Quantcast
Channel: Diario per non dimenticare
Viewing all 15522 articles
Browse latest View live

Comuni senza soldi costretti a pagare per i migranti minorenni

$
0
0
ilgiornale.it

I comuni di Favara e di Agrigento avevano dichiarato di non aver più la copertura finanziaria per pagare le rette alle cooperative.

Queste ultime hanno così denunciato il fatto in tribunale tramite i loro legali, ed il giudice ha emesso un provvedimento che obbliga gli enti a sostenere le spese per i minori stranieri non accompagnati

L'accoglienza dei richiedenti asilo, specie se minorenni o presunti tali, deve andare avanti anche se i comuni dichiarano di non avere più denaro sufficiente per garantirla.

Esempio emblematico i due casi riguardanti le amministrazioni comunali di Agrigento e di Favara (Agrigento), costrette da un provvedimento del giudice a proseguire con il pagamento delle spese per i minori non accompagnati.

Stando a quanto riferito da "AgrigentoNotizie", che ha riportato i fatti, sono state le cooperative "GeaCoop", operante a Favara, "Maometto" e "La mano di Francesco", attive nel comune di Agrigento, a segnalare il caso in tribunale tramite i loro legali, Giuseppe Scozzari ed Angelo Sutera.

Tutte e tre le cooperative, infatti, hanno denunciato di non avere ricevuto i fondi necessari a coprire le speseper un anno di accoglienza.

Le amministrazioni comunali hanno spiegato loro dinon avere più la necessaria copertura finanziaria per continuare a sostenere i costi. A risolvere la questione la delibera del giudice Silvia Capitano, del tribunale agrigentino.

Nella sua sentenza, infatti, si legge che "l’obbligo di assistere i minori non accompagnati è sempre previsto dalla legge, indipendentemente dal fatto che l’ente pubblico abbia o meno previsto la relativa copertura finanziaria nella spesa di bilancio”.

Che i soldi ci siano o meno, i comuni di Favara e di Agrigento dovranno pagare. Nello specifico, il primo dovrà versare la somma di 57mila euro alla cooperativa "GeoCoop", ed il secondo 78mila alla coop "Maometto" e 124mila a "La mano di Francesco".

Il tutto per un tolale complessivo di ben 259mila euro.

Como, «non può essere il papà perché è diventato una donna»

$
0
0
corriere.it
di Anna Campaniello

Congela il seme e cambia sesso. Paternità negata. È scontro con il Comune lariano

Como, «non può essere il papà perché è diventato una donna»

Lei era lui, in una vita precedente nella quale non si riconosceva. Oggi è una moglie e una mamma. Ma chiede al Comune di Como, solo per l’anagrafe, di essere riconosciuta come il papà del suo bambino. Un figlio che cresce con due mamme, ma che ha un padre biologico che vorrebbe essere indicato come tale.

La richiesta è «irricevibile» per l’ufficiale dell’anagrafe di Palazzo Cernezzi, che nega la registrazione e ribadisce di non poter certificare la paternità di una donna. La coppia non si arrende e fa causa al Comune di Como.

La parola passa dunque ai giudici per un caso che, comunque vada, è destinato a fare scuola e va ad inserirsi in quel vuoto normativo che sempre più spesso in Italia costringe uomini e donne ad appellarsi ai tribunali per vicende che incrociano leggi ed etica, norme e sfera privata e familiare.

Il caso coinvolge due donne, residenti nel capoluogo comasco, che si sono sposate qualche tempo fa. Un’unione civile celebrata in Comune a Como. Una di loro era un uomo che ha scelto poi di cambiare sesso e ha completato il percorso fino al cambiamento totale di identità.

Prima di avviare quel percorso, l’allora uomo ha scelto di congelare il seme per un eventuale utilizzo futuro.

Dopo il matrimonio, la coppia decide di avere un figlio e la strada scelta è quella della fecondazione assistita facendo quindi ricorso al seme dell’uomo, che a tutti gli effetti è dunque il padre biologico del bimbo partorito dalla compagna.

Il caso si apre quando, dopo la nascita del piccolo, la coppia si presenta all’ufficio anagrafe del Comune di Como e una delle due mamme chiede di essere indicata come papà del bambino.

La donna spiega di essere a tutti gli effetti padre del piccolo e considera dunque un diritto il riconoscimento di quello che è un dato di fatto.È altrettanto netto però il rifiuto dell’ufficiale dell’anagrafe.

Per il funzionario, non è possibile in alcun modo, normative alla mano, indicare come padre una persona di sesso femminile. Il dirigente di Palazzo Cernezzi rifiuta la registrazione e non cambia opinione neppure davanti alla decisione della donna comasca di rivolgersi al Tribunale.

La coppia si oppone alla decisione del Comune e il delicatissimo scontro approderà il mese prossimo in un’aula del tribunale di Como. Qualunque sarà la decisione finale del giudice, il caso aprirà l’ennesimo fronte giuridico sul tema dei diritti delle coppie dello stesso sesso e dei loro figli.

Per il Comune di Como, che sulla vicenda preferisce non rilasciare dichiarazioni in attesa del giudizio del Tribunale, non c’erano assolutamente alternative alle vie legali perché non sussistono le condizioni per accogliere la richiesta della donna.

Per ottenere il riconoscimento di quello che è un dato di fatto dunque, ovvero la paternità biologica, la donna non ha altra scelta che appellarsi a un giudice che attesti il suo essere mamma e al contempo padre.

Gli Usa rivendicano un cyber attacco contro l’Iran

$
0
0
repubblica.it
Alice Mattei


AGF

Secondo una notizia riportata da Reuters gli Stati Uniti avrebbero compiuto un attacco informatico contro l’Iran per vendicare gli attacchi del 14 settembre alle strutture petrolifere dell’Arabia Saudita, (di cui Washington e Riyadh insieme a Gran Bretagna, Francia e Germania, ritengono colpevoli gli iraniani).

I funzionari Usa, che hanno parlato a condizione di anonimato, hanno affermato che l’operazione si è svolta a fine settembre e ha preso di mira la capacità di Teheran di diffondere la sua “propaganda”.

Uno dei funzionari ha affermato che l’attacco ha interessato i sistemi hardware, ma non ha fornito ulteriori dettagli.

Per ora, dunque, non è chiaro né quando né come si si svolto l’attacco, ma sembra chiaro che con questa azione l’amministrazione Trump abbia voluto punire (o attaccare l’Iran) senza arrivare a una completa e palese guerra.

Il Pentagono ha rifiutato di commentare a Reuters l’attacco informatico. “Per motivi politici e di sicurezza operativa, non discutiamo di operazioni, intelligence o pianificazione del cyberspazio”, ha affermato la portavoce del Pentagono Elissa Smith.

Le reti 5G in Europa a rischio attacchi di Stati esteri

$
0
0
lastampa.it

Le nuove sfide alla sicurezza delle reti di quinta generazione al centro del rapporto degli esperti Ue di cybersecurity



Le reti 5G in Europa potrebbero essere vulnerabili ad attacchi informatici, sostenuti da Stati stranieri.

A porre l'accento su questo problema, è un nuovo documento, frutto della collaborazione tra Commissione Ue e Agenzia europea per la cybersicurezza (Enisa), che mette in guardia sul rischio a cui i vari paesi membri possono andare

incontro consegnando la realizzazione di infrastrutture di telefonia mobile nelle mani di aziende legate a governi non democratici e poco affidabili.

Sembra implicito il riferimento a società straniere come Huawei, vero e proprio convitato di pietra della valutazione elaborata dagli esperti del gruppo di cooperazione Nis.

Le reti di quinta generazione (5G) - fattore di sviluppo globale che Abi Research prevede siano in grado di produrre ricavi a livello internazionale per un valore di 225 miliardi di euro entro il 2025 - sono destinate ad assumere un ruolo strategico per la crescita dell'economia e della società europea, sempre più digitalizzate.

Miliardi di oggetti (tablet, smartphone, telecamere, elettrodomestici) sistemi e ambienti (case e uffici intelligenti) saranno connessi attraverso questa moderna tecnologia che interesserà settori cruciali come l'energia, i trasporti, la finanza e la sanità, veicolando via network dati e informazioni sensibili.

Pertanto, sarà necessario assicurare resilienza e sicurezza delle reti 5G. In proposito, gli esperti del Nis sottolineano che l'aumento dei rischi è collegabile sia ad aspetti di innovazione tecnica, sia al ruolo esercitato dai fornitori, dei quali va considerato attentamente il profilo di rischio.

Più in particolare, l'introduzione del 5G implica una maggiore esposizione agli attacchi informatici da un lato, a causa di lacune nello sviluppo software o di apparecchiature e funzioni di rete più sensibili, dall'altro, in conseguenza della troppa dipendenza

da imprese fornitrici, il cui grado di affidabilità può essere compromesso dal legame con governi stranieri, dal quale subiscono interferenze e condizionamenti politici.

Non è difficile, in questa disamina, ravvisare l'identikit di una compagnia come Huawei. Che, esclusa dal mercato 5G degli Usa, sospettata di connivenza con lo spionaggio della Cina, cerca sollecitamente di blandire le autorità preposte alla cybersicurezza Ue per scongiurare lo stesso esito in Europa.

