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L’ultimo latitante del caso Moro Il mistero dell’arresto fantasma

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Trovato dalla commissione parlamentare d’inchiesta un documento nell’archivio dei carabinieri. L’ex br Alessio Casimirri è rifugiato in Nicaragua dal 1983

Il cartellino del fotosegnalamento di Casimirri, datato 4 maggio 1982

La vita avventurosa dell’ex brigatista rosso Alessio Casimirri uno dei dieci componenti del commando che rapì Aldo Moro in via Fani, 1l 16 marzo 1978, oggi sessantaseienne cittadino nicaraguense s’è dipanata tra i giardini vaticani dove giocava da bambino, la lotta armata praticata negli anni Settanta e il rifugio centro-americano dove vive dal 1983.

Mai passato da una prigione; unico tra i sequestratori del presidente della Democrazia cristiana ad aver evitato l’arresto. Una inafferrabile «primula rossa», intorno alla quale si sono costruite ipotesi più o meno fondate, e persino leggende.

Alimentate prima dall’essere figlio e nipote di alti funzionari della Santa Sede, con tanto di prima comunione ricevuta dalle mani di Paolo VI, e poi dalle presunte protezioni garantite dal governo sandinista in Nicaragua.
Nome già noto
Oggi però, dagli archivi del Comando provinciale dei carabinieri di Roma, spunta un documento che rappresenta un mistero autentico, e ripropone gli interrogativi sull’ex terrorista ancora uccel di bosco.

È un cartellino fotodattiloscopico utilizzato per identificare le persone, saltato fuori dalle ricerche ordinate dall’ultima commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio Moro.

La data dell’avvenuto accertamento è il 4 maggio 1982, quando a carico di Casimirri pendevano due mandati di cattura per associazione sovversiva e partecipazione a banda armata, accusa debitamente annotata sul cartellino.

E alla voce «motivo del segnalamento» il compilatore tuttora anonimo (c’è una firma illeggibile) scrisse «arresto». Ufficio segnalatore: una serie di abbreviazioni che stanno a significare «Reparto operativo carabinieri Roma».

Logica vorrebbe che per Alessio Casimirri un nome all’epoca già iscritto sulla rubrica delle frontiere, come persona da fermare in caso di tentativo di espatrio quel giorno si fossero aperte le porte del carcere. Invece così non è stato.

Non risulta che l’allora militante delle Br dal nome di battaglia «Camillo» (altro particolare segnalato sul cartellino) abbia mai messo piede in una cella. Perché? Com’è possibile che un ricercato venga fermato e fotosegnalato, ma poi liberato?
Dubbi e anomalie
Dell’operazione non c’è traccia in nessun altro documento giudiziario, e alla data del 4 maggio ’82 non si hanno notizie del suo fermo né di altri terroristi. Un arresto fantasma, insomma; certificato da un documento apparentemente autentico, senza che si sia mai realmente verificato.

L’apparenza dell’autenticità deriva dal fatto che il cartellino è di quelli effettivamente in uso, nel 1982, alle forze di polizia, ma nella compilazione ci sono alcune anomalie.

La più evidente sta nella foto: non è di quelle normalmente scattate negli uffici investigativi, su tre lati (di fronte, fianco destro e fianco sinistro, accanto al misuratore di centimetri che stabilisce l’altezza) bensì è un’unica fototessera, trovata probabilmente a casa di Casimirri durante una perquisizione (senza esito, lui non c’era) effettuata durante i giorni del sequestro Moro, il 3 aprile ’78.

Perché? L’indicazione del falso nome «Camillo» è di provenienza ignota, e le dieci impronte digitali delle due mani impresse su entrambe i lati non si sa di chi siano: per procedere a un confronto la commissione Moro ha chiesto alle autorità nicaraguensi, tramite canali diplomatici, il recupero di quelle autentiche, ma la risposta (chissà quanto credibile) è che non le hanno.

Nello spazio riservato alla firma della persona segnalata, il carabiniere compilatore scrisse «si rifiuta», e dunque non c’è nemmeno la possibilità di perizie calligrafiche.
La lettera di Fioroni
Tutto questo alimenta il mistero: si trattò di un’operazione interrotta (dopo il fermo qualcuno intervenne per lasciare andare Casimirri), di cui qualche zelante militare volle comunque dare atto lasciando una traccia rimasta sepolta in un archivio per 35 anni?

Oppure è un falso costruito apposta? Ma da chi, quando e con quali finalità?

Sono domande che autorizzano a riproporre i molti enigmi maturati intorno all’ultimo latitante del «caso Moro»; compreso quello, rimasto senza riscontri, a cui accennò l’ex pubblico ministero Antonio Marini alla commissione stragi nel 1995, quando riferì la

voce secondo cui l’ex br sarebbe stato un
informatore di un ex capitano dei carabinieri (poi identificato nel generale Antonio Delfino, morto nel 2014) che l’avrebbe passato al Sismi, il servizio segreto militare.

Teorie mai verificate, che tornano d’attualità con la prova dell’arresto fantasma.

Per adesso il presidente della commissione Moro, Giuseppe Fioroni, si è limitato a scrivere una lettera al presidente del Consiglio Gentiloni, e ai ministri Alfano, Minniti e Orlando, per sottoporre nuovamente al governo la necessità di «promuovere l’estradizione del latitante Alessio Casimirri».

Fioroni ricostruisce la sua carriera di estremista e brigatista, avanza «ampi dubbi sulle protezioni di cui egli poté eventualmente godere», e cita il mistero del fermo per sostenere che «poté sottrarsi alla giustizia grazie al concorso di una rete di complicità che la Commissione sta cercando di ricostruire».

Sentenza Cucchi, fu omicidio: 12 anni ai carabinieri che lo picchiarono

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di Ilaria Sacchettoni e Redazione Roma

D’Alessandro e Di Bernardo colpevoli di omicidio preterintenzionale, la Procura aveva chiesto 18 anni. Tre anni al maresciallo Mandolini che coprì il pestaggio, due e sei mesi a Tedesco che li denunciò in aula

Sentenza Cucchi, fu omicidio: 12 anni ai carabinieri che lo picchiarono
Ilaria Cucchi in aula (foto Ansa)

Stefano Cucchi fu picchiato in caserma e morì per le ferite riportate. È la decisione dei giudici della Corte d’Assise che condanna i carabinieri responsabili del pestaggio.

Dodici anni di reclusione a di Bernardo e D’alessandro per omicidio preterintenzionale, il maresciallo, loro superiore, Mandolini condannato a 3 anni e otto mesi per falso, Tedesco a due anni e sei mesi.
La sentenza sui medici
Nelle stesse ore sentenza d’appello ter, prescrizione per quattro medici e uno assolto. È quanto deciso dai giudici della Corte d’Assise di Appello di Roma per cinque medici dell’ospedale Sandro Pertini coinvolti nella vicenda di Stefano Cucchi.

Ad essere assolta la dottoressa Stefania Corbi.Commenta l’avvocato della professionista, Giovanni Luigi Guazzotti: «I giudici hanno ritenuto più evidente la totale estraneità della mia assistita
alle accuse».

Accuse prescritte per il primario del reparto di Medicina protetta dell’ospedale dove fu ricoverato il geometra romano, Aldo Fierro, e altri tre medici Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo.

Per la Corbi la formula di assoluzione è «per non commesso il fatto». Per tutti il reato contestato è di omicidio colposo.
Ilaria: «Ora Stefano può riposare in pace»
A caldo il commento della sorella di Stefano Cucchi, Ilaria: «Oggi ho mantenuto la promessa fatta a Stefano dieci anni fa quando l’ho visto morto sul tavolo dell’obitorio. A mio fratello dissi: “Stefano ti giuro che non finisce qua”.

Abbiamo affrontato tanti momenti difficili, siamo caduti e ci siamo rialzati, ma oggi giustizia è stata fatta e Stefano, forse, potrà riposare in pace».
«Questa sentenza parla chiaro a tutti.

Non vogliamo un colpevole, ma i colpevoli e finalmente dopo 10 anni di processi li abbiamo» ha detto Giovanni, padre di Stefano, dopo la sentenza di primo grado nel processo bis per la morte del figlio.

E ad Ilaria si è avvicinato un carabiniere, omaggiandola con un baciamano: «Finalmente dopo dieci anni è stata fatta giustizia» ha detto il militare dell’Arma motivando il suo gesto.
Alessandro Borghi, Stefano nel film del 2018: «A Stefano. Sempre»
Fra i primi a intervenire dopo la sentenza l’attore Alessandro Borghi, che ha affidato il suo pensiero ad un brevissimo tweet:

«A Stefano. Sempre». Presentato alla 75esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il film «Sulla mia pelle», diretto da Alessio Cremonini, è stato da lui interpretato in maniera convincente e straziante.

Dedicato agli ultimi giorni di vita di Stefano, è stato definito dall’interprete «un regalo fatto a me stesso».
Gli avvocati di Tedesco: «Realizzate le aspettative di legalità»
«Siamo soddisfatti sia per l’assoluzione dall’omicidio che per la calunnia che è stata riqualificata.

La corte gli ha creduto: è stato un percorso partito con aspettative di legalità e finito con la realizzazione di queste aspettative»: è il commento alla sentenza degli avvocati di Francesco Tedesco, Eugenio Pini e Francesco Petrelli.
I verbali falsificati
Stando all’accusa del pm Giovanni Musarò, che ha sollecitato per i due imputati una condanna a 18 anni di carcere, D’Alessandro e Di Bernardo sarebbero stati responsabili di tumefazioni al viso, ecchimosi del cuoio capelluto e delle palpebre, fratture delle vertebre e infiltrazioni emorragiche in varie parti del corpo.

L’indagine delegata alla Squadra Mobile di Roma ha ricostruito che le lesioni inferte a Cucchi determinarono una sorta di piano inclinato che condusse alla sua morte. C’è poi la posizione di Francesco Tedesco.

