre più intollerante.

La scuola – senza minimizzare o sottovalutare – si è subito attivata per aiutare i ragazzi a comprendere la gravità dell’accaduto e proprio per questo non ha voluto esaltare il fatto per tutelare i ragazzi che hanno bisogno di serenità e tempo per comprendere come il rispetto, la tolleranza e la dignità delle persone debba essere rispettata e perseguita».

Dell’episodio è stata informata anche l’autorità giudiziaria, in seguito agli accertamenti disposti dal comandante dei carabinieri di Ferrara, colonnello Andrea Desideri. «Il fatto – dicono i carabinieri – è stato stigmatizzato dalla dirigenza scolastica che ha adottato tutte le misure

necessarie volte non solo a tutelare la vittime, ma anche attuare una mirata azione negli animi dei ragazzi».Il caso è diventato anche politico, con numerosi interventi da tutte le forze politiche per condannare l’episodio di razzismo subito dal ragazzino.

Dal vicepremier leghista Matteo Salvini che ha detto che vorrebbe abbracciare la vittima durante la sua prossima visita a Ferrara, al ministro dell’Istruzione Marco Bussetti che ha condannato l’antisemitismo, fino al governatore del Pd dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini.

Bolzano, si litiga sulla messa pasquale bilingue da trasmettere in Rai

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di Alan Conti

La diocesi chiede spiegazioni al coordinatore tv: «Nessuna discriminazione, facciamo un anno a testa»

BOLZANO La trasmissione radiofonica della messa di Pasqua dal Duomo di Bolzano non è adeguata perché bilingue. Meglio diffondere quella dalla parrocchia di Fulpmes, in Austria, a 14 chilometri da Innsbruck. Questa la scelta della Rai, nella sua versione «Rai Südtirol», per la prossima domenica. La motivazione ricostruita da Christoph Franceschini sul sito d’informazione «Salto.bz» sarebbe spiazzante: la funzione liturgica della diocesi

bolzanina avrebbe il difetto di presentare delle parti in italiano. Preferibile, dunque, una trasmissione tutta in lingua tedesca. Ad innescare la vicenda è stata la richiesta di lumi del responsabile dell’ufficio stampa della diocesi Paolo Ferrari al coordinatore delle trasmissioni di “Rai Südtirol” Markus Perwanger.


Il vescovo Ivo Muser Il vescovo Ivo Muser
Sconcerto del vicario
«Avevamo bisogno di sapere se predisporre i collegamenti tecnici per la diffusione Rai della messa di Pasqua. Dal quel che mi risulta è sempre stata trasmessa dall’emittente di Stato ma questa volta ci è stato comunicato che hanno deciso di utilizzare la funzione celebrata in Austria. Noi ne prendiamo atto e sappiamo cosa comunicare a fedeli e lettori.

La Messa di Pasqua celebrata dal vescovo Ivo Muser potrà comunque essere seguita su Radio Sacra Famiglia senza alcuna polemica. Naturalmente in due lingue». La messa in italiano e tedesco, d’altronde, è da molti anni un caposaldo della diocesi passata da Wilhelm Egger, Karl Golser fino ad Ivo Muser. Netta, invece, la risposta del vicario generale Eugen Runggaldier:

«Siamo davvero sconcertati perché la messa in più lingue è per noi un aspetto da valorizzare e non da penalizzare».
La replica: «Nessuna motivazione etnica»
Una lettura respinta con forza da Perwanger. «Si sta soffiando su un fuoco inesistente. Non c’è nessuna motivazione linguistica e non vogliamo togliere niente a nessuno. La programmazione delle messe secondo questa collaborazione con Orf Tirol viene calendarizzata annualmente da padre Urban Stillhard a ottobre.

Una settimana una nostra parrocchia e la settimana dopo una austriaca. A Pasqua tocca a loro: non c’è nessuna motivazione etnica. Io stesso ho fatto programmare una trasmissione televisiva dedicata alla Pasqua con Ivo Muser alle 20.20 di sabato sera quindi proponiamo comunque a tutti la possibilità di ascoltare le sue parole.

Naturalmente quando ci sono delle parti in italiano noi dobbiamo tradurre perchè ciascuno ha il diritto di ascoltare il canale nella sua lingua: avviene anche con il telegiornale italiano. E’ la normalità».
Esulta la destra tedesca
A plaudere alla scelta dell’emittente, intanto, è la destra tedesca. «Rai Südtirol è a difesa di una minoranza – scrive il segretario dei Freiheitlichen Otto Mahlknecht – e ha l’obbligo di trasmettere solo in lingua tedesca. Una prerogativa assolutamente da difendere. La collaborazione della Rai con Orf va esattamente in questa direzione garantendo una maggiore tutela del gruppo linguistico tedesco.

Bisogna incoraggiare questo tipo di scelte e non certo criticarle”.

Bergamo, riaperte dopo 46 anni le indagini sul sequestro Panattoni

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di Maddalena Berbenni (mberbenni@corriere.it)

Fascicolo a carico di ignoti su input della Dda di Brescia che ha acquisito tutti gli atti


Mirko Panattoni in braccio al padre dopo la liberazioneMirko Panattoni in braccio al padre dopo la liberazione

Un Maggiolone nocciola rubato la sera prima in via Corridoni e l’identikit dell’uomo che aveva strappato il piccolo dal marciapiede di via delle Mura, prima della scuola. «Alto, moro, barba, capellone, maglione blu, camicia bianca, occhiali da sole, pantaloni scuri». Era il 21 maggio 1973 e da quei pochi elementi gli inquirenti

iniziavano a lavorare sul rapimento di Mirko Panattoni, 7 anni, primo bambino di una stagione di sequestri in Lombardia: 60 in cinque anni. Poi gli appelli, la «Marianna» assediata dai cronisti, una valigia di contanti per il riscatto, il rilascio a Pontida e alcune piste che non portarono mai oltre i sospetti. Un cold case, insomma. Invece no.

Quasi 46 anni dopo, tra il più stretto riserbo, l’indagine riparte. La procura ha aperto in questi giorni un fascicolo a carico di ignoti su input della Direzione distrettuale antimafia di Brescia, a cui sono stati trasmessi i relativi atti. Comprensibilmente da parte degli inquirenti la

prudenza è massima e nulla di più filtra né tra i corridoi di piazza Dante né ai piani alti del palazzo di giustizia bresciano. Stando alle poche indiscrezioni, la spinta sarebbe arrivata dal racconto di un testimone, ma nemmeno si sa se legato ad altre inchieste, se un pentito o un informatore involontario.

L’unico dato che si può dedurre è che la Dda ritenga il nuovo spunto investigativo sufficientemente serio da meritare di essere approfondito anche a distanza di quasi mezzo secolo. Sono le 8.25 quando Mirko, seconda elementare, viene caricato in auto con la forza a pochi passi da Colle Aperto e dalla gelateria che il padre Enrico aveva avviato vent’anni prima dopo essersi trasferito dalla

Toscana. Oggi la «Marianna» è molto di più della sua leggendaria stracciatella e Mirko, padre di tre figli, gestisce il marchio con i fratelli. La richiesta per il suo riscatto è immediata, le cronache parlano di cento milioni di lire che poi, a trattativa conclusa, diventeranno il triplo.

L’avvocato Mirko Tremaglia è al fianco dei genitori. Il Maggiolone guidato da un complice viene abbandonato in via XXIV Maggio con qualche traccia, ma poco di che. «Sono la madre di Mirko — il messaggio di Oriana Panattoni il 22 maggio —, ridatemi mio figlio, è solo un bambino. Dite quanto volete, ma tenetelo fuori dai pericoli.

Fatevi vivi, per carità». Seguono due settimane di tormento, in cui la famiglia supplica di potere anche solo ascoltare la voce del bimbo, mentre lui — racconterà poi — soffre per il distacco da casa chiuso in una sorta di cantina tappezzata di giornali, dove chi gli porta il cibo si nasconde il volto con «una cuffia».

Sono passamontagna, ma Mirko non conosce la parola. Tra i suoi carcerieri individua quattro uomini e una donna. In sottofondo sente i rumori di una teleferica, i rintocchi di una campana, il fischio di un treno, bambini piangere e un cane abbaiare. La svolta arriva il 5 giugno quando viene versato il riscatto. La cronaca di due notti dopo sembra uscita da un romanzo con Enrico Panattoni che balza sulla

Jaguar amaranto insieme a Tremaglia per volare sulla Briantea, perché il telefono ha squillato all’1.40 e la voce ha pronunciato la frase attesa: «Abbiamo lasciato il bambino a Pontida». Quella che si agita dietro una siepe, al buio, in una strada trovata vagando in paese, è davvero la manina di Mirko, avvolto in un plaid.

«Perché non hai risposto al tuo babbo?», lo abbraccia il papà. Alle 2.15 la Jaguar torna in Città Alta, dove ci sono la mamma, la maestra Anna Granelli, una piccola folla e i giornalisti che già sanno, ma per non essere d’intralcio aspettano lì.Un mese dopo l’allora pm Adriano Galizzi indagò il 27enne Achille Lorenzi, di Bergamo, detenuto a Sant’Agata per rapina.