Libero il killer di Simonetta Lamberti, la sorella: «Una vergogna, mi dicano in faccia perché»

$
0
0
ilmattino.it



«È vergognoso. Devono spiegarmi perché questo camorrista assassino è tornato a casa dalla sua famiglia. È tornato libero. Devono dirmi in faccia perché. Io lo pretendo».

Con queste parole Simonetta Serena Lamberti commenta la notizia, appresa dai giornali, della scarcerazione di Antonio Pignataro, già condannato, tra l’altro, a trenta anni di carcere per l’omicidio della sorella Simonetta. La voce è rotta dalla commozione.

Un pianto misto a rabbia, la stessa che aveva provato quattro anni fa, quando Pignataro aveva ottenuto i domiciliari per poi finire di nuovo in carcere con l’accusa di associazione camorristica e scambio elettorale politico mafioso.

Nei mesi scorsi, il sessantaduenne ex esponente della Nuova camorra organizzata, ha presentato, per mano del suo avvocato Antonio Sarno, un’istanza di scarcerazione per tornare a casa e curare i due tumori da cui è affetto.

È così, dopo aver scontato diversi anni nel carcere di Opera a Milano, è stato rimesso in libertà e presto farà rientro nella sua abitazione di Nocera Inferiore con il divieto di uscire di casa dalle 22 alle 8 del mattino.

«È irreale spiega Simonetta Serena Lamberti - come nel 2015 quando, già condannato in primo grado e all’inizio dell’Appello, ottenne i domiciliari per gravi condizioni di salute. Condizioni di salute così gravi da consentirgli, anche per l’assenza di controlli, di organizzare un clan.

Solo grazie alle indagini dei Ros fu evitato un attentato». Dopo altri due anni, però, è arrivata la scarcerazione: «È accaduto l’inverosimile. È successo quello che nessuno poteva aspettarsi. Un essere che ha continuato a fare del male, a programmare crimini come le notizie di cronaca ci hanno raccontato, è tornato libero.

Libero di tornare a casa dalla sua famiglia. È stato sempre un camorrista anche quando era ai domiciliari, perchè non potrebbe fare la stessa cosa anche adesso? Dobbiamo aspettare che uccida ancora?».

Corte Costituzionale apre a permessi per ergastolani per mafia e camorra

corrieredelmezzogiorno.it

Purché ci siano elementi che escludono ancora collegamenti con la criminalità organizzata



La mancata collaborazione con la giustizia non impedisce i permessi premio purché ci siano elementi che escludono collegamenti con la criminalità organizzata. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale decidendo sulla questione dell’ergastolo ostativo.

La Corte ha in particolare dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche

se sono stati acquisiti elementi tali da escludere
sia’attualità della partecipazione all’associazionecriminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata.Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo.

Ora potrebbero chiedere permessi ergastolani come i casalesi Michele Zagaria e Francesco «Sandokan» Schiavone oppure Raffaele Cutolo. Oppure i boss di mafia Leoluca Bagarella e Giovanni Riina.

In questo caso, la Corte pronunciandosi nei limiti della richiesta dei giudici che hanno sollevato la questione ha quindi sottratto la concessione del solo permesso premio alla generale applicazione del meccanismo «ostativo» (secondo cui i condannati

per i reati previsti dall’articolo 4 bis che dopo la condanna non collaborano con la giustizia non possono accedere ai benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario per la generalità dei detenuti).

In virtù della pronuncia della Corte, la presunzione di «pericolosità sociale» del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza,

la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica.

(fonte Ansa)

Il Vaticano lancia eRosary. Anche la preghiera è diventata tecnologica

$
0
0
corriere.it
di Maria Rosa Pavia | @mariarosapavia

Arriva il rosario hi-tech con un wearable da portare come un braccialetto e si sgrana con l’aiuto di un’app in tre lingue. In vendita a 99 euro, ha pure la funzione contapassi!

Accessorio moderno per preghiera tradizionale

Sgranare il rosario manualmente potrebbe diventare una pratica obsoleta. La sala vaticana ha annunciato il lancio sul mercato di eRosary, un accessorio moderno pensato per l’antica pratica della preghiera. Ha un aspetto sobrio con grani di agata nera e perle di ematite e include una croce stilizzata.


Si connette con l’app

Con l'aiuto dell'app dedicata Clicktopray si può recitare il rosario con la guida di speciali contenuti audiovisivi. Il software è disponibile in italiano, inglese e spagnolo.


Funzione didattica

Ha lo scopo di insegnare il rosario anche a chi non lo conosce guidando nella ripetizione di Ave Maria e Padre Nostro e nell’alternarsi dei misteri della gioia, della luce, del dolore e della gloria che si avvicendano in diversi giorni della settimana. Secondo il sito ufficiale, si può scegliere anche tra rosario standard, contemplativo e tematico.


Monitora la salute

Si propone anche come una sorta di Fitbit religioso. Il dispositivo registra e mostra i dati relativi alla salute e conta i passi, per incoraggiare ad avere un migliore stile di vita.


Il costo

Il dispositivo è in vendita sullo store online di Acer a 99 euro. Un prezzo non proprio per tutte le tasche e che potrebbe attirare polemiche.

Tassa su Whatsapp: la rivolta di Beirut

$
0
0
lastampa.it

In Libano manifestazioni contro corruzione e carovita



Uomini e donne, di tutte le religioni, cristiani, sciiti, sunniti si sono riversati per le strade di Beirut.

Il fumo dai cassonetti si alzava ancora quando verso mezzogiorno i primi cortei hanno cominciato scendere verso piazza dei Martiri, Riad al-Sohl, davanti al quartiere dei ministeri, ai piedi del Gran Serail sede del governo, protetto da centinaia di poliziotti e militari.

Colonne di motorini, con i clacson in costante funzione, alcuni arrivati dalla profonda periferia del Sud, tutti con le bandiere libanesi. Ragazzi delle scuole, chiuse assieme a banche, uffici e negozi, che marciavano sui detriti lasciati dalla battaglia della notte precedente.

Uomini e donne, di tutte le religioni, cristiani, sciiti, sunniti, che risuonavano nei nomi tipici, gli Charbel, Ali, Maruan. L’unico modo per riconoscere le differenze. La rabbia è esplosa quando giovedì sera, nei dettagli della manovra, è emersa la tassa su WhatsApp, sei dollari al mese.

Un provvedimento odioso, perché le compagnie telefoniche sono esose e Internet è l’unico modo di comunicare con i famigliari all’estero. Ieri il governo l’ha ritirata. Ma ormai il fiume era uscito dagli argini.

In serata, nonostante le assicurazioni del premier Saad Hariri, i ragazzi hanno ricominciato a spaccare vetrine, bruciare copertoni per bloccare le strade, compresa quella per l’aeroporto.

Fra gli slogan urlati è riapparso quello della primavera araba «il popolo vuole la caduta del regime», e poi contro i politici, il presidente Michel Aoun, lo stesso Hariri, il presidente del parlamento, lo sciita Nabih Berri, «tutti ladri».

«Non ce la facciamo più spiegava Fadi, 47 anni, impiegato in una agenzia di viaggi -. Il regime è corrotto fino agli occhi. Sono al governo soltanto per riempirsi le tasche». Davanti alla grande moschea Abu Ali incitava gli altri: «Basta confessionalismo. Dimettetevi tutti.

Non siamo qui solo per WhatsApp, siamo qui per carburante, cibo, pane». Di fronte a una protesta così compatta Hariri ha fatto un secco discorso alla nazione. «Mi dimetterò ha promesso se entro 72 ore non riuscirò a trovare una soluzione alla crisi».

Il potere è assediato da tutti i lati. I manifestanti hanno cercato di raggiungere la sede della presidenza del parlamento ad Ain el-Tineh. Un corteo ha puntato verso il palazzo presidenziale di Baabda, sulle colline alle spalle della capitale.

Il genero del presidente Aoun, il ministro degli Esteri Gibran Bassil, è uscito, ha parlato di «un cambiamento serio: il premier è pronto, Hassan Nasrallah è pronto». Un nuovo governo, ha però precisato, «potrebbe essere molto peggio, il caos».

Dal 2016 il Paese si regge sull’alleanza fra cristiani ed Hezbollah, appoggiata dal sunnita Hariri pur di arrivare al posto che fu del padre Rafik, ucciso nel 2005. Rafik Hariri è stato l’artefice del boom dopo la guerra civile del 1975-1990.

Con la ricostruzione, i soldi dai Paesi amici nel Golfo, politiche liberiste estreme, nessun controllo sui flussi di capitali. Oggi il reddito medio è elevato per la regione, 15 mila dollari all’anno. Ma le diseguaglianze sono spaventose.

Il Libano è al terzo posto al mondo nella classifica Gini. L’1 per cento della popolazione ha il 58 per cento della ricchezza. Nel quartiere benestante di Ashrafieh la densità di Porche e Ferrari è simile a Montecarlo.

In compenso non esistono trasporti pubblici, sanità e scuole pubbliche sono pessime, appena passato l’aeroporto, verso Sud, si è avvolti da fetore di un’immensa discarica a cielo aperto.