Nei suoi confronti l’accusa aveva chiesto l’assoluzione per le percosse (il militare che aveva confermato il pestaggio ad opera dei suoi due colleghi, non vi aveva preso parte e anzi, aveva cercato di fermarlo) ma la sua condanna per aver falsificato il verbale d’arresto di Cucchi.

Infine per Roberto Mandolini erano stati chiesti otto anni sempre per reato di falso, collegato al verbale d’arresto che fra le altre cose attestava un fotosegnalamento mai avvenuto.

Il tragicomico caso della Biga di Morgantina, ovvero come l’Italia non sa né valorizzare né riconoscere il proprio patrimonio culturale

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Federico Del Prete


La Biga di Morgantina. Carabinieri
  • I Carabinieri e la Procura di Catania hanno annunciato il ritrovamento di un bene culturale scomparso nel 2017: la cosiddetta Biga di Morgantina.
  • Il rocambolesco quanto misterioso furto del gruppo bronzeo aveva sollevato sdegno e polemiche per l’ennesimo attentato al fragile patrimonio artistico italiano.
  • Nonostante la maggior parte dei media italiani consideri la biga un originale del V Secolo, uno studio ha chiarito come si tratti di un’opera contemporanea di scarso valore.
  • Il gruppo criminale responsabile del trafugamento la stava per rivendere in Germania per un valore di un milione e mezzo di euro.
Grazie al silenzioso ma sempre efficace lavoro del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, è  stata appena ritrovata la cosiddetta Biga di Morgantina, trafugata nel giugno del 2017.

La stampa italiana, dal Sole 24 Ore al Manifesto, ha senza eccezioni salutato con grande rilievo il ritrovamento di un antico reperto archeologico, nel corso di un’operazione che ha oltretutto permesso di assicurare alla legge “un gruppo criminale a elevata pericolosità sociale”, come si legge nella nota informativa della Procura di Catania.

Sembra però essere soprattutto quest’ultimo aspetto e non è poco, comunque l’unico che di tutta la vicenda possa confortare. Per il resto, ci troviamo di fronte a uno stravagante a tratti imbarazzante caso di suggestione collettiva, che misura lo stato di consapevolezza del sempre più misconosciuto e indifeso patrimonio culturale del nostro paese.

Ma cos’è la Biga di Morgantina?
Si tratta di un complesso scultoreo in bronzo, lungo circa tre metri, che raffigura una biga (un carro leggero per una sola persona, diffuso nell’antichità) con aggiogati due cavalli lanciati al galoppo.

È certamente una scultura imponente, di un genere ampiamente ripreso anche in età contemporanea (in quanto quadrighe, ce n’è ad esempio sul Vittoriano di Roma e sull’Arco della Pace, a Milano, o anche sulla Porta di Brandeburgo di Berlino). Del trafugamento ha riferito anche il popolare programma Rai dedicato alle sparizioni, Chi l’ha visto.

Anche grazie a questo formidabile strumento di divulgazione, si è diffusa l’opinione che la Biga di Morgantina fosse un originale antico, risalente al 450 a.C..

I responsabili di questo incredibile travisamento sono alcuni studiosi dilettanti locali, che hanno avuto modo di consolidare la congettura di un’origine archeologica dell’opera, mai confermata né apertamente smentita dalle autorità scientifiche e amministrative dello stato, ma subito accolta nel sentimento popolare.

Secondo quanto è stato ripreso dai siti web dei più importanti quotidiani italiani, la biga di Morgantina sarebbe opera di “Glaucas” forse il Glaucias oscuro scultore del V° Sec. a.C. di Egina, noto solo dalle fonti per essere poi donata a Gerone II tiranno di Morgantina (III° Sec. a.C.).

La biga prende infatti il nome dal sito archeologico corrispondente con l’attuale città di Aidone, in provincia di Enna, dove la biga sarebbe stata rinvenuta alla fine dell’Ottocento. A guardare la biga, chiunque abbia studiato un po’ di storia dell’arte si farebbe però venire subito il dubbio della sua antichità: ancora più dubbia appare la ricostruzione del suo percorso antiquario.

Guardando agli esempi di cui disponiamo in merito alla rappresentazione equestre in età antica, vengono subito alla mente i quattro Cavalli di San Marco a Venezia, di epoca romana, provenienti da Costantinopoli; la celeberrima statua equestre di Marco Aurelio a Roma; o l’incredibile questo sì gruppo bronzeo di Cartoceto di Pergola, rinvenuto in frammenti in provincia di Pesaro e Urbino nel 1946.

Sono tutte opere molto più tarde della datazione proposta per la biga, che indicano come lo stile antico sia differente da quello della biga: gli originali bronzei risalenti al V Secolo si contano oltretutto sulle punte delle dita, e un ritrovamento di questo tipo non sarebbe certo passato inosservato, almeno per le dimensioni, per il suo stato di integrità e la perfetta conservazione. 

La biga di Morgantina ritrovata dai Carabinieri sembra infatti nuova di pacca. Morgantina è un sito archeologico sistematicamente indagato solo a partire dal 1955, che alla fine dell’Ottocento aveva ufficialmente restituito solo pochi reperti numismatici.

Esiste traccia di attività di scavi clandestini, ma è comunque difficile immaginare come dal V al I Secolo a.C., data del suo abbandono, un reperto così imponente e importante non sia stato magari citato nelle fonti, “salvato” per essere spostato altrove, distrutto per ricavarne il prezioso metallo, o al limite ridotto in frammenti dal tempo e dall’incuria e così ritrovato negli scavi.

Non si capisce invece come, né quando né perché, invece di prendere ad esempio il volo nel mercato antiquario clandestino, ricomparendo in qualche museo straniero, come sarebbe naturale per un’opera di quel livello, la biga sia “atterrata”

indenne sul tetto di una cappella funeraria costruita a fine Ottocento nel cimitero di Catania, quella della famiglia Capitano, noto trafficante d’arte che aveva fatto la sua fortuna proprio a Morgantina.

La cappella Capitano, poi Sollima, è un sontuoso pastiche di stili e opere d’arte tipico dell’arte funeraria di quel periodo, divenuta terreno di caccia per furti di ogni tipo almeno dagli anni Ottanta del Novecento.

Come ha dichiarato a Chi l’ha visto una discendente della famiglia, oltre alla biga è nel tempo sparito anche il suo auriga; poi due leoni di marmo; ancora, due sfingi e infine alcune sculture perimetrali.

L’unica cosa che si può pensare è che, suggestionati dall’attività archeologica fraudolenta del primo proprietario della cappella, i meno eruditi in discipline archeologiche avessero immaginato che il gruppo sulla sommità fosse antico.

I dilettanti catanesi che hanno seguito la vicenda della biga e della cappella hanno soffiato sul fuoco delle congetture, iniziando a sollecitare fin dal 2002 indagini sui bronzi per il riconoscimento del “capolavoro”.

È probabilmente in questo momento che deve essersi accesa l’ingenua cupidigia del gruppo criminale, composto da diciassette persone, che ha poi messo in atto il trafugamento.

Secondo gli studiosi locali la biga catanese avrebbe addirittura offerto lo spunto per quella custodita nei Musei Vaticani di Roma, a sua volta un pastiche realizzato alla fine del Settecento assemblando e ricostruendo lacerti marmorei di età classica, secondo il gusto dell’epoca.

Il cavallo di sinistra, per capire meglio, fu interamente realizzato nel Settecento, mentre quello di destra conserva solo il tronco di una scultura antica. Lo stile della biga vaticana è quindi in tutto e per tutto moderno.

La realtà, chiunque potrebbe immaginarlo, è esattamente all’opposto di quanto affermato dagli studiosi locali: la biga del cimitero di Catania è infatti opera una fonderia napoletana, Chiurazzi, che

aveva nel suo ricco catalogo di copie anche la riproduzione dell’“originale” le virgolette sono d’obbligo vaticano, molto celebrato tra i nobili turisti che visitavano Roma nei secoli passati.

La cosiddetta biga di Morgantina è quindi di un’opera d’arte senza importanza archeologica o antiquaria, da inquadrare semmai nell’ambito della fortuna del classico, o meglio del neoclassico, nella più recente produzione artistica, e nulla più.

Chiurazzi era rinomato per la qualità delle sue copie di originali scultorei classici, ed ebbe un grande successo in Europa e perfino negli Stati Uniti, dove un altro esemplare della biga catanese fa infatti bella mostra di sé nel giardino del John e Mable Ringling Museum di Sarasota, in Florida.

La verità sulla biga di Morgantina era emersa fino dal 2018, quando una criminologa ed esperta di beni culturali italiana, Antonella Privitera, aveva ricostruito la storia in una tesi di master in archeologia giudiziaria e crimini contro il patrimonio culturale.

Diffusa anche da una rivista di settore, la ricerca di Privitera non aveva però scalfito la favola ormai consolidata sulla biga, accolta a scatola chiusa sui principali canali di informazione senza il beneficio di inventario.

Nelle ore successive alla notizia del ritrovamento un sito web specialistico ha provato a rimettere in ordine i fatti, ma le notizie dei quotidiani avevano ormai attribuito la biga al patrimonio archeologico italiano, e al V Secolo a.C.

Le cronache dei beni culturali italiani devono spesso registrare spesso questo genere di travisamenti o precipitose conclusioni su contesti dubbi, anche da parte di illustri specialisti, come nel caso della celeberrima farsa delle sculture di Modigliani “ritrovate” a Livorno, o della virulenta querelle sul chiacchierato Papiro di Artemidoro, per fare solo due esempi.

Quando non sono traveggole, sono furti: lo stesso sito di Morgantina è esemplare di almeno due altri celebri casi a danno del patrimonio culturale italiano, quello della Dea di Morgantina e quello del Tesoro di Morgantina.