Non fu tanto per gli 8 milioni trovati in casa sua, ma per la voce, simile a quella dell’«esattore» della banda, registrata nelle telefonate prima della liberazione. Fu anche eseguita una perizia senza, però, arrivare a un processo.

Nemmeno per i due fratelli di Sesto San Giovanni Sergio e Angelo Cavalli né per Elio Carissimi, di Carvico, allora 28enne, implicato nel sequestro Occhipinti. Si era ipotizzato che Mirko fosse stato rinchiuso in una sua casa a Sotto il Monte. Ma anche la prigione è rimasta un mistero. Almeno finora.

Niente ecografia per la nonnina di 102 anni. «Torni l’anno prossimo»

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La denuncia della figlia su «Qn»: «Mi hanno detto che non c’è posto non solo nell’ospedale di Fabriano ma in tutte le Marche»

Niente ecografia per la nonnina di 102 anni. «Torni l’anno prossimo»

La signora Ida Cucco, 102 anni, ha bisogno di fare un’ecografia al fegato. Abita a Fabriano, nelle Marche. Nell’ospedale della sua città non c’è posto per tutto il 2019, e così a quanto pare in tutta la regione. Per l’ecografia, chiesta dal medico con urgenza, dovrà aspettare almeno l’anno prossimo.

Lo ha denunciato la figlia Loretta Bartocci come riportato da Qn di giovedì: «Ieri mattina mi sono presentata al Cup, il centro di prenotazioni dell’ospedale Profili di Fabriano per chiedere un’ecografia al fegato per mia madre.

L’operatore di turno mi ha riferito che per tutto il 2019 non ci sono posti liberi per effettuare un esame del genere non solo a Fabriano, ma in tutte le Marche».
Esami privati
Spiega la figlia: «Ormai da quattro anni, a mio madre è stato applicato un drenaggio biliare con cui convive. Periodicamente la sua situazione va controllata e nei giorni scorsi ci siamo rivolti ad un medico radiologo di Ancona che ha consigliato e sollecitato l’effettuazione di questa visita».

Vista l’urgenza, l’unica possibilità sembrerebbe il ricorso alla sanità privata. «Se il contesto è davvero destinato a rimanere questo, la scelta obbligata sarà di rivolgersi agli esami a pagamento per i quali sono straconvinta si trovi posto nello spazio di pochissimi giorni» conclude amaramente la signora Loretta Bartocci.

Ingroia: “Fermato come Assange, in aereo non ero ubriaco”

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L’ex pm di Palermo è stato costretto a scendere dal velivolo per un presunto «stato di ebbrezza». Lui si difende: vittima della disinformazione, ho solo avuto un diverbio


Ingroia e la moglie Giselle in un video su Facebook

«Siamo qui per smentire le false notizie che sono state date sul mio conto. Uno dei problemi maggiori del nostro paese è quello della disinformazione e delle fake news».

A parlare, in un video postato su Facebook, seduto accanto alla moglie Giselle, mentre si trova in America centrale, è Antonio Ingroia, l’ex pm di Palermo che venerdì sera non ha potuto prendere l’aereo Air France per un presunto «stato di ebbrezza» di cui si era parlato, che però adesso l’ex magistrato smentisce.

«Io mi sono sempre battuto contro le false notizie e per la libertà di Julian Assange che è ancora arrestato - dice Ingroia - è accusato in nome di una pretesa sicurezza dell’informazione mentre lui ha smascherato le menzogne del sistema. Spesso in nome della sicurezza si fanno abusi e poi la stampa fa la sua parte».

«Nel piccolo anche io sono stato vittima dell’uso pretestuoso della sicurezza per false informazioni e false notizie - dice - quello che è successo è stato un banale litigio su un aereo. Il comandante dell’equipaggio di Air France ha detto che costituivo un pericolo per la sicurezza proprio come per Assange, così sono stato cacciato via», dice.

«Si sono inventati che io sarei stato ubriaco- dice - è tutto falso, tutto quello che è uscito sui giornali è falso. Il Comandante mi ha chiesto se avevo bevuto e ho detto che avevo bevuto due bicchieri di vino a pranzo. A partire dal fatto che sono stato rispedito in Italia, come vedete non è vero. Sono in America centrale per lavoro.

E addirittura hanno detto che ero così ubriaco che ero svenuto, una falsità Lo possono testimoniare pure i funzionari dell’ambasciata che sono venuti ad accompagnarmi. Insomma, le false informazioni dominano».

«Queste false notizie hanno campeggiato su molte prime pagine di giornali che si ritengono seri, e saranno querelati. Ma per ora pensiamo alla Pasqua». Anche la moglie ha voluto aggiungere: «Cosa diranno adesso i giornali che hanno detto falsità? Non mi rivolgo a loro ma alle persone di buon cuore, ho fede nella verità e nella giustizia divina».

E Ingroia ha aggiunto: «Si può avere giustizia anche dalla giustizia terrena...».

Sebastiano Sartori, ex Forza Nuova: «Liliana Segre sta bene in un termovalorizzatore». Bussetti manda gli ispettori per il prof razzista di Venezia

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L’insegnante, già militante di Forza Nuova, in un profilo Facebook poi chiuso, insulta la senatrice a vita e scrive parole ingiuriose contro la Costituzione. Il ministro: se così va allontanato dalla scuola

«Insegnare è un lavoro bellissimo, una missione da vivere tutti i giorni dando il meglio di sé per educare i nostri giovani. Ma se qualcuno sale in cattedra per seminare odio e falsità evidentemente non si trova nel posto giusto. E va allontanato dalla scuola».

Lo ha scritto il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti su Facebook, postando la foto dell’articolo del Corriere del Veneto dedicato a Sebastiano Sartori, ex esponente di Forza nuova. insegnante di sostegno all’istituto alberghiero «Barbarigo» di Venezia.

L’uomo sul proprio profilo Facebook, chiuso dopo la pubblicazione online dell’articolo, scriveva post deliranti come «La Costituzione è un libro di m... buono per pulircisi il c...», vedeva con favore la creazione di «Campi di concentramento in Libia, sembra che la proposta sia già condivisa da tutti. A me piace». Se la prendeva con i migranti condividendo un titolo che diceva «Hanno aizzato un cane contro un ambulante sulla spiaggia.

E tutti applaudivano e ridevano». E ancora sulla morte della figlia di Himmler: «Dal Valhalla salutaci papà». E, parlando di Liliana Segre, sopravvissuta all’Olocausto, senatrice a vita nominata dal presidente Sergio Mattarella, aveva scritto «Sta bene in un simpatico termovalorizzatore».


L’esposto in procura
I genitori dei ragazzi dell’alberghiero avevano scritto al preside e presentato un esposto in procura raccogliendo gli screenshot dei post di Sartori. Bussetti, in un post su Facebook, ha scritto di aver «sollecitato una relazione e un’ispezione: voglio verificare cosa sia realmente accaduto». Il ministro parla chiaramente di «di atteggiamenti e dichiarazioni inqualificabili da parte di un insegnante in Veneto che, se confermati,

rappresenterebbero un fatto gravissimo, un comportamento generale non conciliabile con il ruolo di docente. Non è possibile che un insegnante si esprima in questi termini». E aggiunge: «Una volta accertati i fatti, assumeremo tutte le iniziative e le misure, anche sanzionatorie, necessarie a tutelare gli alunni e tutti i docenti che ogni giorno, anche a costo di enormi sacrifici, permettono alla scuola italiana di svolgere il suo fondamentale ruolo per i nostri giovani».

La senatrice di LeU Loredana De Petris, presidente del gruppo Misto ha espresso, in una nota, solidarietà alla senatrice a vita Liliana Segre: «Presenterò immediatamente — sottolinea De Petris — un’ interrogazione rivolta ai ministri degli Interni e dell’ Istruzione per chiedere che vengano presi provvedimenti

tempestivi per porre fine a questa vergogna. Non è neppure pensabile che si possa incitare al razzismo, all’antisemitismo e all’intolleranza, tanto più quando a farlo - conclude - è un docente alle prese con ragazzi molto giovani ed esposti a una così nefasta influenza».

L’invasione delle locuste come «arma segreta»: Teheran accusa i sauditi

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di Francesco Battistini

Il Sud dell’Iran invaso dagli insetti, a rischio i pistacchi

L’invasione delle locuste come «arma segreta»: Teheran accusa i sauditi

Nemmeno al Faraone d’Egitto gliela fecero così grossa. Neppure quel Pavone dello Scià di Persia avrebbe mai osato tanto. Sciami che tappezzano le strade del Khouzestan, milioni di cavallette che invadono i bazar beluci, nuvole d’insetti che piovono sulle case di Bushehr e di Fars, masse alate che vengono sospinte dai venti dell’Hormozgan e planano nei deserti di Kerman e Sistan… Una maledizione dal cielo. Peggio d’un raid israeliano o d’un tweet di Trump.