C'eravamo tanto spiati. L'Italia vista dalla Cia

$
0
0
ilgiornale.it
Alessandro Gnocchi

Da Mani pulite ad Abu Omar: un agente vuota il sacco con Fabrizio Gatti. Realtà o finzione?

I n questo mondo onesto e solidale, almeno a parole, qualcuno deve assumersi la responsabilità di essere cattivo. Senza cattivi, i buoni sarebbero in catene. Se possiamo crogiolarci nei buoni sentimenti è solo perché qualcuno è disposto a compiere cattive azioni.



Fingiamo di ignorare la verità per sentirci persone migliori. In questa società commovente, nessuno vuole interpretare il cattivo, è una parte scomoda. Eppure... Cosa accade se i cattivi decidono di infischiarsene della bontà e il fine non giustifica i mezzi?

Tra l'altro, chi è in grado di valutare quale sia la parte giusta in vicende che iniziano e finiscono nella più totale ambiguità? Simone, il protagonista di Educazione americana (La nave di Teseo) di Fabrizio Gatti, è un cattivo. Un carabiniere reclutato dalla Cia.

Un testimone diretto, a volte un protagonista, di molti casi al centro della cronaca politica e giudiziaria. Educazione americana è un romanzo.

Fino a che punto sia di fantasia, giudichi il lettore:Fabrizio Gatti è uno dei più noti giornalisti d'inchiesta, tra le altre cose ha trascorso quattro anni da infiltrato lungo le rotte del Sahara percorse

da migranti e nuovi negrieri; le note finali lasciano supporre che Gatti abbia trasformato in fiction i racconti di uno o più agenti italiani della Cia; a nessuno fa piacere ricevere la visita dei servizi o una tazza di tè al polonio, per cui meglio essere prudenti.

La storia del Novecento è anche fatta di spionaggio e controspionaggio. Americani contro sovietici, Nato contro Patto di Varsavia, Cia contro Kgb. In mezzo, l'Italia, appartenente al blocco occidentale con riserva, dovuta alla presenza del Partito comunista più importante e più fedele a Mosca dell'intero Occidente.

Simone entra nei ranghi della Cia e si trova a gestire operazioni sempre più complesse. Tutto è al limite, nella sua vita: l'attesa sfibrante di una missione; la missione; le ripercussioni, anche morali, della missione. Simone contatta un giornalista per raccontare il suo passato.

Vuole prenderne le distanze, svelare almeno qualche retroscena inquietante dell'Educazione americana, vale a dire delle modalità attraverso le quali gli Stati Uniti hanno assicurato la permanenza dell'Italia tra i Paesi liberi.

Con invasioni di campo poco rassicuranti e perfino con brutalità all'occorrenza: rapimenti, torture, corruzione, traffico di documenti riservati, depistaggi, alleanze con la criminalità, omicidi mirati. Naturalmente ci sono anche i sovietici occupati in faccende uguali e contrarie.

Lo spionaggio, inoltre, non va in pensione con la caduta del Muro. Non è tanto la caduta del comunismo a cambiare le carte in tavola. È piuttosto la tecnologia: la sorveglianza, attraverso le telecomunicazioni digitali, Rete e telefoni cellulari, diventa più capillare.

Le azioni sono più semplici, rapide e preventive. Gli agenti non devono più rincorrere i fatti: possono orientarli a piacimento. Cosa sono stati dunque gli ultimi quarant'anni della nostra Repubblica, visti attraverso gli occhi di Simone?

Proviamo a riassumere, ammesso e non concesso che Simone sia sincero: non potrebbe aver depistato l'autore, sempre in cerca di conferme al racconto dello spione? Simone non potrebbe aver frainteso, essendo ai piani bassi dell'organizzazione, dai quali si gode di un panorama limitato?

Comunque sia, i fatti sarebbero i seguenti. Dopo il 1989, la Cia raccoglie informazioni sui partiti al potere, in particolare i socialisti di Bettino Craxi.Quando scoppia Mani pulite, Simone è costretto a farsi qualche domanda: il cambio di regime, per motivi imperscrutabili, è stato voluto o almeno agevolato dagli americani?

E perché? Il 1993 e il 1994 sono anni rivoluzionari non solo per le inchieste giudiziarie della procura di Milano. Totò Riina, boss della mafia corleonese, finisce in carcere. Segue la stagione delle bombe a Roma, Milano, Firenze.

Alle elezioni, Silvio Berlusconi taglia la strada ai post comunisti e va al governo. Anche intorno a Berlusconi, all'inizio forse sgradito alla Cia, iniziano a muoversi gli agenti in cerca di informazioni. Due anni di confusione, che lo stesso Simone non riesce a capire fino in fondo.

Forse dentro la Cia c'è stata una spaccatura, forse qualcuno, a Langley, sede dell'Agenzia, pensava a un colpo di Stato o a una guerra civile magari lanciata dal Nord secessionista. Perché gli Usa avrebbero avuto interesse nel destabilizzare l'Italia?

L'interrogativo resta aperto. Dopo l'11 settembre 2001 cambia tutto. Inizia un periodo di collaborazione più stretta tra i servizi segreti occidentali ma anche una discutibile sospensione delle regole, aggravata dal caos.

Esempio principale: il sequestro di Abu Omar a Milano. L'imam sospettato di terrorismo viene prelevato da una squadra di dieci agenti. A detta di Simone, ne facevano parte agenti della Cia (italiani inclusi) e agenti dei servizi italiani.

L'imam transitò dalla base militare di Aviano e fu trasportato in Egitto. In Italia scoppiò un lunghissimo procedimento giudiziario a carico dei vertici dei servizi (condannati). E oggi? Beh, l'argomento è più che mai attuale.

Russiagate e vicende correlate, tra cui la più grave è l'accusa al premier Conte di essersi servito in modo improprio dei servizi per garantirsi l'appoggio di Trump, ci dicono che tuttora vediamo solo una parte di ciò che accade. Come accada e se è giusto che accada, va valutato forse di caso in caso.

Educazione americana srotola davanti agli occhi dei lettori l'intero campionario: al lettore decidere se i cattivi siano necessari, come si diceva all'inizio, o se talvolta siano da punire.

Evasori e vecchi: rastrellamento di Stato

$
0
0
ilgiornale.it
Alessandro Sallusti

Solo un invasato in malafede, o peggio stupido, può sostenere che chi è contro le manette agli evasori è uno a favore dell'evasione.

Sarebbe come dire che uno contro la pena di morte è amico degli assassini, che un «no» alla castrazione chimica significa un sì a pedofili e maniaci sessuali. Milan Kundera, quello

dell'Insostenibile leggerezza dell'essere, una volta disse che «la stupidità è avere una risposta per ogni cosa, la saggezza è avere, per ogni cosa, una domanda».

Non siamo saggi, ma per sostenere i nostri dubbi nei giorni scorsi abbiamo domandato a questi soloni manettari in salsa grillina: dove mettiamo al gabbio otto milioni di evasori? Chi celebra - e chi paga - 24 milioni di processi tra primo, secondo grado e cassazione?

Arrestiamo anche l'operaio, il professore e chiunque arrotondi con lavoretti in nero perché la giustizia non deve guardare in faccia a nessuno? Domande banali, che ovviamente restano senza risposta.

E quindi ma sì, facciamo una bella pulizia non etnica ma etica. Di Maio e Bonafede (ministro della Giustizia) vogliono mandare in campi di concentramento otto milioni di evasori, il loro capo Grillo ieri ha proposto di togliere i diritti

civili a tredici milioni di ultra sessantacinquenni: «Non devono più potere votare - ha detto - perché il futuro appartiene ai giovani e non più a loro».

Il conto è presto fatto: per i Cinque Stelle ventuno milioni di italiani (8+13) devono togliersi, in un modo o nell'altro, dai coglioni: disturbano, intralciano, sporcano, depistano, e soprattutto non votano grillino: che ce li teniamo a fare?

È più o meno quello che Hitler pensava degli ebrei, e anche lui aveva trovato una soluzione semplice quanto efficace.

L'Italia grillina, come la Germania nazista, si deve avviare alla purezza della razza e organizza per via parlamentare un mega rastrellamento di Stato per celebrare degnamente gli ottant'anni delle leggi razziali.

Un paradosso? Solo fino a un certo punto.L'ideologia Cinque Stelle, che si salda con quella comunista, rappresenta un pericolo reale per le nostre libertà. C'è poco da scherzare. Questi, goccia dopo goccia, stanno riempiendo l'amaro calice che hanno intenzione di farci bere.

Una volta si diceva: non moriremo democristiani. Oggi vale la pena di parafrasare: forse moriremo, ma mai grillini. E questo spero sia il senso vero della piazza di oggi a Roma.

Perché Craxi è sepolto sotto le mura di Hammamet?