La Dea di Morgantina. Wikipedia
La Deaè una statua, questa sì deli V Secolo a.C., trafugata clandestinamente in Sicilia e comparsa nel 1988 nel Paul Getty Museum di Malibu in California, che l’aveva acquistata a un’asta londinese per 28 miliardi di lire.

Ironia della sorte, nel corso del Novecento il Getty acquistò per le sue collezioni diverse riproduzioni della fonderia Chiurazzi, oltre a non esitare ad acquisire originali di dubbia provenienza.

Il magnifico Tesoro rinvenuto nel 1998, questo sì attinente a Gerone II,  fu invece restituito all’Italia dal Metropolitan Museum di New York nel 2010, ma va e viene dal Met ogni quattro anni.

Ancora la Sicilia è stata il teatro di quello che è forse l’episodio più grave di questo genere, la sparizione della Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi (1600) di Caravaggio, trafugata dalla mafia nel 1968 dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo e molto probabilmente finita in pasto a topi e maiali anziché al mercato clandestino.

Cosa ci insegna la vicenda della Biga di Morgantina, al tempo stesso buffa e imbarazzante? Prima di tutto, che il vero attentato è stato commesso molto tempo prima e più in generale a danno dei nostri beni culturali, grazie a decenni di tagli all’istruzione alla conservazione.

Pochi sono in grado non tanto di riconoscere un manufatto ottocentesco da uno classico o neoclassico, ma prima di tutto di farsi sfiorare dal dubbio che una cosa come la Biga di Morgantina sia davvero quello che si racconta, e darsi quindi da fare per ciò che oggi si chiama fact checkin.

L’assenza di dubbi può alimentare equivoci, diffondere ignoranza e incoraggiare i criminali. Stavolta si è trattato di un pezzo relativamente poco pregiato e importante, ma cosa potrebbe succedere credendo o facendo credere il contrario di un altro bene più significativo e altrettanto indifeso?

Il pastore di Bereguardo-Zelata ha due figli e quattro nipoti: «Ordinato da vedovo, mi sento ancora sposato»

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di Stefano Lorenzetto

Angelo Curti è stato sindaco e adesso è parroco: la mia vita di marito, di padre e di prete

Il pastore di Bereguardo-Zelata ha due figli e quattro nipoti: «Ordinato da vedovo, mi sento ancora sposato»

Se a celebrare la messa delle 8.30 è un ex sindaco, appare logico che ad aprire e chiudere le porte dell’oratorio di San Zeno sia un altro ex sindaco. Don Angelo Curti è stato primo cittadino di Giussago dal 1996 al 2000, «con il Ppi, mi pare, o si chiamava ancora Dc?».

Il sacrista Pierluigi Valli, democristiano anche lui, ha ricoperto lo stesso incarico per due mandati a Bereguardo negli anni Novanta.

Siamo nel Pavese e qui, dove i ruoli di don Camillo e Peppone sono fusi in un’unica persona, il prete non vuole essere chiamato parroco («di Bereguardo e Zelata sono solo l’amministratore parrocchiale:

significa che posso dimettermi in qualsiasi momento ma non avevo l’obbligo di farlo a 75 anni, compiuti a marzo, ergo resterò fino a che lo vorrà il buon Dio») e il sagrestano ci tiene a non esser scambiato per un chierichetto.

È un sacerdote speciale, don Angelo, e non certo perché prima della talare ha indossato la fascia tricolore ed è andato in pensione nel 1994 come responsabile di Aem (oggi A2A) per l’ammodernamento della rete elettrica di Milano.

Semmai lo è per altri motivi: ha avuto una moglie per 37 anni e ha procreato due figli, che lo hanno reso nonno di quattro nipoti. «La contessa Giulia Maria Mozzoni Crespi mi chiama “il prete vedovo”», sorride.

La promotrice del Fondo ambiente italiano, ex proprietaria del «Corriere della Sera», è una sua parrocchiana?

«Sì. Siamo stati un intero pomeriggio a parlare di tutto, seduti nell’erba della sua tenuta agricola. A 96 anni ha ancora tanta voglia di vivere e di fare».

«Di tutto» significa anche di Dio?
«Gesù Cristo le va bene, la Chiesa un po’ meno. A volte viene a messa alla Zelata, senza farsi vedere. Sta in disparte».

Come si chiamava sua moglie?
«Gabriella Palladini. Ci sposammo nel 1971. Io avevo 27 anni, lei 25. Il fratello, padre Enzo, ordinato prete nel 1974, missionario in Giappone, annegò nel lago Biwa, vicino a Kyoto, durante una gita.

Era alto un metro e 90, ci fu restituito in un’urna di pochi centimetri. Sua madre Caterina non voleva crederci: “Non è lui, tornerà”. Lo aspettò fino all’ultimo respiro. È sepolto nel paese dove sono nato. Mi pare quasi d’aver preso il suo posto».

Come conobbe Gabriella?
«Si trasferì nel mio paese quando aveva 18 anni, proveniente dalla Lomellina. Frequentavamo lo stesso gruppo parrocchiale. A quel tempo non volevo saperne di legami stabili. Ero un tipo vivace».

La sua vivacità come si estrinsecava?
«Simpatie femminili. Ne ho avuta più d’una. Finita la naia nella cavalleria corazzata, ho capito che era la donna giusta per me. Nel 1968 ci fidanzammo ufficialmente. Lavorava a Milano, in un negozio di ricambi per auto. Poi, nel 1970, fu assunta in Montedison».

Quando si ammalò?
«Nel dicembre 2007. Avvertì forti dolori a una gamba. La diagnosi fu terribile: sarcoma di Ewing. Negli adulti è un tumore raro, aggredisce le ossa lunghe. Fingeva di non soffrire. Fu un calvario.

In quell’anno, trascorso sperando nella guarigione, posso dire che diventammo una sola carne, come dice il Vangelo. Le chemioterapie si rivelarono inutili, ma io la incoraggiavo: “Se resterai in carrozzella, ti porterò al mare. La vita è bella anche così”. E lei l’aveva accettata».

Invece sopraggiunse la morte.
«Il 9 dicembre 2008, festa di san Siro. Aveva intorno tutta la famiglia. Sapeva di essere alla fine, ma era lei a confortare noi. Se n’è andata come un passerotto».

Suppongo che non parlaste mai della decisione di farsi prete.
«È così. Sarebbe equivalso a dirle che stavo per rimanere vedovo. Ma due giorni prima del decesso accadde un fatto inspiegabile. Mentre ero seduto in corridoio, assorto nei miei cupi pensieri, comparve una signora in camice bianco.

Mi chiese: “Lei è il marito? Posso entrare?”. Feci un cenno di assenso. S’intrattenne per alcuni minuti al capezzale di Gabriella. All’uscita mi disse: “Non si preoccupi. Vedrà che non soffrirà. Il Signore vi aiuterà. Lei starà bene”.

Frastornato, pensai: ma che cosa sta farneticando questa qui? Cercai di capire chi fosse, però alla clinica Humanitas nessuno la conosceva, tanto che conclusi: be’, esistono anche gli angeli. A due mesi dal decesso, mentre ero a casa di mia figlia sul Gran Paradiso, squillò il cellulare: era lei.

Un’avvocata penalista con studio in piazzale Loreto a Milano, una volontaria. Le chiesi: perché infilò solo la porta della camera 4, dove c’era mia moglie? Mi rispose: “Sentivo di dover entrare lì”».

Che cosa le fa credere che esistano gli angeli?
«Sono nato in una famiglia religiosissima. La prima catechista è stata mia madre. È ancora viva, ha 97 anni. Io ne avevo 3 quando m’insegnò la preghiera che ancora oggi recito ogni sera prima di addormentarmi:

“Gesù, Giuseppe e Maria vi dono il cuore e l’anima mia”. Da lei e da papà, un contadino, ho imparato anche l’amore per i poveri. Da bambino chiedevo alla mamma, piangendo: ce l’hai il pane da dare ai viandanti senza cibo? Se passavano in mia assenza, li rincorrevo per portarglielo».

La politica fu il suo modo per continuare ad aiutarli.
«Non diceva Paolo VI che è la più alta forma di carità? Ma diventai sindaco solo per sostituire Paolo Ferrari, morto d’infarto a 48 anni durante il cenone di san Silvestro del 1995. Ero il suo vice».

E l’altra vocazione come maturò?
«Morta mia moglie, mi dedicai all’assistenza degli anziani: visite nei ricoveri, lavori domestici, disbrigo di pratiche burocratiche. Ma di notte non riuscivo a dormire. Pregavo il Signore: che cosa vuoi da me?, dimmelo e io lo faccio.

Ne parlai con mio fratello prete, don Armando, parroco a Binasco, che m’indirizzò all’Istituto superiore di scienze religiose. Decisivo fu l’incontro con l’allora vescovo di Pavia, Giovanni Giudici, già segretario del cardinale Carlo Maria Martini. Fu lui a ordinarmi prete, il 14 giugno 2014».

I suoi figli come la presero?
«Aspettai da settembre a Natale prima di dirglielo.

Gli facevo credere che andavo in seminario per cultura personale. La sera tornavo a dormire a casa per non insospettirli. Ora sono tutti felici. Le nipoti mi mandano sms: “Oggi ho il compito di matematica. Prega per me, nonno don Angelo”.

Io rispondo: studia e prega, anzi prima prega e poi studia».

E per lei fu dura tornare sui libri?
«Mi andò bene: per la laurea in Scienze religiose all’epoca bastavano tre anni di teologia, oggi sono cinque. Diedi 34 esami. Più la tesi».

Che cosa ricorda dell’ordinazione?
«Un’emozione fortissima. Il mio paese natale, Turago Bordone, una frazione di appena 600 abitanti, stava dando alla Chiesa il quinto sacerdote dal 1980. Un lembo di terra benedetto da Dio».