Colpa del cambiamento climatico? No, dell’orientamento politico. Perché a certi falchi di Teheran non gliela si fa: l’ortottero è un infedele al servizio dei sunniti e dietro l’ultima invasione delle cavallette nelle regioni del Sud, altro che flagello divino, qui Arabia ci cova. «Da Riad hanno permesso che milioni di locuste si dirigessero verso il nostro Paese — è sicuro Said Moeini, direttore generale del ministero dell’Agricoltura iraniano —. Sapendo che gli sciami avrebbero raggiunto noi, non hanno fatto nulla per bloccarli».

Allah stramaledica i sauditi. L’ottava piaga biblica è la millesima lite coranica fra gli sciiti di Teheran e i wahabiti di Riad. Recita il libro dei Proverbi che «le cavallette non hanno un re, eppure marciano tutte insieme schierate»? Favole, commentano le autorità iraniane: la locusta migratoria è l’ultima arma segreta dell’odiata dinastia Saud. E siccome l’insetto ama l’umido, e in Medio Oriente è stato un inverno piovosissimo, il sospetto è che qualcuno ne abbia agevolato l’esodo.

In fuga dal Golfo d’Arabia (o Golfo Persico, a seconda dei punti di vista, perché si sa che arabi e persiani litigano perfino sui nomi dei mari), tutte a cercare il loro Nord. Che caso vuole, o politica impone, sia proprio l’Iran degli ayatollah e il Libano degli Hezbollah (sciiti pure questi). Ondate da venti milioni d’insetti, che nei prossimi giorni raddoppieranno grazie ai venti: volano 400 km al giorno, a 1.700 metri di quota.

Gli iraniani per ora ammazzano le larve, impedendo almeno la riproduzione, ma i campi di pistacchi e di barbabietole rimangono a rischio: uno sciame piccolo è capace di divorare in ventiquattr’ore il nutrimento di cinquantamila persone. Quindici anni fa, in Egitto, la gente bruciava gli pneumatici pur di fermare col fumo nero l’invasione, eppure andò distrutta la metà dei raccolti.

Insetti di distruzione di massa. Avere il doppio dei soldati di Riad non ha mai tranquillizzato Teheran. Un po’ perché le armi vendute da Putin non bastano mai, con tanti fronti aperti (e comunque i sauditi sono meglio riforniti da Trump). Un po’ perché l’entomofobia militare, l’essere colpiti con armi non convenzionali come gli insetti, è una paura antica.

«Io ti riempirò di uomini come di locuste — ammoniva il profeta Geremia — che eleveranno contro di te grida di guerra». E pure la Convenzione di Washington del 1972 sulle armi biologiche s’occupava del tema: dopo la Seconda guerra mondiale, si scoprì che i nazisti avevano sperimentato gli effetti di tifo e malaria sui deportati nel lager di Dachau, selezionando poi una zanzara anofele molto aggressiva che potesse infettare le truppe americane.

Per non parlare del Giappone, che in Manciuria allevava topi e miliardi di pulci sognando di «bombardare» Los Angeles e diffondere la peste bubbonica. Due anni fa, fecero rumore le rivelazioni su «Insect allies», un progetto dell’agenzia americana per la ricerca avanzata della Difesa (Darpa), che nei laboratori di Arlington in Virginia immetteva nelle piante, attraverso gli insetti, virus capaci di cambiare il genoma vegetale d’intere coltivazioni.

Fantascienza bellica?
Se il genere v’appassiona, gli iraniani ora hanno scritto un nuovo capitolo. «Non siete niente», inveì qualche mese fa il presidente Hassan Rouhani contro gli odiati sauditi: «Contro di noi, potenze più grandi di voi si sono rotte i denti». Forse, non aveva calcolato il morso della cavalletta.

Tra i commessi costretti a lavorare anche a Pasqua “Qui l’unica è protestare”

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NADIA FERRIGO

La rabbia dei lavoratori del Torino Outlet Village di Settimo Torinese - “Pagati come una domenica qualsiasi, dateci almeno l’orario ridotto”


Le aperture straordinarie pubblicizzate al Torino Outlet Village

Per il terzo anno di fila non ci sarà Pasqua né Pasquetta, Liberazione e Primo maggio per chi lavora al Torino Outlet Village, una novantina di negozi a Settimo Torinese, quindici minuti d’auto dal centro. A sentir nominare le «aperture straordinarie» negozianti e commessi perdono all’istante il sorriso d’ordinanza.

Lo scontento è palpabile, proprio come la paura di presentarsi con nome e cognome «che se no mi licenziano». «Dovete scriverlo, perché è una vergogna» sibila una giovane ottica. Il suo store manager non aggiunge nulla, ma annuisce convinto.

«Nemmeno l’orario ridotto ci hanno dato. Avremmo dovuto scioperare, come i nostri nonni. A Serravalle l’hanno fatto». Dopo una battaglia sindacale, coronata da due giorni di sciopero con l’allora segretaria generale della Cgil Susanna Camusso, quest’anno il più grande centro commerciale d’Europa resterà chiuso.

«Almeno ci pagassero meglio, macché. Come una domenica qualsiasi» conclude la giovane battagliera. Stessa solfa da Pollini, Richard Ginori, i bar Re Nero. Lavorare il giorno della festa, proprio quando si può passare del tempo con la famiglia, non piace a nessuno.

Per quest’anno avrebbero sperato nell’orario ridotto, ma la proprietà non ha voluto sentire ragioni. Il punto lo fa Giovanna Lovaglio, store manager della griffe Carlo Pignatelli. Che è un pochino meno arrabbiata degli altri «perché almeno noi abbiamo un’azienda alle spalle che ci

dà i giusti meriti economici e i riposi che ci spettano. Ma il nostro è un paese cattolico, la Pasqua è la festa più importante. Non conta nulla? Da tre anni aspettiamo un cambiamento, un segnale. Che però non arriva mai».

La Pasqua non conta, perché a Settimo - come altrove - contano gli incassi. E dalle vetrine dei negozi dell’outlet aperto da Arcus Real Estate spuntano promozioni e pure intrattenimento per i più piccoli studiati su misura, dal 30 per cento sul secondo paio di scarpe al corso «per creare un ovetto con sorpresa con cartoncini e pennarelli colorati».

Ma chi vorrà mai passare le feste in un centro commerciale? «Ho controllato poco fa le vendite dello scorso anno. Non è andata male, e a Pasquetta ancora meglio - continua la store manager dello stilista pugliese.

Dopo il pranzo in famiglia si va a fare due passi al centro commerciale. Che ci trovano a passare le feste a fare shopping me lo chiedo anche io». Sulle panchine all’ombra dell’obelisco, 85 metri che svettano su coppie, famiglie e sacchetti, ci si divide in due gruppi.

Chi è un poco più avanti con l’età boccia le aperture e giura che mai metterà piede in un negozio in un giorno di festa. Ma i più giovani non sono della stessa idea. «Non c’è niente da fare a Pasqua. E poi faranno i turni no? Mica devono lavorare sempre gli stessi». «Che problema c’è, è normale che i negozi stanno aperti quando è festa».

E la proprietà? Non dice nulla. L’ufficio stampa del Torino Village risponde solo che «di sabato pomeriggio le spokeperson, le persone autorizzate a dare dichiarazioni alla stampa, non sono disponibili». Pare strano, ma nel centro commerciale che non chiude mai l’unica che non si trova in un sabato nemmeno festivo, ma prefestivo, è proprio la proprietà.

Padova, la fidanzata dell’ex guru del web: «Ho cucinato lo strudel e in forno c’erano 40 mila euro, tutti bruciati»

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di Roberta Polese

Processo per evasione fiscale, il colonnello della Guardia di finanza porta in aula le intercettazioni: Vazzoler nascondeva il denaro contante perché temeva un blitz della Finanza

Alberto Vazzoler
Alberto Vazzoler

PADOVA A una settimana dai sequestri che hanno svelato la sofisticata architettura societaria messa in campo per nascondere le tangenti del Mose, oltre a molto denaro nero di imprenditori padovani, a Padova si sta tenendo da qualche mese un processo ad un’altra faccia della stessa medaglia, ovvero quella dell’evasione fiscale. Altri (presunti) raggiri, altri vorticosi giri di soldi all’estero, identico l’obiettivo: sottrarre al Paese il denaro delle tasse.

Sul banco degli imputati c’è Alberto Vazzoler, sandonatese, padovano d’adozione, ex guru del web ai tempi di NetFraternity, arrestato nel giugno del 2016 insieme a commercialisti svizzeri, faccendieri, la fidanzata e la ex fidanzata, con la pesante accusa di associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio transnazionale per aver portato all’estero fiumi di denaro: si parla di qualcosa come oltre 40 milioni di euro.