$
0
0
corriere.it
risponde Aldo Cazzullo

Caro Aldo,
sono una dei tanti ragazzi che probabilmente dei rapporti tra Sinistra e Dc prima e della vicenda Craxi poi, sanno poco o nulla, disponendo nella migliore delle ipotesi di pochi ricordi del periodo per motivi anagrafici e mancando del supporto di una lettura critica bipartisan della vicenda poi (forse per motivi politici?). Colmerebbe questa mancanza?
Sara Moriggia



Cara Sara,
Ci provo. Il partito storico della sinistra italiana fino alla seconda guerra mondiale era il Psi. Che nel 1948 si allea con i comunisti, perde la sua ala moderata, e viene sconfitto dalla Dc di De Gasperi.

Consapevole di non poter governare a lungo con il proporzionale puro, De Gasperi introduce un premio di maggioranza – impropriamente chiamato legge truffa che nel 1953 non scatta per pochi voti. La Dc in prospettiva ha bisogno di nuovi alleati. Tre anni dopo, l’invasione sovietica dell’Ungheria offre ai socialisti l’occasione per affrancarsi dai comunisti.

Il governo Fanfani, che non comprendeva il Psi ma aveva il suo appoggio, avvia le riforme: nazionalizzazione dell’energia elettrica, scuola media unica (prima, gentile Sara, non c’erano scuole medie nei quartieri operai: i figli dei poveri andavano all’avviamento).

Nel 1960 la Dc tenta una torsione reazionaria con l’appoggio del Movimento sociale: la polizia spara sugli scioperanti a Reggio Emilia; Genova insorge; l’esecutivo Tambroni cade; si intuisce che la sinistra unita non può andare al governo, ma senza la sinistra non si governa.

Negli anni 60 i socialisti sono al potere con la Dc. E nel 1976 la maggioranza si apre ai comunisti, che prima si astengono, poi votano la fiducia a un monocolore democristiano. Craxi intuisce che il suo partito rischia di finire schiacciato tra i due colossi: «Primum vivere» è il motto.

E con la fine della solidarietà nazionale conquista una centralità, che lo porta nel 1983 alla presidenza del Consiglio. L’economia cresce, ma i partiti comandano, e si finanziano illegalmente; se preferisce, rubano.

Mentre la sinistra Dc dialoga con il Pci, Craxi si lega alla destra democristiana: sono gli anni del Caf, Craxi Andreotti Forlani. Il crollo del comunismo fa crollare il sistema. Il resto lo fa Mani Pulite. Nel 1992 in teoria toccherebbe di nuovo a Bettino guidare il governo.

Finisce che l’anno dopo lo aspettano fuori dal suo albergo per tirargli le monetine. Poi la fuga in Tunisia: latitanza per la legge; esilio secondo i sostenitori. Ora riposa sotto le mura della medina di Hammamet.

Trento, bustine di zucchero sessiste: l’idea dell’Apt divide: «Sono solo detti famosi». «No, ignoranza»

$
0
0
corriere.it
di Francesco Barana

In Val di Fassa è bufera sulla trovata pubblicitaria promossa dall’azienda turistica

Trento C’è anche chi, donna, non vuole sentir parlare di sessismo. «Macché sessismo, quella bustina di zucchero l’ho vista molte volte bevendo il caffè e non ha nulla di sessista». A parlare è Elena Testor, di Cavalese, senatrice di Forza Italia e Procuradora del Comun general de Fascia.


Il caso che divide
Proprio in val di Fassa nei giorni scorsi è scoppiato il caso per la bustina di zucchero promossa dall’Apt locale con la Famiglia cooperativa Val di Fassa. A non essere digerito da molte donne, più che il caffè, è stato l’antico proverbio ladino stampato sulla confezione: «Na bela femena l’à l cul e l piet sot la pievia».

Una bella donna ha il sedere e il petto sotto la pioggia. Per la Testor la frase imputata «è un detto fassano che, anzi, è un omaggio alle donne un po’ formose.

Mi ha stupito questa polemica, anzi mi ha lasciato basita, perché in un momento in cui viene strumentalizzata la donna magra, dando un’immagine poco sana ai nostri giovani quella cioè della magrezza e della perfezione a tutti i costi credo che un omaggio alla prosperità ci stia».

La senatrice azzurra ricorda: «La scorsa estate ho visto in tv una pubblicità con una ragazza magrissima, ho provato fastidio. Mi son detta, ma è questa l’immagine che passiamo alle nostre ragazze che poi si ammalano?

Su questo dovrebbe spendersi una commissione pari opportunità, sulla salute e il benessere delle nostre ragazze, non su una bustina in cui non c’è nulla di sessista».
«Sono solo proverbi»
La Testor poi puntualizza: «Trovo questa una finta polemica, se avessi ritenuto quella frase offensiva e sessista sarei stata la prima a metterlo in evidenza. Io come donna non mi sento offesa. E poi sulle stesse bustine gira pure un proverbio sul cervello degli uomini, loro allora che dovrebbero dire?

Bisogna concentrarsi sui temi veri delle donne, non sulla bustina di zucchero. Il rischio vero, anzi, è in questo modo perdere di vista la vera questione femminile, dalla salute alla violenza».
L’ira dell’attore Castelli
L’attore Andrea Castelli è di avviso diverso, sebbene esorti a «non perdere tempo su questioni di tale basso livello». Castelli però censura l’Apt fassana: «Queste trovate sono ‘ignorantate’ fatte apposta per farsi pubblicità.

Credo che dovremmo tutti essere più consapevoli del linguaggio che usiamo e dei concetti che si veicolano. In questo caso non è stato così. Se vogliamo, questo flette anche la bassa levatura intellettuale dei nostri tempi».

Castelli non ce l’ha con il proverbio in sé, ma critica il contesto in cui è stato usato: «Se si trovasse dentro a un volume di uno studioso di proverbi antichi ci starebbe, un altro paio di maniche è questa bassa provocazione della cooperativa e dell’Agenzia per il turismo».

«Tuttavia ribadisce l’attore è inutile fare polveroni su un fatto del genere mentre accadono quotidianamente cose più gravi a cui purtroppo siamo talmente assuefatti che non se ne parla più».
Sindaco «diplomatico»
Valuta il contesto, seppur per esprimere un concetto opposto a quello di Castelli, anche il sindaco di Moena Edoardo Felicetti: «Stiamo parlando di una bustina di zucchero in un bar, non di un testo inserito in un contesto più serio. Bisogna prendere le cose con il giusto peso, con spirito leggero e scherzoso».

Poi la stoccata: «Oggi le persone si indignano facilmente e trovano piacere nel creare polemica dove i problemi non esistono. Se pensiamo che il problema della parità di diritti e del rispetto di genere sia in una bustina di zucchero stiamo sbagliando tutto. Si sta creando un grosso problema su questione piccola».

La cacciatrice di falsi video on line su mandato degli 007 americani

$
0
0
corriere.it

Luisa Verdoliva alla Federico II ha creato in team un algoritmo di ultima generazione

Prendi il cellulare, apri YouTube e carica un video. Ora immagina di trovare il tuo viso in balìa dei movimenti del corpo di una persona che con te non c’entra nulla.

È questa l’ultima frontiera della manipolazione delle immagini, che ormai è stata estesa anche ai video: movimenti, volti e replicazione vocale, tutto può essere contraffatto dai truffatori della Rete.

Ma da Napoli una donna guida la resistenza a colpi di algoritmi e lancia la sfida al deepfake: è Luisa Verdoliva, professoressa di Telecomunicazioni all’Università Federico II, che con il suo team napoletano sta addestrando le intelligenze artificiali a riconoscere e smascherare i video falsi.

«L’interesse è nato un po’ per caso circa dieci anni fa, discutendo con uno studente che si stava occupando di manipolazione delle immagini per la sua tesi», racconta Verdoliva.

«Abbiamo continuato per interesse scientifico, fino a quando nel 2013 non abbiamo vinto una competizione internazionale e abbiamo acquisito esperienza e visibilità».

Tre anni dopo la professoressa è stata scelta infatti come principal investigator a Napoli all’interno del progetto Media Forensics finanziato dall’agenzia governativa statunitense Darpa (Defence advanced research project agency):

«Il mio ruolo è coordinare lo sviluppo degli algoritmi e discutere con gli altri responsabili delle idee che guidano il progetto internazionale». Ma come si combatte nella pratica il deepfake?

«All’interno del team di cinque membri della Federico II, abbiamo sviluppato un dataset di circa quattromila video, manipolati in quattro modi diversi: due sono cambi di espressione e due sono faceswapping, lo spostamento del volto di una persona su quello di un’altra.

Lo scopo era addestrare delle reti neurali, cioè delle tecniche basate su intelligenze artificiali, a riconoscere se e come questi video fossero stati modificati».

Sono infatti i software che permettono la realizzazione di falsificazioni sempre più sofisticate, in base alla quantità di dati personali riversati sul web: «Chiunque ormai ha lasciato traccia di sé, con un profilo social o con fotografie caricate dagli amici.

Più dati sono a disposizione di questi software, maggiore è il livello di realismo che riescono a riversare nel video e che spesso l’occhio umano nemmeno riesce a riconoscere. È per questo che abbiamo voluto combattere le intelligenze artificiali con altre più sofisticate», spiega la professoressa cacciatrice di deepfake.

Il realismo che si è riusciti a raggiungere nell’elaborazione di video falsi ormai è impressionante.