Se non avesse due figli e quattro nipoti, si sentirebbe meno completo?
«Meno felice. Non pensavo che fosse così bello fare il prete. Sei in relazione continua con la gente. Durante la confessione, che io chiamo riconciliazione, colgo al volo i dilemmi del penitente. Problemi dei figli? Li conosco. Problemi di morose? Li conosco. Problemi di lavoro? Li conosco.

Problemi politici? Li conosco. L’essere stato sposato crea occasioni di dialogo. Sono finito al pronto soccorso. L’infermiera: “Reverendo,l’accompagnatrice non può entrare”. E io: è mia figlia. “Ma come?”. Poi le spiego».

È stato male?
«Uno dei tanti accidenti dell’età. Ero prete solo da sei mesi quando, senza infarto, mi applicarono cinque bypass al cuore. In rianimazione supplicavo Dio: “Mi hai appena chiamato al sacerdozio e già mi vuoi portare lì? Avrei così tante cose da fare...”.

Al risveglio credevo che fossero trascorsi cinque minuti. La dottoressa rideva: “L’è cinq dì ch’al parla al Signùr!”. Vede? Mi ha lasciato qui».

Il celibato sacerdotale va mantenuto?
«Sono in difficoltà a rispondere. Di sicuro un prete ammogliato sarebbe meno libero. Guardi la mia agenda di questa settimana». (Mi mostra un calendario da tavolo zeppo di annotazioni).

Gli scandali sessuali nella Chiesa diminuirebbero se i preti si sposassero?
(Sospiro). «Non credo. Pensi al numero dei pedofili coniugati. Un’infinità».

Ci sono preti cattolici di rito orientale ordinati dopo le nozze. L’arcivescovo Cyril Vasil’, segretario della Congregazione per le Chiese orientali, è figlio di un sacerdote. Una disparità di condizione incomprensibile, non crede?
«Le Chiese sono fatte così: di uomini».
Per non parlare di papa Silverio, figlio di papa Ormisda. Entrambi santi. «Lo stesso san Pietro, primo pontefice, era sposato. Solo il concilio Lateranense II del 1139 dichiarò invalido il matrimonio di presbiteri e religiosi».

Crede che questa norma decadrà?
«Penso di sì».

Dai suoi tempi è cambiata la gerarchia dei peccati e delle relative penitenze?
«Le pongo io una domanda: calpestare intenzionalmente le formiche è peccato? Un mio collaboratore le spostava con la paletta per paura che le schiacciassi quando entravo in cortile con l’auto. Di recente si è suicidato. Salvi le formiche e uccidi te stesso? Ogni uomo è un mistero insondabile. Possiamo solo pregare».

Per padre Arturo Sosa Abascal, preposito generale della Compagnia di Gesù, il diavolo «non è una persona». Il gesuita papa Francesco scrive: «“Il Maligno” indica un essere personale che ci tormenta. Non pensiamo che sia un mito».

«E neppure un simbolo. Per scacciare Satana e far entrare nel tuo cuore un pezzetto di Dio, devi togliere un po’ di Io».

Si sente ancora sposato con Gabriella?
«Ah sì, tant’è che porto la fede nuziale al dito. È come se fosse qui in questo istante. Chiudo gli occhi e la vedo».

Torre di Pisa: il piano di salvezza fu ispirato da bimba del Bangladesh

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di Marco Gasperetti
Torre di Pisa: il piano di salvezza fu ispirato da bimba del Bangladesh
PISA – Nell’anno più nero della Torre di Pisa, con la pendenza arrivata a livelli mai raggiunti prima e con il rischio molto serio di un crollo, anche il disegno di una bambina di 9 anni contribuì in qualche modo a restituire al monumento salute e sicurezza.

La bambina si chiamava Chumki Baban, era nata in Bangladesh e inviò in Italia un disegno idea nel quale immaginava di salvare il campanile più famoso del mondo scavando sotto le sue fondamenta sul prato di Piazza dei Miracoli.

Più o meno quello che poi fecero, con le dovute differenze tecnico-scientifiche, gli scienziati del comitato, presieduto dal professor Michele Jamiolkowski, che iniziarono i lavori.
Storia confermata
La storia, che molti consideravano una leggenda, già si conosceva. Ma non era mai stata raccontata prima d’ora in un consesso scientifico.

È accaduto, come ha riportato Il Tirreno, durante la prima giornata del convegno Cattedrali europee organizzato dall’Opera della Primaziale, l’organismo che sovrintende i monumenti di piazza dei Miracoli a Pisa.

«Era un periodo nel quale all’Opera arrivavano centinaia di progetti», ricorda l’ingegnere Giuseppe Bentivoglio, già direttore tecnico dell’Opera del Duomo, «e ci sorprese che una bambina avesse intuito quello che poi avrebbe rappresentato, se pur in modo elementare, il progetto di recupero della Torre».
La decisione
Qualcuno raccontò persino che il disegno convinse il team a fare la scelta coraggiosa di avviare gli scavi, anche se quasi certamente la decisione era già stata presa.

Decisione decisiva perché proprio durante il convegno è stato annunciato che la Torre pende meno e ha recuperato in vent’anni quattro centimetri. Che in altre parole vuol dire un altro po’ di secoli di salute per il magico campanile di Piazza dei Miracoli.

Il significato nascosto di 20 simboli che usiamo tutti i giorni

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di Diana Cavalcoli

Tra cartelli, icone e immagini di ogni tipo i nostri occhi incontrano centinaia di simboli al giorno. Ma sappiamo veramente qual è la loro origine e i loro significato a volte nascosto? Ecco in rassegna i 20 simboli più comuni e utilizzati dalle persone nel mondo

Lo smile

Stiamo parlando di uno dei simboli più diffusi a livello mondiale. Introdotto negli anni Settanta in ambito elettronico, lo Smile è un’immagine stilizzata di un volto sorridente.

È composto da un cerchio giallo con due puntini che rappresentano gli occhi mentre un semicerchio indica la bocca. Il simbolo è attribuito all’artista americano Harvey Ball, che inventò la faccina sorridente nel 1963 per una compagnia di assicurazioni di Worcester.

Si dice che in circa dieci minuti Harvey Bell abbia abbozzato il volto sorridente che doveva poi essere stampato su alcuni poster da appendere negli uffici. L’idea era sollevare il morale dei dipendenti dell'azienda durante gli appuntamenti con i clienti.

Negli anni a seguire Ball non ha mai registrato il marchio e anche per questo lo smile si è diffuse negli Stati Uniti in maniera capillare. Il disegnatore non ha quindi tratto alcun profitto per l'immagine iconica, creata per un prezzo iniziale di 45 dollari.



La chiocciola @
Oggi è comunemente usata negli indirizzi email di miliardi di persone. Nell’antica Grecia, la @ però indicava la parola «anfora» nel suo valore specifico di unità di misura, di capacità e di peso. Si diffuse poi con lo stesso significato nel VI secolo dopo Cristo tra i mercanti veneziani e cominciò a essere usata nella contabilità per indicare «al tasso di».

Venne così inserita nella tastiera di una delle prime macchine da scrivere nel 1884. La consacrazione si ebbe però cent'anni dopo nel 1972 quando l’ingegnere e programmatore americano Ray Tomlinson la scelse per il significato di «presso», in inglese at, per indicare gli indirizzi di posta elettronica di Arpanet, la rete da cui è nata Internet.

È quindi conosciuta in inglese col nome at, mentre in francese come «arobase» e in spagnolo come «arroba».


Il simbolo maschile
Noto anche come il simbolo astronomico che indica il pianeta Marte, l’emblema è composto da un cerchio e da una freccia obliqua che punta verso Nord Est.

L’immagine richiama le divinità dell’antica religione greca (Ares) e romana (Marte) a cui i pianeti vennero associati prima della nascita di Cristo.Secondo il sito della NASA infatti il simbolo è costituito da due elementi: il cerchio rappresenterebbe lo scudo mentre la freccia la lancia del dio.

Gli astronomi della Mesopotamia in particolare furono i primi ad associare il pianeta Marte al dio del fuoco e della guerra, probabilmente per via della colorazione rossa del pianeta.

In seguito l’accostamento è stato tramandato nei secoli fino all’epoca rinascimentale, periodo in cui il simbolo è stato usato per evidenziare il genere. In chimica l'immagine è invece usata per indicare il ferro.



Il simbolo femminile
Utilizzato fin dall’antichità dagli astronomi per indicare il pianeta Venere è oggi usato per rappresentare la femminilità in senso lato. Il simbolo è una rappresentazione dello specchio della divinità greca dell’amore, della bellezza e della fecondità.

L’immagine deriverebbe dalla stilizzazione dello specchio della dea (il cerchio) e del manico (la croce ribaltata). Il cerchio richiama inoltre al ciclo infinito del giorno. Venere veniva vista dai Sumeri come la stella del mattino e della sera: era il primo astro che compariva al sorgere del sole e l'ultimo a restar visibile al tramonto.

È interessante notare che il simbolo di Venere è anche un simbolo alchemico che rappresenta il rame, materiale con cui venivano forgiati gli specchi nell’antica greca. Inoltre Cipro, isola da cui secondo la leggenda sarebbe nata Venere, era in passato un grande esportatore di rame.


L'infinito
ll simbolo a otto «sdraiato» è utilizzato oggi per indicare l’infinito in ambito matematico. La figura appare per la prima volta sulla croce di San Bonifacio, avvolta attorno alle braccia di una croce latina. La paternità scientifica è però attribuita al matematico inglese John Wallis che introdusse il simbolo dell’infinito nel 1655, nel suo «De sectionibus conicis».

Lo studioso non motivò la scelta ma è stato ipotizzato che derivasse dalla consuetudine romana nello scrivere mille in questo modo: CIƆ o anche CƆ. Il simbolo  veniva spesso utilizzato per indicare enormi quantità.

Nel misticismo moderno l'immagine è stata utilizzata come variante dell’Uroboro ovvero il serpente che si mangia la coda, emblema della ciclicità della vita. In geometria esiste anche un termine per definire il simbolo: la parola «lemniscàta» si riferisce a ogni curva a forma di otto rovesciato.