In aula il colonnello Vittorio Palmese, che comanda il Nucleo tributario della Guardia di Finanza di Padova, ha ricostruito davanti al tribunale collegiale i passaggi delle intercettazioni ambientali e telefoniche che confermerebbero l’esistenza di un sistema organizzato, che Vazzoler voleva proteggere ad ogni costo.

Uno strudel, quello di Silvia Moro è costato 40 mila euro (web)
Uno strudel, quello di Silvia Moro è costato 40 mila euro (web)
Lo strudel e i 40 mila euro
A prova del fatto che Vazzoler aveva la disponibilità di molto denaro contante (che secondo le indagini veniva portato all’estero) c’è l’intercettazione della sua fidanzata, Silvia Moro, che al telefono con la sorella dice: «Ho fatto una cazzata, ho cucinato uno strudel e dentro al forno c’erano 40 mila euro che sono andati bruciati».

Questo consente di comprendere il timore che Vazzoler aveva che un blitz della Guardia di Finanza potesse portargli via i contanti, e spiega la necessità di nascondere tutto nel forno, un metodo della nonna, a dire il vero, neanche tanto originale.

Ma è anche dalle intercettazioni ambientali registrate nell’auto dell’imputato che si evince il grado di coinvolgimento nel sistema illecito. Vazzoler parla nella sua Porsche Macan e non sa che la Finanza lo ascolta; così quando lui e la giovane fidanzata Silvia ascoltano e commentano le notizie del giornale-radio, si capisce che

nascondono qualcosa: ad esempio, quando il giornalista spiega le vicende del noto fotografo Fabrizio Corona, che aveva consegnato denaro contante alla fidanzata ritrovato dagli investigatori milanesi in una intercapedine della casa della donna.

Sentite le notizie, Vazzoler dice alla fidanzata che è proprio per questo, cioè per evitare di essere arrestato, che ha deciso di non tenere mai più soldi in casa. Un’altra intercettazione viene registrata alla fine del 2016, sempre nella Porsche, ed è indicativa del grado di sicurezza dell’uomo: «Io faccio una pernacchia a tutti, io il grano me lo sono preso, mi pago i processi vado via».

Era il dicembre del 2016, due anni dopo è finito in carcere e ora è ai domiciliari.

Znen Ves, la Vespa (cinese) bloccata dal Tribunale

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La Vespa è una sola, ed è quello scooter che tutti conoscono prodotto dall’italiana Piaggio.

Lo conferma una sentenza della corte d’appello del Tribunale di Torino, presieduta da Emanuela Germano Cortese, che ha rigettato le richieste della Zhejiang Zhongneng Industry, patrocinata dal professor Marco Spolidoro, contro la sentenza del 6 aprile 2017 con cui la Corte di Torino riconosceva a Piaggio, patrocinata dal professor Giuseppe Sena, il diritto di tutela dell’immagine, della forma e del prodotto Vespa.

L’industria cinese ha prodotto uno scooter, lo Znen modello Ves, del tutto simile alla Vespa sia nella forma che nel marchio, con un nome che, come minimo, poteva generare confusione. Gli scooter vennero fermati alla dogana.

Il Tribunale ha riconosciuto che la forma di un prodotto può essere tutelata sia attraverso la disciplina dei marchi sia, come ha sottolineato il professor Sena, «come opera dell’ingegno nell’ambito del disegno industriale». Un riconoscimento all’unicità del prodotto italiano e alla matita di Corradino D’Ascanio, designer di alcuni dei migliori prodotti industriali dell’Italia del dopoguerra.

Piaggio vince la causa contro i cinesi: la Vespa è tutelata dal diritto d’autore

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MICHELA PAGANO

La sentenza della Corte d’Appello di Torino è giunta dopo una vicenda giudiziaria durata 6 anni



La Corte d’Appello di Torino si è espressa in merito alla vicenda che per 6 anni ha visto due società cinesi, la Zhejang Zhongneng Industry Group e la Taizhou Zhongneng Import And Export, attive nella produzione e commercializzazione di motocicli, in causa con l’azienda italiana Piaggio, poichè sostenevano la nullità del marchio e l’inesistenza della tutela autoriale.

La forma della Vespa, icona del design artistico italiano, è stata riconosciuta valido oggetto di marchio tridimensionale e opera del diritto d’autore. Questa la decisione della Corte d’Appello che giunge al termine di una vicenda iniziata nel 2013, quando la Guardia di

Finanza sequestrò alcuni motocicli in occasione dell’apertura del salone milanese EICMA, in quanto costituivano un’imitazione della Vespa, violando così il diritto di esclusiva del Gruppo Piaggio costituito dal cosiddetto «marchio tridimensionale».

Le società cinesi coinvolte nel sequestro citarono Piaggio davanti al Tribunale di Torino, richiedendo l’annullamento del marchio costituito dalla forma tridimensionale dello scooter. La Corte d’Appello ha però rigettato le loro richieste.

«Confermando la sentenza di primo grado – afferma il legale dell’azienda italiana, Fabrizio Jacobacci - la Corte d’Appello ha respinto gli attacchi delle società cinesi, ha riconosciuto il valore storico della forma della Vespa, che presenta lo stesso cuore distintivo dal 1945 ad oggi, ed ha prestato particolare attenzione alla distintività ed al valore del marchio tridimensionale.

Tutela quest’ultima che non è così facile ottenere dai tribunali italiani ed in sede europea. Questa sentenza rappresenta, dunque, un enorme successo per Piaggio, giacché è l’ultima iniziativa contro un colosso cinese che tenta di sfruttare la notorietà della Vespa a fini commerciali».

Quando un 21enne Sorrentino pregava Troisi di farlo lavorare: ecco la lettera inedita

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di Natalia Distefano

È uno dei documenti esposti nella mostra dedicata all’attore scomparso che s’inaugura a Roma con oltre 80 scatti privati e immagini d’archivio, locandine e carteggi privati

Quando un 21enne Sorrentino pregava Troisi di farlo lavorare: ecco la lettera inedita

« Ho ventuno anni e sono nato a Napoli, abito al Vomero. Ho fatto il liceo classico e studio Economia e Commercio» ma «sono un appassionato di cinema» e «l’anno scorso ho frequentato un corso di sceneggiatura». Schietto ed essenziale.

Così, con poche righe di presentazione, inizia la lettera che uno sconosciuto Paolo Sorrentino spedì all’inizio degli anni Novanta a un attore, regista e concittadino ben più noto, e certamente amato, cui sentì di poter confidare delusioni – «ho lavorato in qualità di “assistente alla regia” sul set del film “Ladri di futuro” di Enzo Decaro.

Ero andato a Roma con molto entusiasmo, ma poi sono rimasto abbastanza sconcertato per il clima di freddezza e di non-umanità che c’era sul set» – ma soprattutto speranze: «Mi piacerebbe, però, ritentare», «le chiedo di poter lavorare nel suo prossimo film” e “mi auguro di poter fare cinema piuttosto che lavorare in qualsiasi altro campo con la mia futura laurea in Economia e Commercio”.
Lettera inedita
Quell’attore era Massimo Troisi. E questa lettera è, senza dubbio, uno dei documenti più sorprendenti tra i molti esposti fino al 30 giugno a Roma, al Teatro dei Dioscuri al Quirinale, nell’ambito della mostra “Troisi poeta Massimo” a cura di Nevio De Pascalis e Marco Dionisi con la supervisione di Stefano Veneruso, promossa e organizzata da Istituto Luce-Cinecittà con 30 Miles Film in

collaborazione con Archivio Enrico Appetito, Rai Teche, Cinecittà si Mostra. Una lettera finora rimasta inedita, recuperata dall’archivio personale di Troisi e già rimbalzata sui social, che svela alcuni insospettabili caratteri di Sorrentino.

Come la “riservatezza e la mia timidezza” che lo spinsero a tornare a Napoli dopo l’esperienza romana. Amara come il ritratto che della Capitale confezionò vent’anni dopo ne “La grande bellezza”, portandosi a casa un Oscar e –

verrebbe da pensare – anche una piccola rivincita. Non è chiaro se la missiva abbia mai ricevuto risposta. Quel che è certo è che i due non lavorarono mai insieme. Forse non ce ne fu neanche il tempo: Troisi sarebbe morto appena un paio di anni dopo.
La mostra
La mostra lo racconta con un percorso multimediale in oltre 80 scatti privati e immagini d’archivio, locandine, documenti e carteggi privati, installazioni audiovisive e testimonianze di colleghi e amici del genio napoletano raccolte per l’occasione: Anna Pavignano, Gianni Minà, Carlo Verdone, Massimo Bonetti, Gaetano Daniele, Renato Scarpa, Massimo Wertmüller, Marco Risi, Enzo Decaro. Seguendo il filo conduttore della poesia.

“Massimo è stato un poeta senza definirsi tale, ha scritto poesie già in tenera età per ritagliarsi spazi d’intimità negati da una famiglia numerosissima – hanno commentato i curatori - e ha chiuso il cerchio con“Il Postino”, film in cui la poesia non è solo testo, ma anche e soprattutto un modo di vivere, di vivere poeticamente”. In cinque sale si snoda, con sequenza cronologica, il percorso umano e artistico di Troisi.