Tutto è nato con la sovrapposizione di volti di celebrità a quelli di attori e attrici porno (questa rimane ancora la categoria di video più diffusa), ma stanno prendendo sempre più piede anche quelli “divertenti”, in cui sono politici o persone comuni i protagonisti loro malgrado: «In rapporto a tutti i video presenti su Internet, la percentuale è ancora bassa.

Ma già soltanto dall’anno scorso sono aumentati esponenzialmente e molti sono così elaborati che riescono a mascherare gli artefatti visivi riconoscibili a occhio nudo», continua Verdoliva. «Mi impressiona il fatto che possano essere generati quasi da zero i volti delle persone e ricollocati in contesti completamente estranei.

Ma è anche una grande sfida: usare le stesse tecnologie basate sull’intelligenza artificiale per combattere le manipolazioni dei video, mettendo strumenti affidabili nelle mani degli utenti».

E se le possibilità di sviluppo della verosimiglianza nei deepfake sono ancora molte, altrettanto ampi sono i margini di crescita della lotta nello smascherarli: «La parte pratica è appena cominciata, solo adesso abbiamo capito quanto sia importante non solo per le forze dell’ordine e per i giornalisti, ma anche per i cittadini comuni», conclude Verdoliva.

Una sfida che potrebbe riversarsi sulle nuove tecnologie, come le app: «Perché no? Certo, uno strumento che dica solo “vero o falso” potrebbe essere comunque pericoloso, perché ci potrebbe sempre essere un margine di errore.

Ma si potrebbe sviluppare una app in cui si fornisca la probabilità che il video caricato sia falso, incrociando più algoritmi». Per accendere il cellulare e avere più coscienza di un fenomeno che rischia di insinuarsi nella vita di tutti i giorni. Anche la tua.

Identificato uno dei marines che issarono la bandiera nella foto di Iwo Jima

$
0
0
corriere.it
di Guido Santevecchi

La foto, scattata durante una delle battaglie più sanguinose del Pacifico, è entrata nella storia ma l’identificazione dei sei marines protagonisti è sempre stata difficile

Identificato uno dei marines che issarono la bandiera nella foto di Iwo Jima

Era il 23 febbraio del 1945, durante una delle battaglie più sanguinose del Pacifico sei marines piantarono sulla cima del monte Suribachi di Iwo Jima la bandiera a stelle e strisce.

Quella foto scattata dall’inviato di guerra Joe Rosenthal della Associated Press è entrata nella storia, è diventata protagonista di libri e film. Il simbolo di gloria e vittoria per gli Stati Uniti nella guerra contro il Giappone.

Ma ora la didascalia con i nomi dei sei marines è stata cambiata, corretta con il nome del caporale Harold «Pie» Keller al posto di Rene Gagnon.La nuova identificazione è stata frutto delle ricerche di tre storici che hanno usato filmati, foto scattate da altri soldati quel giorno sulla montagna e dati d’archivio.

L’identificazione di Keller è stata confermata da investigatori della sezione scientifica dell’FBI. Il fotoreporter della Ap nel 1945 non era stato in grado di ottenere i nomi dei sei ragazzi: si combatteva ancora con ferocia nell’isola di Iwo Jima e i giapponesi non cedevano.

La battaglia finì il 26 marzo. Gli americani soffrirono 23 mila tra morti e feriti, la guarnigione giapponese fu annientata: tra i 18.000 e i 20.000 caduti e un migliaio di prigionieri. Il caporale Harold Keller fu ferito a una spalla in seguito, ricevette la medaglia Purple Heart e tornò a casa.

Non si vantò di quell’azione sul Suribachi, non parlò mai della guerra nemmeno in famiglia, morì d’infarto nel 1979, all’età di 57 anni. Nella biografia pubblicata dai giornali locali alla sua morte non si fa riferimento alla bandiera issata né a Iwo Jima. Pochi mesi dopo morì il marine Gagnon, quello inserito per errore nel gruppo dei sei.

Fu seppellito a Arlington, il cimitero degli eroi e sulla lapide è scritto: «Iwo Jima Flag Raiser».

Nel 1946 il corpo dei Marines dopo una ricerca e diverse polemiche identificò i sei soldati entrati nell’immaginazione popolare e accertò che tre di loro erano caduti in azione pochi giorni dopo aver issato la bandiera e prima che la foto fosse distribuita e pubblicata sulle prime pagine di tutti i giornali degli Stati Uniti.

Questa correzione nella composizione della squadra non è la prima: nel 2016 fu accertato un altro errore. John Bradley, infermiere della US Navy, non faceva parte del gruppo, al suo posto c’era in realtà il marine Harold Schultz.

Raccontò la nipote di Schultz: «Una volta, guardavamo la tv e parlavano di quella storia e il nonno disse: sapete, io ero uno di quelli che piantarono la bandiera.

La mamma allora disse: mio dio, sei un eroe. E il nonno rispose: no, ero solo un marine». Per un’altra coincidenza, fu il il figlio dell’infermiere Bradley che scrisse il bestseller «Flag of our fathers» poi usato da Clint Eastwood per la sceneggiatura del film.

Ha detto ieri il generale David H Berger, comandante del Corpo dei Marines: «Non conta chi era in quella foto, a Iwo Jima erano tutti eroi». Una frase da film.

Il «solito» Celentano è un déjà vu: le pause, l’acqua, la finta di andarsene

$
0
0
corriere.it
di Renato Franco

Eppure Celentano ha allestito uno show che avrebbe le carte in regola per essere definito un evento con cinque conduttori sul palco da 16 milioni di spettatori

Il «solito» Celentano è un déjà vu: le pause, l'acqua, la finta di andarsene

Sua Assenza questa volta c’è, pause comprese.

Celentano dimentica Adrian e torna a fare Adriano, non si limita alla sola esperienza cartonata, ma si manifesta anche in carne, ossa e voce. Il solito tavolo con il bicchiere e la bottiglia d’acqua; la finta di interrompere il suo monologo e andarsene.

Déjà vu. I pilastri su cui ha costruito la sua carriera televisiva ci sono tutti, i temi di cui parla sono quelli che gli stanno a cuore: il mondo della tv, l’ambientalismo.

Celentano ha allestito uno show che avrebbe le carte in regola per essere definito un evento, a partire dai conduttori che riesce a mettere insieme attorno a un tavolo in rappresentanza delle diverse anime della tv generalista: c’è la Rai (con Carlo Conti), c’è Mediaset (con il trio Bonolis, Chiambretti, Gerry Scotti), c’è La7 (con Giletti).

Gente che ha in dote qualcosa come 16 milioni di spettatori a sommare i loro programmi da Tale e Quale Show a Non è l’Arena. Il risultato del dibattito risulta però troppo improvvisato, tra qualche banalità e analisi superficiali.

Sullo sfondo lo skyline di una città piena di grattacieli affacciata sul mare, entrano uno alla volta e si mettono da un lato del tavolo; sull’altro c’è Celentano annunciato come «il conduttore».

Ci mette un po’ a far uscire la voce se no non sarebbe Lui: «Qui c’è la televisione. Loro sono la nostra finestra sul mondo, attraverso di loro ci arriva il bello e il brutto dell’umanità. Io credo che dobbiamo cambiare la tv: cambiare è sempre positivo, anche quando si sbaglia.

Bisogna essere più diretti, più schietti, meno caramellosi». Celentano dà anche i giudizi sui loro programmi. «Il difetto di Tale e Quale è nella giuria, non hanno il coraggio di dire ai concorrenti quando non sono stati bravi. Metterei una giuria che giudica la giuria». Giletti?

«Non riesce a frenare il caos quando gli ospiti si accapigliano». Gerry Scotti? «Sono contrario a regalare soldi in un quiz attraverso un gioco, non è un bel messaggio per i giovani». L’accusa a Bonolis è di indugiare troppo su bellissime ragazze in tanga, «dovresti cambiare».

«Ma io cambio culo ogni settimana», la risposta al laser del conduttore. Poi arriva il «solito» monologo, la preoccupazione per le ferite del nostro Pianeta («La Terra è arrabbiata con l’Uomo»). Con Ligabue invece parlano di acqua. Il momento migliore però è il riassunto teatrale di Adrian fatto da Alessio Boni.

Celentano ha puntato anche su una durata che è il futuro della tv, si rimane intorno all’ora, un minutaggio che ha una diversa lettura: poco tempo per annoiarsi a morte (se non piace), ottimo per non essere sazi (se diverte gli spettatori), perfetto per non diluire le idee (se ci sono) in 3 ore diprogramma che in questi tempi di attenzione ristretta sono ormai un residuo del Novecento televisivo.

Occhio all’aeroporto: a volte è lontanissimo dalla città da cui prende il nome. Ecco 6 casi al limite della truffa

$
0
0
repubblica.it
Bill Bostock
  • Alcuni aeroporti si chiamano come le città dalle quali, in realtà, si trovano a tantissimi chilometri di distanza.
  • Alcuni dei maggiori imputati si trovano a circa 150 chilometri dalle “loro” città. Ecco i peggiori sei.
Una lamentela comune tra i viaggiatori che atterrano in molti aeroporti che hanno Londra nel nome è che non si trovano per niente a Londra.