L'Ok (a gesti)
I gesti delle mani hanno significati diversi in base alle differenti culture. Negli Stati Uniti e in gran parte d'Europa il gesto dell'Ok è usato per indicare approvazione. In altre culture è invece visto come osceno.

In Brasile e Russia ad esempio è giudicato un insulto mentre in Francia indica qualcuno che vale «zero». Il termine «Ok» invece si è diffuso in Italia a partire dal 1943, anno in cui le truppe statunitensi sbarcarono in Sicilia e iniziarono a risalire verso il Nord  Italia.

La popolarità del termine crebbe poi negli anni Settanta con il diffondersi delle radio private e a opera di alcuni Dj che abituati ad ascoltare canzoni inglesi adottarono questa locuzione.

Una curiosità: nel satanismo le tre dita erette a ventaglio simboleggiano la trinità profana dio, dea e l'anticristo. Alcuni studiosi sostengono che le dita collegate al cerchio composto da indice e pollice raffigurerebbero per tre volte il numero del diavolo, il sei.



Le dita a V
In inglese «V-Sign», è un gesto in cui si alzano l'indice e il medio in modo da formare l'omonima lettera con le dita.

Alcuni storici ritengono che il gesto derivi dal fatto che i francesi avessero l'abitudine di tagliare ai prigionieri inglesi le dita usate per tirare con l’arco. In epoca contemporanea il gesto è stato reso celebre dal tennista e ministro belga Victor de Laveleye.

Venne utilizzato in segno di vittoria dopo la campagna politica della seconda guerra mondiale. In seguito è stato usato da altri politici, come Winston Churchill o Richard Nixon. Il simbolo in genere indica la vittoria ma se si rivolge il dorso della mano verso una persona simboleggia un insulto.

Una volgarità in Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica, Irlanda e Regno Unito. Il suo significato letterale è «vai al diavolo». Il V-Sign può anche significare pace e amore. Era usato ad esempio nelle manifestazioni dei movimenti pacifisti degli anni Sessanta per celebrare la non violenza.

Nel saluto scout dei Lupetti invece le due dita tese simboleggiano gli impegni presi e le orecchie del lupetto.
Il «v-sign» di Winston Churchill
Il «v-sign» di Winston Churchill


Il simbolo della pace
Il simbolo della pace fu creato dal disegnatore e pacifista Gerald Holtom nel 1958 e raggiunse la massima diffusione tra gli anni Sessanta e Settanta durante la campagna per il disarmo nucleare e le manifestazioni contro la guerra del Vietnam. Il simbolo all'epoca fu interpretato erroneamente come stilizzazione di un amplesso.

Una versione iconica dello slogan sessantottino: «Fate l'amore, non fate la guerra». Holtom spiegò poi di essersi ispirato all'alfabeto semaforico utilizzato nelle segnalazioni nautiche: il simbolo rappresenterebbe le lettere N e D, appunto Nuclear Disarmament.

Nella codifica Unicode il simbolo della pace è U+262E, e può quindi essere inserito in un testo HTML come entity ☮ o &#9774.



Riciclaggio
Il simbolo di riciclaggio indica che il produttore o l'azienda che lo esibisce aderisce ai consorzi, previsti dalla legge, per organizzare il recupero e il riciclaggio degli imballaggi.

È composto da tre frecce che formano un nastro di Möbius. Disegnato nel 1971 da Gary Anderson, il logo venne inviato ad un concorso indetto dalla Container Corporation of America. Una variante del logo è il triangolo composto da tre frecce  simbolo del materiale riciclabile.

«Mi ci vollero un giorno o due per farlo, odio persino ammetterlo ora» ha commentato Anderson che per la sua idea vinse il concorso e guadagnò 2000 dollari cedendo i diritti sul logo oggi di pubblico dominio.


Il caduceo delle farmacie
Il caduceo è un simbolo di pace e prosperità, associato al dio greco Hermes (Mercurio per i Romani) e usato oggi sulle insegne di tutte le farmacie italiane. Il simbolo, composto da due serpenti avvolti a spirale, è la rappresentazione fisica del bene e del male, forze tenute in equilibrio dalla bacchetta del dio Ermes.

Mercurio era noto anche come dio del commercio e intelligentissimo contrattatore. Il caduceo in Italia è il simbolo del farmacista e può essere interpretato in questo modo: i due serpenti rappresentano uno la dose terapeutica e l'altro la dose tossica, il veleno.

Il farmacista è così rappresentato con il bastone alato perché si eleva sopra le parti in quanto conoscitore dell'una e dell'altra. In breve è l'unico in grado di frapporsi tra il farmaco e il veleno dato che conosce il giusto dosaggio.


Il cuore con le mani
Si tratta di un simbolo utilizzato a livello internazionale per rappresentare l’emotività dell'essere umano. Ma qual è l’origine del cuore di oggi? Per scoprirlo bisogna risalire all’epoca romana.

Tra le testimonianze che possono aver influenzato la stilizzazione si segnala quella del medico Galeno che parla del cuore «come di una sorta di foglia d'edera capovolta».

Il simbolo del cuore come lo conosciamo compare poi nel 1200, in un manoscritto «Il romanzo della Pera», in cui due amanti sbucciano insieme una pera con i denti. La consacrazione arriva però nel 1500 con la diffusione delle carte da gioco francesi e i vari semi.



Il teschio dei pirati
Il teschio che sovrasta due ossa incrociate o due spade è un simbolo piratesco e massonico che simboleggia la vittoria dello spirito sul corpo. Il teschio rappresenta infatti la saggezza e lo spirito dell'uomo.

Si tratta di un simbolo diffuso in diversi contesti ma sempre in collegamento con il concetto di morte.È ad esempio usato nei simboli di rischio chimico e nei cartelli per il trasporto di merci pericolose o per indicare la presenza di sostanze tossiche.

Storicamente il teschio con le tibie incrociate disegnato in bianco su fondo nero era usato dai pirati sulle proprie bandiere e in questo contesto era chiamato «Jolly Roger».

Lo scopo di questa immagine era terrorizzare le vittime e indurle alla resa senza nemmeno combattere. Il simbolo è stato utilizzato anche dai sommergibilisti, dalla marina inglese e dall'aviazione statunitense.



Pericolo radiazioni
Il simbolo «pericolo di radiazioni» o «Trefoil» è costituito da tre lame d'elica che si irradiano da un punto centrale. Fu ideato a Berkeley presso il Radiation Laboratory della University of California nel 1946.

L'immagine descrive la radiazione che si estende partendo da un atomo e il suo ideatore è lo studioso Nels Garden, allora responsabile del reparto di Chimica del laboratorio.

All’inizio il Trefoil, «trifoglio», viene realizzato in rosso magenta su fondo blu. Ma nel 1948, il simbolo è adottato da un gruppo di scienziati dell’Oak Ridge Lab che non è convinto dei colori.

Il team decide così che la combinazione giallo/magenta è la migliore in termini di visibilità. Questo schema di colori è ancora oggi lo standard negli Stati Uniti mentre nel resto del mondo il Trefoil si è diffuso nella variante nero su sfondo giallo.



Play (a triangolo)
Cliccato da milioni di persone in tutto il mondo è utilizzato per avviare video o apparecchi elettronici. Il triangolo «che punta a destra» è tanto famoso da essere diventato addirittura il logo di una piattaforma da miliardi di visualizzazioni come Youtube.

Secondo il sito Gizmodo il pulsante risalirebbe agli anni Sessanta, quando l'audiovisivo era ancora in nastro: allora si pensò che una freccia (ovvero il triangolo) fosse il simbolo più adatto indicare il verso di andamento della bobina ovvero verso destra.

Questo spiegherebbe anche il verso delle frecce per riavvolgere i nastri o per mandare avanti la registrazione presenti sulle tastiere dei vecchi stereo.



Accensione
Il simbolo di accensione, in inglese «power» è ormai conosciuto da chiunque  abbia un elettrodomestico in casa. Se in passato si è sempre optato per l'utilizzo delle parole «On» e «Off» in corrispondenza della relativa funzione oggi esiste solo un pulsante.

Ma che significato ha questo simbolo?  Le origini risalirebbero alla Seconda Guerra mondiale quando gli ingegneri militari cominciarono a usare, 0 e 1, cifre del sistema binario per indicare l'accensione e lo spegnimento di un determinato apparecchio.

Nel 1973, la Commissione Elettrotecnica Internazionale ha poi scelto il simbolo dato  dall'unione dei due numeri  come standard. Ecco quindi spiegato il cerchio aperto con una linea al suo interno. Un'icona che indica «power» appunto «accensione».


Bluetooth
Il secondo re di Danimarca Harald Bluetooth è passato alla storia per aver tentato di unire la Scandinavia sotto un'unica bandiera nel decimo secolo. Dal monarca danese prende il nome il Bluetooth,  una tecnologia che consente di unire il telefono al pc e all’auricolare.

Inventata da Ericsson nel 1994 la nuova soluzione mette in contatto due dispositivi vicini senza dover per forza allineare due porte ottiche. In linea con la scelta del nome anche il simbolo è ispirato alla corona di Danimarca: è una fusione grafica delle iniziali del re, H e B, in caratteri runici.



Uscita d'emergenza
Il simbolo «uscita di emergenza» è un segnale che indica la presenza di un'uscita di sicurezza. Il simbolo, adottato internazionalmente nel 1985, è stato creato dal designer giapponese Yukio Ota negli anni Settanta.

Secondo la normativa europea il simbolo può essere rivolto a destra o a sinistra ed essere accompagnato da frecce addizionali che indicano la direzione. Il simbolo può presentare la dicitura supplementare «USCITA DI EMERGENZA».

Negli Stati Uniti d'America e in Canada l'uscita di emergenza è indicata con una scritta di colore rosso «EXIT». La dicitura può essere occasionalmente di colore verde o, nel caso del Canada, recare il testo «SORTIE».