Dall’infanzia a San Giorgio a Cremano fino alla folgorante ascesa teatrale, dal trio La Smorfia con Lello Arena e Decaro alla fama in tv e infine il cinema, con l’ultimo spazio dell’esposizione dedicato alla proiezione di filmati inediti girati nel backstage de “Il postino”: il film premio Oscar a cui Sorrentino in quella lettera, senza saperlo, chiedeva di lavorare.

Vicenza, l’imam-facchino: non sposto alcolici. Il giudice: è giusto averlo licenziato

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di Andrea Priant

Il tunisino: «Davo l’esempio ai fedeli». Ma il tribunale non gli crede

La storia di un imam facchino a Vicenza (archivio)
La storia di un imam facchino a Vicenza (archivio)
L’imam e il tribunale
Da un lato c’è l’imam, che si dice discriminato perché islamico, dall’altro le prove raccolte dal tribunale che danno adito a ben altri sospetti: si sarebbe fatto scudo dei precetti religiosi solo per ottenere qualche piccolo vantaggio personale. Andiamo con ordine. L’imam era socio di una cooperativa, la Vicentina Leone Scarl, per la quale faceva il facchino in un magazzino che rifornisce i supermercati.

Nel maggio del 2014 si rifiutò di svolgere la mansione che gli era stata assegnata e per due giorni si presentò al lavoro in orario diverso rispetto al turno che doveva coprire. La coop, quindi, aprì un procedimento disciplinare che culminò con il licenziamento. A quel punto, Braham fece ricorso chiedendo al giudice di riconoscere «la natura ritorsiva della sua esclusione», che gli venisse restituito il posto e che gli fosse concesso un risarcimento. Il tutto anche in virtù «del carattere discriminatorio del licenziamento». Nel 2017 il tribunale di Vicenza gli ha dato torto, e lo stesso fa ora la Corte d’appello.
La motivazione
L’imam ha sostenuto di essersi presentato in magazzino in un diverso orario solo per evitare di svolgere la mansione che gli era stata richiesta: spostare alcuni scatoloni che contenevano liquori. Inizialmente si era giustificato sostenendo che i carichi fossero troppo pesanti. Poi, però, nel ricorso al giudice, ha aggiustato il tiro: «Afferma di essersi rifiutato soprattutto per ragioni di carattere religioso, da sempre note al datore di lavoro, e di essersi opposto alla sola movimentazione di alcolici» proprio perché «chiarisce di essere un imam» e di dover dare il buon esempio ai fedeli. Insomma, è convinto di aver perso il posto «in ragione del comportamento reso necessario dalla sua confessione»

E che quelle fossero «mansioni a lui non richiedibili per motivi religiosi». Già il tribunale di Vicenza, però, aveva escluso il carattere discriminatorio del licenziamento. E l’ha fatto mettendo in evidenza alcune apparenti contraddizioni nella versione del tunisino: «L’istruttoria ha messo in luce come, negli oltre dieci anni di rapporto di lavoro, non avesse mai posto questioni riguardanti la movimentazione di alcolici né quando operava nel reparto “fresco” di carne di maiale». Ecco il punto: se temeva di commettere «peccato» nel toccare i liquori, perché non si era mai sottratto a spostare salami e prosciutti ricavati da un animale considerato impuro?
Le prove raccolte
Non solo: è emerso come «gli altri lavoratori musulmani dipendenti della cooperativa venissero adibiti alla movimentazione di alcolici senza rifiutarsi di svolgere tale attività», oltre al fatto – evidenzia dal giudice – che «non si comprende come il mutamento di orario gli avrebbe consentito di non movimentare liquori». Ma allora, perché montare il caso? Le circostanze «inducono a ritenere che abbia preso il fatto degli alcolici a pretesto per richiedere un mero cambio di orario di lavoro». La Corte d’appello conferma la decisione.

L’imam non è riuscito a «dimostrare, quanto meno attraverso presunzioni rilevanti, la naturadiscriminatoria del licenziamento», e comunque aveva sottoscritto un contratto e quindi «doveva sottostare all’obbligo di presentarsi regolarmente all’ora e nel luogo indicati per svolgere i compiti affidatigli, potendo solo in tal caso opporre un rifiuto a svolgere una attività per ragioni religiose». La sua condotta «costituisce grave insubordinazione (…) in palese spregio delle direttive aziendali e come vero e proprio atto di sfida». Quanto basta per confermare il licenziamento, dando quindi ragione alla coop (difesa dall’avvocato Francesco Fontana), e condannare l’imam vicentino a ripagare 6mila euro di spese.

Arabia Saudita, 37 persone giustiziate a morte per terrorismo. Una è stata crocifissa

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ap

L’Arabia Saudita ha giustiziato 37 cittadini sauditi condannati per terrorismo. Lo riferisce il ministero dell’Interno di Riad. Le pene capitali sono state decise dai tribunali di Mecca, Medina, della provincia centrale di Qassim e della Provincia Orientale, base della minoranza sciita del Paese.

I giustiziati sono stati giudicati colpevoli di aver «adottato un pensiero estremisti», di aver «appoggiato il terrorismo e formato cellule per colpire e destabilizzare il Paese». Secondo quanto scrive l’Agenzia stampa saudita (Spa) una persona è stata crocifissa dopo la sua esecuzione, una punizione riservata a reati particolarmente gravi.

Da inizio anno sono almeno cento le persone giustiziate nel Regno saudita, secondo un conteggio basato sui dati ufficiali rilasciati dalla Spa. L’anno scorso, secondo i numeri di Amnesty International, lo Stato del Golfo ha condannato a morte 149 persone, risultando secondo dopo l’Iran. Sono puniti con la pena capitale i condannati per terrorismo, omicidio, stupro, rapina a mano armata e traffico di droga.

Nonna Erminia ha compiuto 111 anni: abita a Ricca di Diano d’Alba la piemontese più longeva (8ª in Italia)

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MANUELA ARAMI

Traguardo record dopo una vita nei luoghi della Malora di Fenoglio a Rocchetta e Cossano Belbo. La ricetta per mantenersi in buona salute: “Un uovo alla coque e camomilla nel guscio tutti i giorni, un cioccolatino ogni tanto. E, soprattutto, non prendere medicine”


Erminia Bianchini Defilippi con la figlia Ninfa

Nel 1908 si forma il primo gruppo scout, nasce la squadra dell’Inter, l’ingegner Camillo Olivetti fonda a Ivrea la prima fabbrica di macchine da scrivere e un terremoto raggiunge il 10º grado della scala Mercalli, distruggendo Messina. Il 23 aprile dello stesso anno, a Bra, nasce Erminia Bianchini Defilippi.

Viene cresciuta come «venturina» a Rocchetta Belbo: in quel periodo tante sono le famiglie, specialmente le più povere, a prendere in affidamento dall’ospedale un trovatello in cambio di soldi. Da allora lavora sodo in campagna applicando la filosofia: «Aiutare tutti e fare del bene, senza mai pensare al male».

Sempre con questa convinzione, ieri Erminia ha compiuto 111 anni, riconfermandosi la persona più longeva del Piemonte, l’ottava in Italia secondo le ricerche dell’organismo internazionale «Gerontology Research Group».

La ricetta per mantenersi in buona salute, nonostante la sordità e la vista che la fa tribolare, è mangiare un uovo alla coque con un po’ di sale e camomilla nel guscio tutti i giorni, un cioccolatino ogni tanto e, soprattutto non prendere medicine. Ha vissuto nei luoghi della malora fenogliana, Erminia, senza mai risparmiarsi.

Prima a Rocchetta Belbo allevando i fratellastri, poi in località San Pietro di Cossano Belbo dove, con il marito Luigi Fazio, morto a 95 anni, ha mandato avanti una cascina e cresciuto quattro figli, dai quali sono nati otto nipoti e sette pronipoti.

Ora vive con la figlia Ninfa a Ricca di Diano d’Alba. Tenendo sempre al suo fianco il bastone che apparteneva al marito, ama raccontare tanti aneddoti. «La mia sorellastra – ricorda - ha avuto una figlia e pochi giorni dopo è morta: l’ho allevata io, prima ancora di sposarmi.

E la volta che feci strada nella neve a mio fratello usciti dalla sala da ballo? Rischiai l’assideramento». Si commuove quando parla del padre che le compra il vestito da sposa e prosegue: «Quando ho avuto il secondo figlio, era tempo di mietere il grano: ho lavorato fino a mezzanotte e partorito alle 2.

A Rocchetta, una famiglia si ammalò di tifo. Nessuno, per la paura del contagio, osava avvicinarsi. Io fui l’unica, in tutto il paese, che si offrì di portare loro del cibo per farli sopravvivere». Durante la guerra, addirittura, il coraggio di Erminia consentì a un ragazzo di salvarsi la vita:

«I tedeschi mi chiesero se avessi visto un certo giovane, lo stesso che la notte prima io e mio marito ospitammo nel fienile. Li depistai: dissi loro che era andato verso San Donato e così riuscì a scappare».