London Luton (50 chilometri), London Southend (60 chilometri) e London Stansted (58 chilometri) si definiscono aeroporti di Londra, nonostante il fatto che si trovino a più di 50 chilometri dalla capitale. E ‘Milano’ Orio al Serio è a 51,7 km da piazza Duomo.

Ma al mondo ci sono trasgressori molto peggiori che prendono il proprio nome da città da cui distano moltissimi chilometri.

Ecco i peggiori sei.
  1. Stockholm Västerås – 103 chilometri da Stoccolma, Svezia.

Stockholm Västerås dista 103 chilometri da Stoccolma. Google Maps
Stockholm Västerås si trova a 103 chilometri a ovest di Stoccolma, la capitale svedese.
Stockholm Västerås avvisa i passeggeri che dal terminal degli arrivi impiegheranno almeno 70 minuti in macchina per raggiungere il centro della capitale svedese.
Dall’aeroporto si parte per la Spagna e per Londra, ed è un hub di Ryanair.

  1. Oslo-Torp 109 chilometri da Oslo, Norvegia.

Oslo-Torp si trova a 109 chilometri a sud di Oslo lungo i fiordi. Google Maps
Oslo-Torp dista 108 chilometri dal centro di Oslo.
Secondo l’aeroporto, il treno impiega circa 1 ora e 45 minuti per raggiungere Oslo.

  1. Memmingen (München-West) 114 chilometri da Monaco, Germania.

Memmingen München-West dista 114 chilometri da Monaco Google Maps
Un autobus che parte dalla stazione centrale di Monaco impiega 1 ora e 20 minuti.
Da Memmingen decollano voli per la Francia, la Germania, l’Italia e il Belgio.
  1. London Ashford 122 chilometri da Londra, GB.

London Ashford si trova a 122 chilometri a sud-est di Londra sulle coste del Kent. Google Maps
L’aeroporto conosciuto come Lydd Airport è in realtà più vicino alla Francia (64 chilometri attraverso la Manica) che a Londra.
Ha voli internazionali verso Le Touquet in Francia.

  1. Frankfurt-Hahn 124 chilometri da Francoforte, Germania.

Frankfurt-Hahn si trova a 117 chilometri a ovest di Francoforte, la 5ª città della Germania. Google Maps
Non c’è un treno che collega Frankfurt-Hahn con il centro di Francoforte, per cui dovrete raggiungerlo con un viaggio di oltre 1 ora e mezza in autobus o in macchina.
Le compagnie low-cost Ryanair e Wizz Air partono da Frankfurt-Hahn.
  1. Paris-Vatry 156 chilometri a est di Parigi, Francia.

Paris-Vatry si trova a 156 chilometri a est di Parigi. Google Maps
Paris-Vatry dista l’enormità di 156 chilometri da Parigi, raggiungibile in macchina in più di due ore.
L’aeroporto è però strategicamente vicino a Disneyland Paris. Ma neanche Disneyland Paris, nonostante in nome, si trova veramente a Parigi.
I voli da Paris-Vatry raggiungono tutto il mondo: USA, Africa orientale e Giappone.

Maddalena Corvaglia affonda il governo: "Non fai lo scontrino? Vai in carcere. I clandestini spacciatori? In albergo"

$
0
0
ilgiornale.it
Anna Rossi

Maddalena Corvaglia sbotta sui social e critica i provvedimenti presi dal governo giallorosso



In questi giorni si parla parecchio del distacco fra Maddalena Corvaglia ed Elisabetta Canalis.

Le due non si sono mai espresse in merito, ma quello che è certo è che non lavorano più insieme nella palestra negli States. Ma lasciato da parte questo genere di gossip, nelle ultime ore Maddalena Corvaglia ha voluto condividere con i fan un suo pensiero. Il tema?

La manovra economica, le scelte (strampalate) di questo governo in termini fiscali. "Qualcosa non torna - scrive su Instagram -. Manovra: se non fai lo scontrino finisci in carcere. Se arrivi clandestinamente in Italia per spacciare finisci in albergo".

La posizione di Maddalena Corvaglia è chiara: una critica nei confronti dei provvedimenti che il governo giallorosso sta prendendo e un attacco alla riapertura dei porti. Tradotto: no alla manovra del BisConte e no all'immigrazione selvaggia.

Ovviamente, nel giro di qualche ora la storia condivisa da Maddalena Corvaglia è diventata virale. Maddalena, infatti, solitamente preferisce non dare adito a polemiche. Ma anche per lei evidentemente questa è troppo.


    I giornali australiani escono con la prima pagina oscurata

    $
    0
    0
    repubblica.it
    Luciana Grosso


    Le prime pagine 'censurate' dei giornali australiani.
    Prime pagine censurate, oggi, per i giornali australiani. Le principali testate del paese come il Sydney Morning Herald e l’Australian Financial Review sono usciti oggi con le storie in prima pagina oscurate con le pecette tipiche della censura.

    Anche le emittenti tv hanno preso parte alla protesta, chiamata “Right to Know”,  diffondendo pubblicità che si chiudono con lo slogan: “Quando il governo ti nasconde la verità, cosa ti nascondono?”.

    La protesta dei giornali e tv  ha a che fare con la nuova legge sul segreto di Stato, da settimane oggetto di polemiche perché limita l’accesso dei giornalisti a informazioni sensibili e riservate.

    Inoltre, nelle ultime settimane, si sarebbero susseguite con una frequenza piuttosto allarmante le incursioni della polizia nelle principali redazioni dei giornali, dove sarebbero stati sequestrati computer e hard disk e intimiditi i cronisti.

    “La nostra protesta vuole difendere il diritto fondamentale di ogni australiano di essere adeguatamente informato sulle importanti decisioni che il governo sta prendendo in suo nome”, ha dichiarato Hugh Marks, portavoce della protesta.

    Per ora, però, sembra che il governo dall’orecchio delle proteste della stampa, non ci senta.

    E anche i lettori stessi, in questi tempi di over informazione, così grande e vasta da essere del tutto inefficace, appaiono distratti, lontani, e, soprattutto, disinteressati rispetto alla sorte dei loro giornali, dalla cui salute, forse è il caso di ricordarlo, dipende buona parte delle democrazia stessa.

    Servizi segreti e sospetti, la Repubblica dei gialli infiniti

    $
    0
    0
    corriere.it
    di Antonio Polito

    La nostra democrazia è nata «a sovranità limitata». E spesso si cerca una ricostruzione «occultista» della storia che deresponsabilizza i vincenti e giustifica gli sconfitti

    La strage di piazza Fontana
    La strage di piazza Fontana

    La sottile linea d’ombra che separa i «Servizi» dai «servizietti» è da sempre un cruccio delle democrazie.

    Avvolti per dovere d’ufficio dal segreto, è difficile discernere quando agiscano nell’interesse nazionale e quando nell’interesse del governo del momento, o peggio ancora di un governo alleato del momento.

    Perché i due interessi non necessariamente coincidono. Soprattutto nell’Italia post-ideologica dei nostri tempi, in cui le maggioranze si ribaltano dalla sera alla mattina, e un povero premier come Conte può essere colto dalla richiesta di aiuto da parte di Trump mentre è a metà del guado tra Salvini e Renzi.

    E così, oltre all’interesse nazionale, può smarrire anche quello politico.

    Il mistero del caso Conte, il presidente del Consiglio italiano che autorizza il Procuratore generale degli Stati Uniti a fare riunioni con i nostri 007, va dunque ad aggiungersi, seppure in tono (molto) minore, alla lunga trama di misteri di cui è inestricabilmente intessuta la storia della Repubblica.

    Rilanciando di conseguenza le teorie cospirative più fantasiose, come quella secondo cui l’espulsione di Salvini dal governo sarebbe addirittura paragonabile a quella di Togliatti nel ’47, che De Gasperi fece fuori dopo un lungo viaggio negli Usa.

    Versione che sorvola sul piccolo dettaglio che è stato lo stesso Salvini a far cadere il governo di cui era parte, favorendo così il complotto di cui si dice vittima.
    Il Paese «protetto»
    Perché il mistero ha questo di bello: consente una ricostruzione «occultista» della storia patria (una volta, nella ricerca della prigione di Aldo Moro, comparve perfino una seduta spiritica), che giustifica gli sconfitti e deresponsabilizza i vincenti.

    È infatti ormai storiografia accettata l’idea che la nostra sia nata come una democrazia «a sovranità limitata», dunque «protetta», perché destinata a un Paese trattato nella spartizione del dopoguerra come un semi-protettorato americano.

    Sono interpretazioni esagerate, che svalutano l’agire politico di grandi masse di uomini e donne sulla scena della storia, per privilegiare il retroscena del potere. Ma è pur vero che fin dall’atto di nascita della Repubblica il mistero la avvolge.

    I risultati del referendum istituzionale si fecero aspettare così tanto, e sembrarono a lungo così incerti, che i monarchici attribuirono a sicuri brogli la loro sconfitta.