L'Euro
Ideato da Arthur Eisenmenger, un designer tedesco nato nel 1914 e morto nel 2002, il simbolo è oggi usato per  indicare la moneta dell'Unione europea.

Nel 1975 il famoso designer era a capo del reparto grafico della Comunità Europea e ricevette il compito di disegnare un simbolo che rappresentasse l'Europa stessa.

Eisenmenger spedì una proposta alla Commissione europea di Bruxelles che era chiamata a scegliere tra oltre dieci progetti e aspettò  per vent'anni il verdetto.

Nel 1997 la Commissione presentò il simbolo alla stampa di tutto il mondo per la prima volta ma Arthur Eisenmenger non ricevette alcun riconoscimento ufficiale per la creazione del simbolo dell'euro.



Usb
È uno dei simboli che maggiormente fa discutere la comunità web. Perché? In pochi ne conoscono l'origine e la sua storia rimane tutt'ora avvolta nel mistero. Secondo la maggior parte degli esperti di tecnologia si tratta di una rappresentazione stilizzata del tridente del dio greco del mare Nettuno.

Il fatto che su ogni punta ci sia una diversa figura geometrica (un cerchio, un triangolo e un quadrato) vuole indicare che attraverso il collegamento Usb si possono connettere tra loro dispositivi di natura diversa.



Dito medio
Nell'antica Roma il gesto del dito medio alzato era accompagnato dalle parole «digitus impudicus», traducibile come «dito impudente». Il rimando è infatti ai genitali maschili.  Il gesto, considerato volgare tanto in Occidente quanto in Oriente, sottintende la sottomissione dell’interlocutore nei confronti di chi insulta.

Secondo gli storici la pratica nasce nell’area del Mediterraneo, forse in Grecia, per poi
diventare popolare nelle città stato prima e nelle province romane poi. In particolare diversi documenti testimoniano l'uso del gesto tra le popolazioni germaniche.

Solo in epoca moderna il simbolo si è diffuso in America: secondo diverse ricostruzioni «per merito» degli immigrati italiani negli Usa. Il 24 settembre 2010 a Milano il celebre artista Maurizio Cattelan del dito medio ne ha fatto un'opera. Una gigantesca statua che svetta di fronte a Palazzo Mezzanotte, sede della Borsa.


Tredicesima 2019 per dipendenti, docenti e pensioni: quando arriva e a chi spetta il bonus

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di Massimiliano Jattoni Dall’Asén
Tredicesima mensilità: la storia
Per lavoratori dipendenti e pensionati è iniziato il conto alla rovescia per la tredicesima 2019.

In molti stanno calcolando quanto avranno a disposizione in più quest’anno per i regali di Natale ma anche per le scadenze fiscali (dal saldo Imu a quello della Tasi, dalla prima rata della rottamazione-ter per chi ha aderito alla «pace fiscale» alla scadenza dell’acconto Iva del 27 dicembre).

La tredicesima mensilità, denominata anche «gratifica natalizia», in origine era un’elargizione volontaria che il datore di lavoro poteva riconoscere ai propri dipendenti in occasione delle festività natalizie. Il 5 agosto 1937 fu introdotto l’obbligo per gli impiegati del settore dell’industria, ma solo dopo

l’accordo interconfederale per l’industria del 27 ottobre 1946 il trattamento è stato esteso anche alle altre categorie (accordo reso efficace nel 1960 con decreto del Presidente della Repubblica), pensionati e assegni per invalidità inclusi.

Essendo antecedente al periodo natalizio, la tredicesima riveste una grande importanza sull’andamento dei consumi nel mese di dicembre e sulle spese per i regali.



Quando viene pagata
È prassi che la tredicesima venga pagata ai lavoratori intorno al 15 dicembre. Ma c’è anche chi la eroga in prossimità del Natale. Alcune aziende anticipano lo stipendio di dicembre al 19-20 anziché al 27, includendovi la tredicesima. Per i pensionati, la tredicesima verrà accreditata il 2 dicembre 2019 (primo giorno lavorativo del mese per banche e poste).



Come viene calcolata per impiegati, operai e pensionati
Il calcolo della tredicesima mensilità varia a seconda della categoria del lavorato (o pensionato). Gli impiegati: la tredicesima per gli impiegati è calcolata sul numero di giorni di lavoro effettivi. Un mese viene retribuito come intero se il lavoro è stato pari o superiore a 15 giorni completi (ma il conteggio può variare se il contratto di lavoro è flessibile).

Gli operai: il calcolo nel caso degli operai è fatto sulle ore di lavoro effettuate. Se il pagamento è mensile, la tredicesima è pari a uno stipendio, se è pagato a settimana, la gratifica è calcolata sulle ore lavorative indicate nel contratto.

I pensionati: la tredicesima per chi percepisce una pensione è calcolata in base al numero di ratei che gli sono stati erogati nel 2019. Se si percepisce pensione dal mese di gennaio, sono 12 mensilità che assicurano una tredicesima piena, se invece la si prende da mesi successivi a quello di gennaio, la tredicesima sarà calcolata sui mesi effettivi in cui è stata liquidata la pensione.



Il bonus tredicesima 2019
Il Bonus tredicesima 2019 spetta soltanto ai pensionati con redditi bassi, ai titolari di prestazioni assistenziali e a chi percepisce una pensione indiretta o di reversibilità. Il Bonus consiste in 154,94 euro massimi. Chi ha un reddito annuale di 6.596,46 euro ha un Bonus pieno, chi ha un reddito annuale compreso tra i 6.596,47 e i 6,751,40 ha diritto ha un Bonus parziale.





Prìncipi del foro: ecco i buchi più grandi e profondi mai scavati dall’uomo

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James Pasley
  • A partire dai primi anni ‘60, gli uomini hanno cercato scendere verso il mantello terrestre.
  • Con una profondità di oltre 12 chilometri, la Russia detiene il record mondiale per il buco più profondo scavato dall’uomo.
  • Nessuno ha mai raggiunto il mantello terrestre, anche se gli scienziati non hanno mai smesso di provarci.
  • Alcuni tra i buchi più profondi dovuti all’uomo sono praticati dalle compagnie petrolifere, mentre alcuni tra i più larghi sono stati scavati per estrarre rame e diamanti.

Gli USA saranno pure atterrati sulla luna, ma la Russia ha scavato il buco più profondo fatto da uomini sulla Terra. A partire dai primi anni ’60, gli scienziati hanno cercato di scavare per raggiungere il mantello terrestre.

Ci sono voluti 20 anni, ma la Russia ha scavato giù nella terra per 12.226 metri, prima che il calore bloccasse le operazioni. Nonostante tale profondità, la Russia non è riuscita a raggiungere il mantello. Ma chi risiede nelle vicinanze ha detto che da lì si possono sentire le urla delle anime all’inferno.

Poi sono entrate in lizza Germania e Giappone. Ma ancora nessuno è riuscito a scavare fino al mantello.

Al di fuori della scienza, le compagnie petrolifere hanno perforato in profondità stretti buchi per estrarre petrolio, e le compagnie minerarie hanno scavato superfici amplissime per estrarre rame e diamanti.

Ecco quali sono i buchi più profondi e più larghi realizzati dall’uomo.

Gli uomini hanno iniziato a scavare verso il mantello terrestre negli anni ’60, quando gli statunitensi concepirono il progetto noto conosciuto come “Progetto Mohole”, da Andrija Mohorovicic, che aveva scoperto i confine tra la crosta e il mantello terrestre.


Il geologo Harry Hammond Hess indica sulla lavagna un disegno riguardante il progetto Mohole, un tentativo di perforazione dei primi anni ’60 attraverso la crosta terrestre, California, 1961. Fritz Goro / The LIFE Picture Collection / Getty
Fonti: CNN, BBC

Come per la corsa allo spazio, si trattò di un duello tra USA e Russia per vedere chi sarebbe riuscito a raggiungere il mantello. Perché, come detto alla CNN nel 2012 da Damon Teagle della University of Southampton, anche se il mantello costituisce quasi il 70% della Terra, gli scienziati hanno solo una “ragionevole” conoscenza della sua composizione e del suo comportamento.

La Terra è formata da tre strati concentrici: il nucleo, il mantello e la crosta. QAI Publishing / Universal Images Group / Getty
Fonti: BBC, CNN
Solo nei monti Hajar in Oman c’è una sezione esposta del mantello terrestre. Ma non è un campione vivente sono ormai milioni di anni che non si trova più all’interno della Terra.

L’unica sezione di mantello terrestre esposta al mondo, nei monti Hajar in Oman. Sam McNeil / AP
Fonti: LiveScience, NASA

Lo scavo del Progetto Mohole è stato realizzato da un’imbarcazione nell’oceano invece che sulla terra, perché la crosta è più sottile sul fondale oceanico, anche se generalmente è più sottile dove l’oceano è più profondo. I ricercatori hanno perforato vicino all’isola di Guadalupe al largo della costa occidentale del Messico.

Una foto della Mohole Project Expedition, mentre sta studiando parti della terra portate su con le perforazioni. Fritz Goro / The LIFE Picture Collection / Getty
Fonti: Nature, BBC
Il buco degli USA raggiunse i 183 metri sotto il fondale marino prima di venire giudicato troppo costoso, portando al taglio dei finanziamenti da parte del Congresso. Si riuscì a portare in superficie alcuni metri cubi di basalto, al costo attuale di circa 40 milioni di dollari, dato che si trattava di tutto ciò che c’era da mostrare della spedizione.

Un macchinario non identificato impiegato sulla Mohole Project Expedition Ship. Fritz Goro / The LIFE Picture Collection / Getty
Fonti: Nature, BBC

Nel 1970, la Russia entrò in gara. Diversamente dall’allunaggio, ottenne di più rispetto agli USA. Nei 20 anni successivi, gli scienziati perforarono per 12.226 metri nella Terra. ll buco, noto come il “pozzo superprofondo di Kola”, ha un diametro di soli 23 centimetri.