Nessuno, neanche un Mussolini andrebbe giudicato per il cognome

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risponde Aldo Cazzullo


Caro Aldo,
la destra e il centrodestra non riescono a prendere le distanze dal fascismo: è sufficiente portare il cognome Mussolini, per trovarsi candidati alle elezioni. Quel cognome non crea imbarazzo usarlo come vessillo per raccogliere voti.
 
Il centrodestra e la destra sono ancora convinti che la somma algebrica tra le poche cose buone realizzate in quel periodo storico e le molte di segno negativo abbia come risultato un valore positivo. Finché il centrodestra non rifarà i conti, resterà suddito di un passato oscuro e continuerà a dimostrare di essere a corto di persone di valore che prescindano dal cognome che portano.
Paolo Novaresio


Caro Paolo,
Ho conosciuto Caio Mussolini, prima attraverso le lettere che ha scritto al Corriere in questi anni, poi di persona. È un uomo intelligente, colto, preparato. Un manager di successo che si è formato all’estero ma ama sinceramente l’Italia, che ha anche servito come militare. Se sarà eletto al Parlamento europeo, come gli auguro, farà di sicuro bene.

Questo non mi impedisce di dissentire da lui, e di considerare oggettivamente sbagliate alcune sue affermazioni: ad esempio quando sostiene che in Etiopia il fascismo integrò la popolazione locale, mentre in realtà impose una rigida apartheid, che arrivò all’ostracismo verso la canzone, Faccetta nera, «colpevole» sia pure in modo propagandistico e con termini che oggi farebbero sorridere di accennare all’inclusione del popolo

conquistato; senza dimenticare, inoltre, il massacro dei monaci di Debre Libanos e la repressione sanguinosa seguita all’attentato a Graziani. Tutte cose di cui ovviamente Caio Mussolini non porta alcuna responsabilità.

Un cognome, anche quello di un dittatore, non dovrebbe mai essere giudicato per se stesso, né in senso positivo né in senso negativo. Resta il fatto che, se Caio non si fosse chiamato Mussolini, difficilmente la Meloni l’avrebbe candidato. E se il cognome di un dittatore rappresenta un atout, insomma un vantaggio, forse qualcosa non va.

Poveri con il lavoro: il call center dei laureati con 110 e lode (che lavorano per 600 euro al mese)

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di Antonio Crispino

Le storie degli «iperqualificati» di Almaviva Contact a Palermo

Eliana è una delle fortunate. A fine mese riesce a portare a casa quasi 900 euro per sei ore lavorative spalmate su cinque giorni alla settimana. La fortuna, però, non le deriva dal tipo di contratto che è riuscita a strappare all’azienda (un part time a sei ore) ma dal lavoro del marito Paolo, comandante di navi mercantili.

«Guadagna bene anche se non lo vedo per mesi interi perché è sempre in navigazione». Eliana ha dimenticato da tempo la sua laurea in Giurisprudenza (non è nemmeno andata all’Università a ritirare il diploma) e una tesi sui paradisi fiscali che paventava ben altri impieghi. Il titolo era impegnativo:

«La doppia imposizione internazionale». Per dieci anni Eliana ha fatto l’avvocato sulla scia dei suoi 30 e lode in Diritto Penale e Diritto Amministrativo, cercando di barcamenarsi tra i 23mila legali siculi (la Sicilia è la quarta regione per numero di avvocati in Italia):

«Indipendentemente da quello che guadagnavo avevo circa quattromila euro di spese per la Cassa Forense, non ce la facevo». Nel 2001 vede un annuncio della Wind in cerca di operatori telefonici. «Con me c’era il meglio della gioventù palermitana, tutti laureati, con lode.

E davanti a un bivio: lavorare in un call center o andare via da Palermo. Scelta difficile per chi come me nel frattempo aveva creato una famiglia». Oggi Eliana fa anche la rappresentante sindacale, conosce bene la situazione dei suoi colleghi, compresi quelli che vivono solo di quello stipendio.

«Ad Almaviva Contact c’è il ”lavoro povero”, persone che vivono alle soglie della povertà pur lavorando. Il dramma è che l’azienda attualmente occupa 2670 persone solo a Palermo (in tutta la Sicilia ne sono circa 15mila) che fuori da lì non avrebbero alcuna prospettiva».

Hanno una preparazione medio-alta, con almeno un diploma, mentre il 20% è classificato come «iperqualificato», ossia con una preparazione superiore a quella necessaria. La maggior parte (1750) sono donne. I turni di servizio dipendono dalle ore previste dal contratto, le turnazioni iniziano alle 7,00 e finiscono alle 23,00.

A farci una panoramica della situazione troviamo Michelangelo, è il team leader dell’azienda, quello a cui si rivolgono gli operatori quando hanno un problema, la cerniera di collegamento tra lavoratori e azienda.

E’ laureato in Geologia. «All’inizio, dopo l« laurea, credevo di avere buone prospettive, ero pur sempre nel paese con un importante dissesto idrogeologico. Aprii la partita iva e uno studio a Palermo ma presto mi resi conto che alla nostra classe politica del dissesto idrogeologico non importa proprio nulla.

Davanti a una frana trovavo gente che risolveva il problema costruendo varianti invece che intervenire sul versante pericolante. Considerano il lavoro del geologo un costo da tagliare. Ecco perché a un certo punto ho dovuto guardarmi attorno.

Ho colleghi che si sono trasferiti in Brasile e negli Emirati Arabi pur di fare il lavoro per il quale avevano studiato. Per me, a 49 anni, le offerte di lavoro erano scarsissime, non avevo molte altre opportunità». Ci indica i laureati in Giurisprudenza, Psicologia, Architettura, Ingegneria, Economia seduti qua e là tra i banchi del call center.

A leggere i curriculum sembrerebbe di stare nella sede di un ministero. Invece li senti parlare di tariffe, ricariche, rimborsi, sms e codici promozionali. Chiara prima di entrare ad Almaviva Contact lavorava per le case famiglia del Comune di Palermo.

Ma a fine mese si trovava il conto corrente a secco a causa dei ritardi nei pagamenti del Comune. «A volte anche dopo un anno. Avendo quattro figli non potevo permettermi di aspettare così a lungo. Ho dovuto rinunciare al mio lavoro e optare per chi mi garantiva il diritto a una retribuzione mensile, le ferie e la maternità». Nella tasca di Chiara c’era già un biglietto di sola andata per Bologna.

«Lì avevo mia cugina e più proposte di lavoro compatibili con la mia laurea. Ricevetti la telefonata di Almaviva Contact il giorno prima del mio trasferimento al Nord».Le sono bastati 800 euro garantiti in busta paga per restare al Sud. L’età media dei dipendenti è di 42 anni ma hanno già molti anni di contribuzione alle spalle.
 
Maria ha iniziato a diciott’anni ed è al diciottesimo anno da operatrice telefonica. «E’ iniziato come un gioco. Poi sul mio stipendio abbiamo costruito una famiglia ed è diventato indispensabile», racconta sorridente. Il rendimento di ogni operatore telefonico viene conteggiato su un tabellone al centro dell’open space dove vengono aggiornati costantemente «Tempo di servizio, Inefficienza, Giudizio complessivo, Cortesia e Professionalità».

Quello di Marta, seduta accanto a una finestra che affaccia sul quartiere bene di Palermo, è un livello di efficienza molto alto. Riesce a rispondere anche a cento chiamate in quattro ore, sempre con grande cortesia e mantenendo la calma anche di fronte all’insistenza di una moglie sospettosa che pretende di conoscere il traffico telefonico del marito.

Marta mette a frutto la sua esperienza precedente nella Croce Rossa quando i suoi «clienti» erano tossicodipendenti e vittime della tratta della prostituzione. E’ laureata in Psicologia clinica con 110 e lode. Il suo stipendio è di seicento euro mensili, quando va bene arriva a 650.

Ci spiega che è l’unico introito familiare da quando il ministero delle Pari Opportunità ha deciso di non rinnovare il contratto con la Croce Rossa e lei si è trovata disoccupata. «Mia madre pianse quando seppe che firmai per Almaviva Contact, non certo per l’azienda, ma perché sapeva che in cambio di questo mezzo pezzo di pane non avrei più cercato il mio lavoro, e così è stato. Ho avuto l’umiltà di ricominciare dal basso pur di lavorare, tra dieci anni spero di non stare ancora in cuffia».

In questo momento Almaviva Contact è un’azienda in difficoltà, i lavoratori sono in ammortizzatore sociale. Le aspettative di Marta le stronca Eliana che da alcuni anni segue le politiche aziendali per la Cisl. «Le prospettive di carriera sono dello 0,00 qualcosa. Non ci sono possibilità nemmeno di un aumento delle ore, figuriamoci passaggi di ruolo.