    E si deve solo al senso di responsabilità di Umberto II, il «re di maggio», (e a chi lo consigliò) se fece le valige e andò in esilio, senza cercare lo scontro.
    Il braccio di ferro
    Servizi e militari, che poi spesso coincidono, sono stati protagonisti anche del lungo braccio di ferro tra la democrazia «dissociativa», che voleva tener fuori la sinistra dell’area della legittimità a governare, e quella «consociativa», che invece puntava ad assorbirla.

    Quando nel ’64 entrò in crisi il primo governo di centrosinistra con i socialisti, e mentre Aldo Moro trattava con Nenni un nuovo programma più radicale di riforme, fu il generale dei Carabinieri de Lorenzo a far sentire al leader socialista quello che lui chiamò

    «un tintinnio di sciabole», avvisaglie di un potenziale colpo di stato che avrebbe avuto addirittura al Quirinale, nella figura del Presidente Antonio Segni, il suo lord protettore.

    Fu sulla base dei dossier del Sifar, il servizio segreto militare, che venne compilata la lista delle centinaia di persone da deportare, se fosse scattato il «Piano Solo», a Capo Marrargiu, una base in Sardegna.

    Mistero su mistero, il giorno dopo la soluzione della crisi, in un tempestoso colloquio sul Colle tra Moro, Saragat e Segni, quest’ultimo venne colpito dall’ictus che l’avrebbe presto indotto ad opportune dimissioni.

    Il mistero, ahinoi, avvolge ancora molti degli esecutori materiali, ma non più dei moventi, di quella che il giornale inglese The Observer chiamò la «strategia della tensione»: un’incredibile scia di bombe e stragi che condizionò la nostra democrazia negli anni ’70, fino a lasciare poi il testimone al terrorismo rosso e alla sua ferocia.

    L’obiettivo era quello della «stabilizzazione» della situazione politica. Giovanni Bianconi ha di recente raccontato su La Lettura che, quattro mesi dopo la bomba di piazza Fontana (a dicembre di quest’anno ricorrono i cinquant’anni), un documento

    dell’amministrazione americana, allora guidata da Nixon, istruiva i servizi segreti su che cosa fare per evitare il «pericolo dell’insorgenza comunista» in Europa occidentale.

    Il «manuale» suggeriva azioni di destabilizzazione, «violente o non violente», utili a «stabilizzare» i governi. Notate la sottigliezza: l’obiettivo non era il golpe, ma diffondere la paura del golpe, per sconsigliare gli italiani dal tentare nuove avventure politiche.

    Poiché il mistero è ambivalente, lo si può usare anche rimuovendolo: come fece Andreotti quando nel ’90 rivelò l’esistenza di Gladio, una organizzazione paramilitare promossa dalla Cia, pronta ad agire in caso di invasione comunista dell’Italia.

    A rileggere oggi la sequenza degli attentati di quegli anni viene da chiedersi come abbia fatto la democrazia italiana a reggere. Nel solo 1974 ci furono due delle peggiori stragi terroristiche della nostra storia, quella di Piazza della Loggia a Brescia (8 morti) e quella sul treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro (12 morti).

    Da allora la «strategia» mutò. Il Pci aveva infatti continuato a crescere, ottenendo la vittoria nel referendum sul divorzio, proprio nel 1974, e poi con lo sfondamento elettorale del biennio ’75-76.

    Sarà un caso, ma da quel momento al posto delle bombe partì l’attacco delle Brigate Rosse, profeticamente annunciato dal generale Miceli, capo del Sid (Servizio informazioni della difesa) al giudice che lo inquisiva; un ben più sofisticato effetto

    avrebbe avuto sulle sorti della democrazia consociativa, chiudendone di fatto la storia con l’omicidio di Aldo Moro.
    Le nuove battaglie
    Naturalmente l’89, la caduta della Cortina di ferro e la fine dell’Urss e del mondo di Yalta, hanno fatto dell’Italia un paese per nostra fortuna più «normale», non più frontiera tra i due blocchi, crocevia di spie. I nostri Servizi non sono più inquinati da trame eversive.

    Ma sul nostro territorio si continuano a combattere battaglie, seppure ormai svuotate di ogni motivazione ideologica o geopolitica, e più che altro figlie degeneri di lotte di potere interne alla politica contemporanea: quella tra Trump e il Congresso è una di queste.

    Il rischio che gli 007 finiscano per essere usati come cortigiani del potere, non è però meno grave per una democrazia che non voglia sentirsi più «protetta». L’abitudine alla «sovranità limitata» è dura da estirpare, soprattutto in certe stanze.

    Banda della Magliana, i ricordi di Franchino il becchino: «La bara di De Pedis? Un capolavoro»

    $
    0
    0
    corriere.it
    di Fabrizio Peronaci

    L’impresario e i boss: «Per Renatino una cassa baccellata intarsiata a mano, con zampe di leone e conchiglie. Paradisi? Un amico. Giuseppucci? Un signore». «Noi rovinati dalle bare cinesi vendute a cento euro, che si aprono in chiesa...»

    L’impresario funebre Franco De Gese. Nel riquadro, Enrico De Pedis
    L’impresario funebre Franco De Gese. Nel riquadro, Enrico De Pedis

    C’era 40 anni fa, in prima linea sul fronte dei morti ammazzati. E lo è ancora oggi, anche se i delitti sono molto diminuiti.

    Tutti i giorni alle prese con faccende macabre e alquanto repellenti, come vestire una salma, spingere a forza un braccio dentro una cassa se il defunto era obeso, spiegare a una donna fresca di vedovanza che «con tutto il rispetto, signo’, la buonanima se l’è cercata, fare l’amore in quel modo, a una certa età, ti porta dritto al Creatore...»

    Però lui, «Franchino er cassamortaro», come lo chiamano a Trastevere, al secolo Franco De Gese, 71 anni ottimamente portati, il sorriso non lo perde mai.

    Elegante come un figurino, lo scambieresti per un direttore di banca o per un funzionario del vicino ministero dell’Istruzione, se non fosse che se ne sta lì da mattina a sera, impettito e di ottimo umore,in attesa di clienti davanti all’impresa funebre affacciata su piazza San Cosimato.

    Qualcuno, vedendolo, fa il gesto delle corna e si tocca, e lui non gradisce per niente... «Sì, di str... che quando passano davanti al negozio si mettono la mano in tasca ce ne sono ancora. Per fortuna sempre meno... Il nostro è un servizio serio».

    Lei iniziò quando il lavoro non mancava. 
    La «mala» qui attorno si ammazzava che era un piacere. «Alcuni erano amici veri, come Giorgio Paradisi...» Detto «Er Capece», uno dei fondatori della banda della Magliana, coinvolto nel sequestro del duca Grazioli, attivo nel settore rapine e spaccio di droga.
     
    «E che vuol dire? Uno mica lo sa, da ragazzino, come si diventa poi! Io so’ nato a Campo de’ Fiori, dove i miei c’avevano un banco, e dove negli anni ‘60 altro che Trastevere, la polizia nun entrava proprio. Sa qual era la tecnica?

    Per mandare indietro una Volante, ai Cappellari, ‘na donna stese una neonata sull’asfalto, davanti alle ruote. ‘Se avete coraggio venite avanti!’strillava».

    Paradisi, dicevamo.
    «Con me si comportava da brava persona, corretto, gentile. Gli so’ stato vicino fino all’ultimo. Il tumore lo faceva entrare e uscire dal carcere e l’unico che andava a trovarlo a Villa Tiberia ero io».

    Gente verace.
    «Un pezzo di Roma, umanità vera. Gente che sbagliava, certo. Ma quando ti chiamano per un funerale, mica chiedi la fedina penale. All’inizio facevo il commesso nei negozi, in via Giubbonari. Nel ramo entrai grazie a un cognato, unChiericoni...»

    Onorate pompe funebri.
    «Sì, quelle di una volta, Zega, Scifoni... Professionisti veri. Non come oggi, che su Internet ti rifilano bare cinesi a 100 euro, ma quando si solleva la cassa il fondo si stacca e il morto finisce sul pavimento della chiesa. È già successo tre o quattro volte...»

    Cose dell’altro mondo.
    «Appunto. Qui a Trastevere ne ho viste di tutti colori. Mi misi in proprio a inizio anni Ottanta, periodo di fuoco...»

    In tempo per seppellire Franco «er Negro», detto anche «Fornaretto» per il suo primo impiego da panettiere?

    Franco Giuseppucci, detto «er Negro»
    Franco Giuseppucci, detto «er Negro»

    Franchino l’impresario guarda 30 metri più giù, in direzione dell’edicola, all’imbocco di via Dandolo. Lo stesero a pistolettate, al volante della sua R5, davanti all’ingresso laterale del Regina Margherita.

    Che tempi... «No, fu ammazzato nel settembre 1980, poco prima. Il funerale glielo fece la ditta Olimpica. Io arrivai l’anno dopo, al posto di un negozio di fotografia. Comunque lo conoscevo bene, Giuseppucci: un signore, persona educata, bella presenza, bel sorriso. Ripeto, io parlo dell’impressione che dava all’esterno».

    Un po’ come il boss, Enrico De Pedis. Sempre acchittato, inserito in ambienti ecclesiastici, finanziari...
    «Ah, già, anche lui un signore. Mai sentito una parolaccia sulla bocca di Renatino. E chi se lo scorda il funerale? Febbraio 1990: vennero da me gli amici. ‘Franchi, nun bada’ a spese’.