Il pozzo superprofondo di Kola. I trivellatori A. Sarayev e I. Gritsay all’opera. Alexander Tumanov / TASS / Getty
Fonti: BBC, Atlas Obscura

Le perforazioni furono interrotte nel 1992 quando le temperature diventarono troppo calde, raggiungendo i 180 gradi. Benjamin Andrews, geologo e curatore presso lo Smithsonian’s National Museum of Natural History, ha detto che con l’aumentare delle temperature, i liquidi del mantello vanno verso l’alto rendendo più complicata la perforazione. “È come provare a conservare un buco in mezzo a una pentola di zuppa calda”, ha detto.

Il pozzo superprofondo di Kola nel 1986. Alexander Tumanov / TASS / Getty
Fonte: Smithsonian
Adesso il buco è coperto da un tappo metallico e conserva il record per il più profondo buco al mondo realizzato dall’uomo. La gente del luogo dice di riuscire a sentire le urla delle anime dell’inferno provenire dal buco.

Il tappo sul pozzo superprofondo di Kola, conosciuto anche come "ingresso dell’inferno". Wikimedia
Fonti: Slate, BBC

Nel 1990, alcuni scienziati tedeschi iniziarono a scavare in Baviera, in quello che è stato chiamato il German Continental Deep Drilling Program. Il programma è riuscito a raggiungere ‘appena’ i 9.144 metri in profondità, incontrando temperature che raggiungono i 265 gradi.

German Continental Deep Drilling Program. Wikimedia
Fonte: Journal of Geophysical Research

Nel 2013, Lotte Geeven, un’artista olandese, ha calato un microfono nel buco per registrare quello che lei ha definito “Il suono della terra”. Gli scienziati non sono riusciti a spiegare il brontolio registrato. L’artista ha detto che alcune persone hanno paragonato la registrazione all’inferno, mentre altre pensavano suonasse come il respiro della terra.

Lotte Geeven
Fonti: The Verge, BBC, Lotte Geeven

Il Giappone si è fatto avanti nel 2002 quando ha inaugurato Chikyu, una nave di trivellazione in mare aperto. La nave può trasportare 9,5 chilometri di tubi per trivella, e sfrutta anche un GPS e dei motori con i quali variare posizione per consentire una perforazione precisa. L’imbarcazione è finanziata anche da Europa, Cina, Corea, India, Australia e Nuova Zelanda. Una delle sue missioni principali era quella di perforare abbastanza in profondità nel mantello per imparare di più sul comportamento dei terremoti.

L’imbarcazione da perforazione in acque profonde Chikyu. Kyodo News Stills / Getty
Fonti: BBC, CNN, Smithsonian
Ma nel 2019, dopo avere perforato per circa tre chilometri sotto il fondale marino, Chikyu ha rinunciato a raggiungere il punto in cui si incontrano le placche tettoniche. Tra chi ha lavorato nella spedizione c’è chi l’ha descritto alla rivista Nature come “un ininterrotto incubo durato sei mesi”.

Una foto che mostra la torre di perforazione vista dall’eliporto situato a prua dell’imbarcazione giapponese di perforazione in acque profonde Chikyu. Toshifumi Kitamura / AFP / Getty
Fonte: Nature

Nel 2015 gli scienziati hanno provato a raggiungere il mantello su una nave da perforazione chiamata JOIDES Resolution, che è stata impiegata in missioni di scavo fin dal 1985. L’obiettivo era quello di scavare per 1.200 metri attraverso il fondale dell’Oceano Indiano, per raggiungere il mantello. Ma senza successo.

JOIDES Resolution (Joint Oceanographic Institutions for Deep Earth Sampling) Wikimedia
Fonte: Tech Times

Nel 2018, in Cornovaglia, nel Regno Unito, la Geothermal Engineering Limited iniziò a scavare due buchi con lo scopo di impiegare il calore delle rocce calde come fonte di elettricità. La compagnia ha detto nel 2019 a Business Insider che un buco era sceso fino a oltre 4.800 metri di profondità e aveva incontrato temperature fino ai 90 gradi.

Scavo in cerca di rocce calde in Cornovaglia. Geothermal Engineering Limited
Fonte: The Guardian

Nel 2019, degli scienziati hanno scavato il buco più profondo dell’Antartide occidentale, penetrando il ghiaccio per 2.152 metri. Diversamente dalle altre perforazioni, questa è stata eseguita con una pompa ad alta pressione che sparava acqua alla temperatura di 90 gradi. Una volta praticato il buco nel ghiaccio, gli scienziati hanno dovuto agire velocemente, perché si righiacciava dopo pochi giorni.

Vista aerea di Retrieving the Gravity Corer, 7 gennaio 2019. Billy Collins/SALSA Science Team
Fonte: Business Insider

Ma non si è trattato del buco antartico più profondo di tutti. Nel 2012, nell’Antartide orientale, ricercatori russi avevano scavato un buco profondo 2.400 metri. E l’IceCube Neutrino Observatory del Polo Sud ha scavato un buco che scende per 2.225 metri.

IceCube Neutrino Observatory. Ian Rees, IceCube/NSF
Fonti: Business Insider, Gizmodo

I buchi sono stati scavati nella terra anche alla ricerca di risorse naturali. La Deepwater Horizon della BP, ormai famigerata per il disastro che ha inquinato il Golfo del Messico nel 2010, è stata per qualche tempo la piattaforma offshore che perforava più in profondità. La piattaforma ha perforato fino a 10.684 metri per raggiungere un giacimento di petrolio greggio che conteneva fino a 6 miliardi di barili di petrolio.

Gli equipaggi di pronto intervento delle navi dei pompieri affrontano i resti in fiamme della piattaforma petrolifera offshore Deepwater Horizon, al largo della Louisiana. US Coast Guard Handout / Reuters
Fonti: Beacon, Daily Herald
Nel 2011, la Exxon Mobile presente nella Russia orientale si aggiudicò il titolo per il più lungo buco al mondo realizzato dall’uomo. Il suo pozzo scendeva a 12.800 metri nel terreno ma, non andando sempre giù dritto, non è il più profondo. È noto come “Z-44 Chayvo”, e si prevede che permetta di accedere a 2,3 miliardi di barili di petrolio.

Un’imbarcazione lascia una piattaforma petrolifera del progetto Sakhalin-1, gestito dalla sussidiaria della Exxon Mobil in Russia, Exxon Neftegas Limited, al largo delle coste dell’isola Sachalin. Sergei Karpukhin / Reuters
Fonti: CNN, Business Insider

Oltre a scavare per la scienza o per il petrolio, i minatori hanno anche scavato alcuni buchi immensi. Uno dei buchi più larghi al mondo scavati dall’uomo è la Miniera di diamanti di Kimberley, in Sudafrica, conosciuta anche come “big hole”. Ha una circonferenza di quasi oltre un chilometro e mezzo per un totale di circa 17 ettari.

La miniera di diamanti conosciuta come Big Hole che andò in disuso nel 1914 dopo oltre 100 anni di produzione, a Kimberley. Rodrigo Arangua / AFP / Getty
Fonti: The City of Kimberley
Nella Siberia orientale, la miniera di diamanti di Mirny, la seconda più larga al mondo, è stata costruita per volere dell’allora leader sovietico Iosif Stalin, per produrre diamanti per l’Unione Sovietica. Scende nel terreno per 525 metri e ha un diametro di 1.250 metri.

La miniera di diamanti di Mirny. Reuters/Sergei Karpukhin
Fonte: Slate

In Cile, la miniera a cielo aperto di Chuquicamata è il più largo buco al mondo realizzato dall’uomo per quanto riguarda la terra che ne è stata estratta  quasi 8,5 miliardi di metri cubi.

Chuquicamata la più grande miniera di rame a cielo aperto al mondo in quanto a volume escavato. Birgit Ryningen / VW Pics / Universal Images Group / Getty
Fonte: Science Focus
E in Utah, il Bingham Canyon è il più largo scavo al mondo eseguito dall’uomo. È profondo circa 1.200 metri e si estende per in larghezza per quasi 4.800 metri.

La miniera del Bingham Canyon è una miniera di rame a cielo aperto vicino a Salt Lake City, Utah. Adam Gray / Barcroft Media / Getty

Mio fratello si sente iraniano

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Annamaria e Hossein a Isfahan, davanti al Chehel Sotun uno dei 17 siti Unesco dell'Iran
Annamaria e Hossein a Isfahan, davanti al Chehel Sotun uno dei 17 siti Unesco dell'Iran

Susanna Ghazvinizadeh, 51 anni, vive a Bologna, laurea in Lingue e letterature straniere, ex ricercatrice universitaria, lavora in una radio.

“Quest’anno la Repubblica Islamica dell’Iran festeggia quarant’anni. Per me e la mia famiglia non c’è niente da festeggiare. Sono nata a Bologna da madre italiana, Annamaria, e padre iraniano, Hossein. I primi cinque anni della mia vita li ho passati in Italia.

Mio padre, microbiologo, aspettava di sistemarsi all’università per potere portarci a vivere a Isfahan, in Iran. Correva l’anno 1973". "A Isfahan andammo ad abitare nel campus universitario, pieno di professori iraniani che, avendo studiato all’estero, avevano sposato donne straniere.

Frequentavo una scuola internazionale. La mattina studiavo con insegnanti iraniani e il pomeriggio con quelli americani. L’ambiente era così cosmopolita che per noi bambini era difficile vedere stranieri intorno a noi, vedevamo soltanto bambini.

Io ero una privilegiata, non mi rendevo conto delle grandi differenze sociali presenti sotto il regno dello Scia. Io vivevo in una bolla".

"Poi nacque mio fratello, Nader, abitò in Iran dall’età di sei mesi fino a un anno e mezzo. Nell’estate del 1978, come tutte le estati, ci recammo in Italia per le vacanze. Ma quell’estate fu la più lunga della mia vita. Mio padre partì per l’Iran i primi di settembre.