L’azienda sta operando una riduzione dei costi e non ha interesse a far crescere le figure professionali. Senza contare che anche quando vince un appalto non ci sono volumi garantiti, è come se vincesse una scatola vuota e quel vuoto per noi si traduce in ulteriore senso di precarietà».

Slot, lotto, gratta e vinci: gli italiani giocano tanto. E perdono sempre

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Domenico Affinito

Il gioco d’azzardo fa male, ma il primo ad alimentarlo è lo Stato. Negli anni si sono moltiplicati: Lotto, Supernalotto, slot, gratta e vinci, giochi on line. Ma, alla fine, chi ci guadagna?
L’azzardo non tramonta mai
Agli italiani piace scommettere. Nel 2017 ci siamo giocati 101,8 miliardi, ma se contiamo che, secondo il Cnr, i giocatori in Italia sono 17 milioni, ognuno di loro ha speso 5988 euro. Il gioco d’azzardo non ha risentito della crisi: oggi si gioca il 20% in più rispetto agli 84,3 miliardi del 2014. Se si torna indietro di dieci anni la crescita è del 241,5%, e si torna al 1993, quando si giocò in un anno l’equivalente di 8,79 miliardi di euro, la crescita è del 1.158%!

crescita
Tutto inizia nel 1993
Fino agli inizi degli anni ‘90 c’erano solo Totocalcio, Lotto, Totip e lotterie nazionali. Per chi voleva quale emozione in più c’erano i casinò: quattro in tutta Italia (Campione d’Italia, Sanremo, Saint-Vincent e Venezia) e bisognava andarci pure in giacca e cravatta.Tutto cambia fra il 1993 e il 1994. I governi, Amato prima e Ciampi dopo, sono alla ricerca di nuove entrate per garantire la spesa pubblica. Viene modificato il modello di regolamentazione del gioco pubblico d’azzardo, che diventa uno strumento per incrementare le entrate erariali dello Stato.

Nascono le lotterie istantanee: la prima è del 21 febbraio 1994. Da lì in poi nessun esecutivo tornerà indietro: l’estrazione del Lotto diventa bisettimanale (governo Prodi 1997) e poi trisettimanale (Berlusconi 2005). Il primo governo Prodi autorizza l’apertura delle sale scommesse, il secondo l’azzardo on line. Berlusconi introduce le slot machine nei bar, il gratta e vinci, le videolottery, 1000 sale poker, 7000 punti scommesse ippiche, nuovi giochi numerici, tutti accompagnati da pesanti campagne pubblicitarie.

Nel 2011 era pronto il decreto anche sui «giochi di sorte», reclamizzati così: «Quando vai a fare la spesa al supermarket, non ritirare il resto, giocatelo». Non entrò in vigore perché Monti lo bloccò. Sta di fatto che i luoghi dove giocare e vincere si moltiplicano e internet ce li porta dentro casa con i casinò on line e i siti di scommesse.

rete
A chi vanno i soldi
Dei 101,8 miliardi del 2017 circa l’80%, va in vincite (82,9 miliardi), il resto allo Stato e ai concessionari: rispettivamente 10,3 e 8,6 miliardi di euro. I concessionari sono soggetti privati che hanno vinto un bando di gara. Le tipologie di gioco sono di due categorie. Lotto, Enalotto e lotterie sono affidati a un unico concessionario, gli altri giochi a più concessionari: 225 per le scommesse sportive e ippiche, 89 per i giochi on line, 11 per i gratta e vinci, 202 per slot e bingo.

giocate

La parte del leone la fanno i monoconcessionari. La Sisal, che gestisce la famiglia dei giochi numerici tipo Superenalotto, ha incassato solo da questi 185 milioni, a fronte di 1,5 miliardi spesi dagli italiani. Il suo fatturato globale nel 2017, compresi scommesse, bingo e casinò online, è di 647,2 milioni di euro che arrivano a 832 con altri ricavi: oltre 27 milioni gli utili distribuiti e 1872 i dipendenti.

Sisal è controllata da fine 2016 al 100% da CVC Capital Partners, società finanziaria britannica specializzata in private equity in settori come i beni di consumo, i giochi, i servizi finanziari, le telecomunicazioni e la farmaceutica.

E poi c’è Lottomatica che ha quasi il 40% del mercato del gioco in Italia. La società fondata nel 1990 da Olivetti, Alenia, Bnl, Sogei, Federazione italiana tabaccai e Cni, dal 2002 è controllata da De Agostini spa (con il 52,1%).

L’ultimo dato disponibile sul fatturato è del 2016: oltre un miliardo dai gratta e vinci (su 9 di spesa totale) e 1,1 mld dal Lotto (su un totale di 7,5). Sommando gli altri giochi si arriva a 1,7 miliardi di euro di fatturato. Nel rapporto Lottomatica scrive che le «attività aziendali» sono «rimaste sostanzialmente invariate nel 2017». Un po’ pochini i dipendenti: solo 1753.

concessionarie
Un meccanismo perverso
Il sistema funziona solo se riesce a garantire un continuo rinforzo della dipendenza da gioco con la ripetitività: tanti gratta e vinci acquistati uno via l’altro, centinaia di monete reimmesse nella slot-machine, molte ore da trascorrere davanti a un terminale, getto continuo di microscommesse sugli eventi sportivi. Se il ritmo diminuisse, infatti, si giocherebbero meno somme con un effetto domino sulle entrate dell’Erario e sui volumi introitati dalla filiera.

Per questo negli anni si è deciso di aumentare il numero delle microvincite e contemporaneamente, per garantire un flusso costante a Erario e a concessionari, si è continuato a espandere il mercato con nuovi giochi. Tutto questo comporta un gioco al rialzo della stessa filiera: più debiti (per anticipazioni, fidejussioni, strumentazione e sedi) e, di conseguenza, maggiore esposizione con le banche e utilizzo di prodotti finanziari come bond o derivati.
L’azzardopatia, un buco nero per lo Stato
Negli ultimi anni lo Stato ha incassato dagli 8 ai 10 miliardi di euro in tasse dai giochi. Ma quanto spende per i danni da gioco patologico? L’azzardopatia, secondo il Coordinamento nazionale gruppo per giocatori d’azzardo Conagga, costa dai 5,5 ai 6,6 miliardi di euro.

Le cifre derivano da un calcolo dei costi sanitari diretti, stimati in 85 milioni di euro, e di quelli «indiretti (perdita di performance lavorativa del 28% rispetto ai non giocatori, perdita di reddito)», che variano «dai 4, 2 ai 4, 6 miliardi di euro». Poi ci sono i «costi per la qualità della vita» (tra cui problemi che ricadono sui familiari e rischio di aumento di depressione), stimati «tra i 1,4 e 1,8 miliardi di euro».

A questi si aggiungono i costi non facilmente stimabili legati al peggioramento delle condizioni delle persone più fragili e povere e all’incremento delle separazioni e dei divorzi. Pesano poi i costi legati alla criminalità, alle truffe allo Stato, alla crescita del ricorso all’usura. La stima arriva a 14 miliardi di euro all’anno, secondo il consulente della Consulta Nazionale Antiusura Maurizio Fiasco. Alla fine, il saldo per lo Stato è negativo.

stato
Il gioco, un investimento al negativo
Al fianco di jackpot milionari, i giochi garantiscono piccole e frequenti vincite a una maggioranza di giocatori. Vincite illusorie perché a conti fatti il saldo è passivo, ma che hanno l’effetto di garantire il ritorno della persona al consumo di gioco, con quantità crescenti di tempo e denaro versato.

possibilita

L’altro meccanismo che alimenta il gioco d’azzardo patologico, è la percezione di poter vincere grazie alle proprie abilità: ne è convinto, secondo il Rapporto Consumi d’azzardo 2017 del Cnr, il 39,1% degli intervistati.
giocatori
Regioni e Comuni i primi a scendere in campo
Gran parte delle attuali concessioni arriveranno a scadenza nel 2022. E allora si faranno nuove gare. Con che regole? La prima novità è stata introdotta dal cosiddetto Decreto Dignità che ha vietato la pubblicità di giochi o scommesse con vincite di denaro su qualunque mezzo, di diffusione di massa, internet compreso. Dal 1 gennaio 2019 il divieto vale anche per le sponsorizzazioni di eventi, prodotti e tutte le altre forme di comunicazione di contenuto promozionale. Poi è arrivata la Legge di Bilancio che ha diminuito gli introiti per i concessionari. Bene, ma la piaga sociale legata al gioco patologico, richiede prima di tutto un ruolo più attivo da parte delle istituzioni. Ci hanno provato alcuni governatori e alcuni sindaci.