    Io allora ordinai una cassa modello extralusso, stupenda. Il top: una baccellata di mogano intarsiata a mano, con le colonnine sui fianchi, le zampe di leone e il coperchio decorato a conchiglie. Un capolavoro! A San Lorenzo in Lucina, durante la messa, faceva un figurone. Vedesse quante guardie che c’erano...»

    Prima destinazione Verano, giusto?
    «Certo, uno dei riquadri a destra, dopo l’ingresso in auto. Poi, mesi dopo, non di notte, come fu insinuato, ma alla luce del giorno, in totale regolarità, fui chiamato per il trasferimento nella basilica di Sant’Apollinare. Quante str... avete scritto, voi giornalisti! Che la famiglia aveva versato tre miliardi, che io avevo preso chissà cosa...»

    Invece? 
    «Il giusto: mi pare tre milioni e mezzo di lire. Ci occupammo di tutto: estumulazione, assistenza sanitaria, decreto per l’estero e anche del rivestimento in piombo, imposto dal Vaticano.

    Infilammo la prima cassa in una più grande, pesantissima. Portarla nella cripta fu uno sforzo immane, a momenti 8 persone non bastavano».Lavoro sprecato. Nel 2012 la Santa Sede diede l’ok allo spostamento della salma, per far tacere le polemiche, e Renatino finì cremato...
     
    «Non me ne occupai io. La moglie si rivolse ad altri».

    All’epoca, durante i lavori a Sant’Apollinare, si disse che il corpo di De Pedis era integro, perfettamente conservato.
    «E lo credo. Lavoro preciso, a regola d’arte. E tenuta stagna perfetta, con la doppia cassa piombata».

    Solo delinquenti, nella sua carriera?
    «Negli anni ‘80 ci fu anche il periodo dei morti ammazzati sul Tevere, all’altezza della Magliana. Noi andavamo e ci toccava aspetta’ l’ok del magistrato, dopo l’autopsia...»

    Ma l’eterno riposo a gente perbene?
    Renato Salvatori
    Renato Salvatori

    «Ovvio, tantissimi. Quante volte so’ stato a piazza del Popolo, alla chiesa degli Artisti! Fu io ad andare a prendere a Fiumicino Gian Maria Volontè, che era morto in Grecia, e Sylva Koscina, alla Quisisana, disfatta da un tumore, poverina.

    Delle esequie di Renato Salvatori, quello di ‘Poveri ma belli’, si occupò l’ex compagna francese, fu lei a pagarmi...»

    Nostalgia del «vespillone» di una volta? Il vecchio agente della mortuaria che controllava la sepoltura e, per esser sicuro del trapasso, girava con uno spillone e dava una puncicata al piede...
    Franchino «er cassamortaro» si fa serio. «Mi stia a sentire. Al di là dei pochi imbecilli che ancora si grattano, noi facciamo un mestiere importante.Invece a Roma il settore è diventato uno schifo: da un lato c’è l’Ama, che spilla tasse a non finire.

    Duecento euro per aprire un loculo e vedere se c’è spazio per un’urna: 5 minuti di lavoro in tutto. Oltre duemila euro per aggiungere una salma in tombe già piene.

    Settecento per le cremazioni. Sembra un ministero: il sabato niente inumazioni e durante la settimana alle 16 spaccate chiudono, obbligando i familiari che arrivano anche con 5 minuti di ritardo ad attese dolorose».

    Le pompe funebri non sono più quella di una volta. Gli Zega, gli Scifoni, eccetera...
    «Purtroppo è così. Oggi a Roma operano 700 agenzie, un’enormità. Alcune si appropriano dei cognomi storici, non essendo eredi. Ci sono cause in corso.

    Altro esempio: tu chiami un ragazzo pe’ fa’ ‘na spallata, come diciamo in gergo, quello si presenta in chiesa, porta fuori la bara e dopo tre volte si monta la testa, compra una scrivania, attacca il telefono e apre un’agenzia».

    No, così non va.
    «Certo che no. Diceva Foscolo: All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne...»
    Franchino, ci risparmi «I sepolcri»!
    «La saluto. A presto. In senso buono, eh?»

    Collapse OS, il sistema operativo per ripartire dopo l’Apocalisse

    $
    0
    0
    repubblica.it
    Mariella Bussolati


    Discarica di computer in Olanda. Agf
    Il mondo sta per finire, è la minaccia ricorrente in questi giorni. E non perché verremo urtati da un asteroide che cancellerà tutto, ma perché i cambiamenti climatici che abbiamo innestato potrebbero portare a un collasso della società globale.

    Come se non bastasse l’Orologio dell’Apocalisse, una iniziativa ideata nel 1947 dagli scienziati della rivista Bulletin of the Atomic Scientists dell’Università di Chicago che misura la distanza in termini temporali da una possibile catastrofe nucleare che porrebbe fine al genere umano, è stato spostato nel gennaio scorso a due minuti dalla mezzanotte.

    Quando venne creato, durante il periodo della Guerra Fredda,  era a 7 minuti dalla mezzanotte. La massima vicinanza quella attuale di due minuti, è stata raggiunta in precedenza soltanto una volta, tra il1953 e il 1960. Tra il 1991 e il 1995, invece le lancette erano lontane 17 minuti.

    In ogni caso, dunque, pare ci aspettino tempi duri e sarebbe opportuno prepararsi fin d’ora a uno scenario post apocalittico, quello in cui le strutture che conosciamo oggi potrebbero non essere più disponibili e non sapremo più da dove partire per ricreare quello che ci serve, per esempio macchine essenziali come i computer.

    La maggior parte dei dispositivi elettronici infatti dipendono da una filiera complessa, che nel caso di destabilizzazione totale potrebbe essere difficile ricostruire per decenni.

    Nel giro di poco tempo, senza nuovi pezzi di ricambio, i computer smetterebbero di funzionare e non sarebbero facilmente riparabili.

    Partendo da queste considerazioni e dalla previsione che la catena di approvvigionamento globale collasserà entro il 2030, Virgil Dupras, uno sviluppatore di software canadese, ha ideato un sistema operativo per sopravvivere alla fine del mondo.

    Si chiama Collapse OS e sarà in grado di tenere in vita la tecnologia anche se arrivano tempi bui.Sviluppato su una piattaforma condivisa come Github e rigorosamente open source, servirà per esempio a riconfigurare l’iphone, che non potrà più servire come telefono perché le linee si sono interrotte, per farlo funzionare come terminale.

    Il nostro sistema produttivo e di comunicazione si regge proprio grazie all’elettronica di consumo. L’unica soluzione quindi sarà setacciare la spazzatura in cerca di componenti recuperabili. Non è detto che saranno tutti comodamente concentrati a Guiyu, la città cinese dove si trovano i più grandi depositi mondiali di e waste.

    Bisognerà dunque ripartire da componenti minimali e da software semplici, recuperabili ovunque.E il sistema operativo ideato da Dupras è stato messo a punto proprio in modo da poter lavorare su parti trovate per caso.

    Collapse è stato in particolare scritto per Z80, un microprocessore a 8 bit ideato nel 1976. Venne progettato dall’ingegnere informatico Federico Faggin, un italiano naturalizzato negli Stati Uniti che lavorava per Intel sul processore 8080 e che, criticando il colosso per la direzione che stava prendendo, decise di aprire una sua azienda, la Zilog.

    Decenni prima che si parlasse delle licenze open creative commons, la Zilog concesse senza royalty la proprietà intellettuale del progetto dello Z80 a qualunque società lo avesse voluto produrre in proprio.

    E anche allora, come avviene oggi, questa politica commerciale alla lunga ripagò Zilog con un ritorno di immagine, diffusione e vendite, perché permise ad una piccola società di affermarsi sul mercato mondiale.

    Uno dei fattori chiave erano i sistemi integrati nel chip che permetteva di creare  strutture più complesse con l’aggiunta di poche altre componenti. In poco tempo diventò una delle CPU ad 8 bit più popolari.

    È stato utilizzato, e lo è ancora, nei computer portatili, nei videogiochi, nelle console, nei registratori di casa, negli strumenti musicali e ha dominato il mercato dei microcomputer.

    Dupras ha dichiarato che ha scelto lo Z80  proprio perché essendo stato usato così da tanto e in così tante macchine chi si troverà a dover cercare nell’immondizia lo potrà facilmente trovare.

    Collapse Os funziona su sistemi minimali, attraverso interfacce improvvisate, permette la compilazione di file sorgente, la creazione di file di testo, supporta le schede Sd e può essere utilizzato su altre macchine con diversa progettazione.

    Serve insomma come base sulla quale costruire altre architetture.I n una situazione in cui non saremo più in grado di programmare i microcontroller, che hanno bisogno di computer complessi e che servono per permettere il dialogo con l’ambiente esterno, Z80 invece consentirà la loro riprogrammazione.

    Sarà dunque un kit di base, ma sarà importantissimo per recuperare tutto quello che abbiamo fatto prima e costruire una società, si spera diversa da quella che ha generato il collasso.
    Viewing all 15522 articles
    Browse latest View live