In Abruzzo, Liguria, Alto Adige, Piemonte e Calabria la distanza minima dai «luoghi sensibili» (scuole, strutture sociosanitarie, centri di aggregazione giovanile, centri anziani) è di 300 metri, che diventano 500 in Piemonte, Lombardia, Marche, Umbria, Lazio, Emilia Romagna e Friuli. In Trentino, Friuli, Marche e Piemonte la legge regionale autorizza i Comuni a vietare l’installazione di slot machine in alcune aree circoscritte per motivi di sicurezza urbana, viabilità e inquinamento acustico. La legge regionale in Valle d’Aosta e Marche attribuisce ai Comuni anche il potere di dettare limitazioni all’orario di apertura.

A Genova, Ravenna, Roma, Spresiano sono intervenuti i sindaci: quello di Bergamo, Giorgio Gori, è stato il primo a chiudere le sale slot in città. Alcuni Comuni si sono consorziati fra loro per adottare la stessa normativa: è successo nel Miranese, in provincia di Venezia (Scorzè, Martellago e Spinea), in provincia di Biella (Mosso, Soprana, Trivero e Valle Mosso) e nell’area metropolitana occidentale di Torino (Pianezza, Collegno, Grugliasco, Venaria Reale, Druento, Sangano, Alpignano, Rosta). Manca ancora, invece, una vera strategia nazionale di prevenzione che riduca il fenomeno, e di contrasto della criminalità organizzata.
«Governare» non «proibire»
«Il proibizionismo nel gioco, così come in altri settori – ha dichiarato il presidente di Lottomatica Fabio Cairoli – ha come unico effetto diretto il rifiorire del settore in terreni occulti e spesso illegali». Un rapporto del 2014 prodotto dal sociologo Maurizio Fiasco, esperto della Consulta Nazionale Antiusura, dimostra come i due mercati (legale e illegale) non si separano e non entrano in concorrenza, ma si potenziano reciprocamente. In sostanza quando si espande l’uno, si espande pure l’altro. Certo è che proibire non risolve, ma autorizzare il proliferare di sale gioco nei quartieri più poveri e nelle periferie più disgraziate, non aiuta a governare il fenomeno.

Natale di Roma, lo scivolone social di Raggi: “ruba” la foto e non cita l’autore

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LETIZIA TORTELLO

Il post su Instagram e Facebook il giorno di Pasqua per i 2772 anni della Capitale: “Buon compleanno alla Città eterna!”. L’indignazione pubblica del fotografo di Hong Kong


La foto postata il 21 aprile sul profilo Instagram della sindaca di Roma, Virginia Raggi, per il Natale della Capitale

«Sono il fotografo che ha scattato quella foto. Potrebbe per cortesia aggiungere i crediti, o rimuovere lo scatto? Grazie». A Samuel Chan, fotografo freelance basato ad Hong Kong e influencer con 23 mila follower su Instagram, il post di Virginia Raggi per festeggiare i 2772 anni della nascita di Roma non è andato giù.

La sindaca della Capitale, nel giorno di Pasqua, ha pubblicato una veduta aerea della città, augurandole buon compleanno. Peccato che la foto fosse di proprietà di Samuel Chan, scattata a inizio gennaio durante un tour italiano, e peccato che la prima cittadina l’abbia rilanciata senza mai citare i crediti.

Questo su Instagram. Ma la stessa cosa è accaduta su Facebook: hashtag #NatalediRoma, del nome del papà della foto neanche l’ombra. Samuel Chan, una delle giovani promesse della fotografia mondiale che ha lavorato anche per Sony, si è fatto sentire, lamentandosi pubblicamente su Instagram.

Il suo messaggio non è passato inosservato: decine i commenti stizziti di chi fa notare come la sindaca di Roma o i collaboratori abbiano bellamente ignorato la legge sul diritto d’autore. Ci sono come sempre anche i partigiani senza se e senza ma, che difendono Raggi.

Sta di fatto che la gaffe social non ha spinto nessuno dell’entourage della sindaca a modificare i post. Come se niente fosse, e come se le leggi sul copyright non esistessero, la bellissima veduta di Roma dall’alto, ripresa col drone, non hanno ancora un autore.

In Italia le reliquie di Bernadette, la Santa di Lourdes: il pellegrinaggio parte da Alessandria

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MAURO FACCIOLO

L’urna attesa domani mattina, mercoledì, a Orio al Serio: previste soste in 34 diocesi, fino al 22 agosto


L’urna con le reliquie (foto Santuario di Lourdes)

Il 2019 non è solo l’anno del Campionissimo del ciclismo, Fausto Coppi, a cui in Italia e in provincia vengono dedicati eventi e iniziative. Quest’anno, infatti, si celebrano il 175° della nascita e il 140° della morte di un altro personaggio di primo piano, altrettanto conosciuto in tutto il mondo. Non nel mondo sportivo ma in quello della fede. È Santa Bernadette Soubirous. Alla quale, l’11 febbraio 1858, a Lourdes, apparve per la prima volta la Madonna. Bernadette aveva 14 anni. Le apparizioni, in tutto 18, proseguirono fino a venerdì 16 luglio 1858.

Bernadette fu profondamente segnata da quell’esperienza.
Non senza sofferenze. Diventò suora e si ritirò in convento: morì a Nevers, a 35 anni. Beatificata nel 1925 e canonizzata l’8 dicembre 1933 nel da Papa Pio XI, la figura di Bernadette è indissolubilmente legata a Lourdes e la Santa è venerata in tutto il mondo.

Il santuario francese ha dedicato il 2019 in particolare a Bernadette e ha deciso di renderle onore portando in pellegrinaggio alcune sue reliquie. Domani, mercoledì, l’urna comincerà il viaggio in Italia (dove era già stata portata nel 2017). La prima tappa sarà proprio Alessandria. Toccherà poi altre 33 diocesi prima di tornare «a casa», a fine agosto, a Lourdes.

L’urna con le reliquie (una costola della Santa) è attesa all’aeroporto di Orio al Serio alle 11,15. Sarà poi accompagnata dal cappellano italiano di Lourdes, padre Nicola Ventriglia, fino ad Alessandria. Da giovedì 25 aprile le reliquie saranno solennemente accolte nella chiesa santuario delle suore Immacolatine, in via Tortona, dove è riprodotta la grotta di Massabielle (la località di Lourdes lungo il fiume Gave dove avvennero le apparizioni).

Qui resteranno fino al 30, per la venerazione dei fedeli. Poi il trasferimento a Modena. Le uniche altre tappe in Piemonte saranno a Vercelli (8-11 maggio), Torino (24-27 luglio) e Asti (27-30). Ad Alessandria, il santuario delle Immacolatine sarà aperto tutti i giorni dalle 7 alle 20. Nella giornata si susseguiranno recita delle Lodi, adorazione, Angelus, Rosario (alle 17) e messa (alle 18). Nella notte fra sabato e domenica mattina ci sarà una veglia.

Lunedì sera, il 29, ci sarà la processione «aux flambeaux», come a Lourdes, con il vescovo Guido Gallese dalla cattedrale fino al santuario di via Tortona.

Il calendario del pellegrinaggio diffuso dal Santuario di Lourdes

Diocesi di Alessandria – 25-30 aprile
Diocesi di Modena – Nonantola – 01-04 maggio
Diocesi di Massa Carrara – Pontremoli – 04-07 maggio
Diocesi di Vercelli – 08-11 maggio
Diocesi di Cesena – 11-14 maggio
Diocesi di Spoleto – Norcia – 15-18 maggio
Diocesi di san Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto – 18-21 maggio
Diocesi di Civita Castellana – 22-25 maggio
Diocesi di Montepulciano – Chiusi – Pienza – 25-28 maggio
Diocesi di Roma – Parrocchia S. Bernadette Soubirous – 29 maggio-01 giugno
Diocesi di Roma – Parrocchia N.S. di Lourdes (Tor Marancia) – 01-04 giugno
Diocesi di Frosinone – Veroli – Ferentino – 04-07 giugno
Diocesi di Caserta – 08 -11 giugno
Diocesi di Napoli – 11-14 giugno
Diocesi di Ariano Irpino – Lacedonia – 14-17 giugno
Diocesi di Foggia – Bovino – 17-20 giugno
Diocesi di Brindisi – Ostuni – 21-24 giugno
Diocesi di Crotone – Santa Severina – 25-28 giugno
Diocesi di Oppido Mamertina – Palmi – 28 giugno-01 luglio
Diocesi di Patti – 01-04 luglio
Diocesi di Palermo – 04-07 luglio
Diocesi di Trapani – 07-10 luglio
Diocesi di Tempio – Ampurias – 11-14 luglio
Diocesi di Ozieri – 14-17 luglio
Diocesi di Cagliari – 17-20 luglio
Diocesi di Savona – 21-24 luglio
Diocesi di Torino – 24-27 luglio
Diocesi di Asti – 27-30 luglio
Diocesi di Pistoia – 30 luglio-02 agosto
Diocesi di Volterra – 02-05 agosto
Diocesi di Benevento – 06-09 agosto
Diocesi di Capua – 10-15 agosto
Diocesi di Aversa – 15- 18 agosto
Diocesi di Albano – 18 – 22 agosto
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