Una sera ci telefonò. ‘A Isfahan c’è il coprifuoco’, disse a mia madre. ‘È meglio che restiate ancora in Italia’. La situazione peggiorò". "Tutti invocavano il ritorno di Khomeini, l’acerrimo nemico dello Scia. A gennaio lo Scia fuggì e arrivò Khomeini accolto come un eroe.

Promise di ritirarsi a Qom, la città sacra e di non occuparsi di politica. Non mantenne la promessa. La mia scuola internazionale fu chiusa, gli americani dipinti come Satana. Io non tornai più. Neanche mio padre tornò più. Non voleva vedere il suo Paese così cambiato.

Era così addolorato che non voleva accettare che lo Scia non fosse un santo. Aveva la mente obnubilata. E’ morto nel 2000". "Nel 2002 mia madre e mio fratello andarono in Iran, ma io non li seguii. Mio fratello, pur avendo vissuto sempre in Italia, si considera iraniano. Io non riuscivo a capire perché.

 Ora l’ho capito. Poche settimane fa ho scoperto che quando era alle elementari e andava a giocare a calcio, negli spogliatoi subiva attacchi razzisti. Lo picchiavano e offendevano. Io sono caduta dalle nuvole. Mi sono sentita ingenua.

Ora dedico questa lettera a tutti gli iraniani (o persiani, come alcuni preferiscono farsi chiamare) e a tutti coloro che come me e la mia famiglia hanno visto il loro paese diventare una dittatura".

In Sudafrica c’è una città per soli bianchi

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ilgiornale.it
Federico Giuliani

Esiste il razzismo contro gli africani, che è quello del quale si sente più spesso parlare sui giornali e in televisione, con racconti, testimonianze delle vittime e vari reportage.

Poi esiste anche il razzismo a parti invertite, dove sono gli africani a discriminare i “bianchi” per il loro colore della pelle, e non viceversa come siamo abituati a pensare.

Il laboratorio ideale per analizzare nel dettaglio questo secondo tipo di razzismo è il Sudafrica. Nel corso di un lungo reportage, il Guardian ha parlato di Orania, una città che sorge sulle sponde del fiume Orange, nella regione del Karoo.

Questo luogo ai più non dice niente, ma è il caso emblematico che meglio spiega come sono costretti a vivere i bianchi eredi dei coloni europei per sfuggire alla furia dei locali.

La storia di Orania

Orania è stata fondata nel 1991, non appena terminò l’apartheid, cioè la segregazione razziale introdotta in Sudafrica nel 1948 dal governo di etnia bianca per separare i coloni dai locali.

Oggi ospita poco meno di 2mila abitanti, tutti rigorosamente bianchi, o meglio afrikaner, ovvero discendenti di quei migranti olandesi, francesi e tedeschi che colonizzarono l’Africa nel XVII secolo.

Alle altre etnie è vietato l’ingresso.

Le origini di Orania sono singolari: caduto l’apartheid, una quarantina di famiglie decise di creare una comunità sigillata e separata dal resto del Sudafrica, ormai in preda ai rigurgiti razzisti contro gli eredi dei bianchi.

La lingua ufficiale è l’afrikaans e i suoi abitanti sono giunti un po’ da tutto il Paese. I padri fondatori acquistarono i terreni di questa zona spopolata e isolata, e comprarono anche le case abbandonate da alcuni operai che in passato lavoravano in una vicina centrale elettrica. In seguito costruirono strade, abitazioni e resero il posto abitabile.

Polemiche e proteste

Il Guardian guarda a Orania come un inferno in terra. “Orania scrive il quotidiano britannico rappresenta la vera ostilità nei confronti dell’idea di un Paese unico, unito e non razziale”.

Peccato che oggi, in Sudafrica, a malmenare, torturare, violentare e uccidere gli altri per il colore della propria pelle non siano più i solamente i bianchi, ma anche i neri.

Nonostante le accuse di razzismo, gli abitanti di Orania sostengono che la loro città sia un progetto culturale, e che il fatto di poter accogliere solo i bianchi, spiega la comunità, derivi dalla volontà di preservare il lascito afrikaner.

La città è in espansione

Negli ultimi 7 anni la popolazione è raddoppiata, tanto che il censimento più recente stima una crescita del 10% all’anno, più di quella registrata da molte altre città sudafricane. Il motivo è semplice: per i bianchi è sempre più pericoloso vivere in normalissime città miste.

In ogni caso, più persone vuol dire necessità di costruire nuove abitazioni, ed ecco che anche a Orania è esploso il mercato immobiliare ed edile.Sono stati recentemente costruiti nuovi condomini in vendita a 80mila sterline.

Non manca poi la zona industriale, con fabbriche che le fabbriche che vendono i loro prodotti in tutto il Sudafrica, e la Cina che acquista da qui la maggior parte delle noci americane. Al momento sono in fase di progettazione un’area capace di accogliere 10 mila nuovi residenti e pure un’università.

I cittadini di Orania non creano particolari problemi, tuttavia le polemiche attorno a questa comunità sono sempre più forti. In molti ritengono che la città di soli bianchi rappresenti un’eredità della mobilitazione razziale, e quindi un insulto al Sudafrica.

Dal punto di vista dei sudafricani tutto ciò è anche legittimo, però sarebbe meglio che i politici locali si impegnassero più a trovare un modo per neutralizzare la violenza diffusa nel Paese anziché attaccare un pacifico nucleo di circa 1700 anime.

Anche perché, senza il rischio di finire uccisi da qualche cittadino locale ancora infervorato con bianchi, gli eredi dei coloni non avrebbero bisogno di nascondersi in città isolate dal resto del Sudafrica.

«Perché l’archivio vaticano non è più segreto. Alcune carte restano private»

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di Massimo Franco

Monsignor Sergio Pagano: l’aggettivo «segreto» ha cominciato a essere frainteso, colorato di sfumature ambigue, perfino negative, come scrive Francesco nel documento reso noto ieri. Dunque, si cambia.

«Perché l'archivio vaticano non è più segreto. Alcune carte restano private»

Muore l’Archivio segreto vaticano. Nasce l’Archivio apostolico vaticano.

«Ecco il motu proprio di Papa Francesco che abolisce l’intestazione “secretum”...». Monsignor Sergio Pagano, custode dei misteri più ambiti del mondo, posa sulla scrivania i tre fogli con i quali, il 22 ottobre scorso, Jorge Mario Bergoglio ha deciso di cancellare quattro secoli di storia pontificia.

È un ligure dai modi asciutti. Veste semplicemente, con una blusa talare grigia a mezze maniche col collarino ecclesiastico, che porta fuori dai pantaloni neri, e calza un paio di sandali di cuoio.

Dalle grandi vetrate a mezzaluna protette dalle inferriate dello studio di Pagano, Prefetto di questa mitica istituzione da oltre vent’anni dei quarantadue passati lì, si scorge la casina dell’Accademia Pontificia delle scienze.

E ai piani superiori e inferiori giacciono ben custoditi milioni di volumi e documenti che raccolgono quello che un tempo fu definito l’archivio centrale dell’Europa, e ora si può dire lo sia di un intero mondo.

Si parlò di Archivum Secretum Vaticanum a partire dal 1646. Ma quell’aggettivo, «segreto», ha cominciato a «essere frainteso, colorato di sfumature ambigue, perfino negative», scrive Francesco nel documento reso noto ieri. Dunque, si cambia.

Perché Francesco ha deciso di cancellare l’aggettivo «segreto»?
«La decisione si deve alla forte sensibilità del Papa di fronte a un’esigenza di trasparenza. La sua volontà è che la Chiesa agisca senza quelle che possono essere considerate tendenze o tentazioni a nascondere, o faziosità».

Sì, ma in concreto che cosa cambia?
«Cambia il titolo. Non vengono modificate né la struttura né la funzione dell’archivio. Il problema è di avvicinarlo alla sensibilità della gente comune, di evitare l’“accezione pregiudizievole di nascosto da non rivelare e da riservare a pochi”, come scrive papa Francesco.

Comunque, anche con l’aggettivo “segreto” l’archivio era stimato dovunque. Cambiando l’intestazione si avvicina agli altri archivi storici del mondo non segreti».

Per capire: significa che ad esempio gli archivi su Pio XII saranno consultabili liberamente nella loro totalità?
«Da marzo prossimo sì, come previsto. Vede, a prescindere dal cambiamento dell’intestazione, l’Archivio vaticano all’atto di ogni apertura di pontificato rende disponibili tutte le sue fonti. Quindi anche prima di questo motu proprio le fonti sono state preparate per la consultazione degli studiosi nella loro totalità».

Ma da adesso nell’archivio non ci sarà più nulla di segreto?
«Nulla, tranne alcuni tipi di documenti precisati nella legge del 2005 sugli archivi della santa Sede, emanata da San Giovanni Paolo II. Tutto il resto era ed è consultabile».

Quali sono i documenti che rimangono segreti?
«Gli atti dei Conclavi, i documenti del Pontefice e dei cardinali, i processi vescovili, le posizioni sul personale della santa Sede e le cause matrimoniali, oltre ai documenti indicati come tali dalla Segreteria di Stato. È tutto scritto».

Dell’ultimo Conclave, dunque, non si saprà nulla.
«Vi erano già disposizioni a riguardo del segreto del Conclave. E anche la legge sugli archivi di cui parliamo recepisce queste riserve. I risultati non potranno essere di dominio pubblico. D’altronde, le schede sono state bruciate. Ci saranno forse solo i sommari sui voti dei candidati».

Scusi, ma non rischia di essere un’operazione gattopardesca? Si cambia il nome dell’Archivio segreto ma tutto rimane come prima.
«Capisco che un simile sospetto possa venire in mente alle persone comuni. Tuttavia, conoscendo lo stile del Papa, così diretto e attento alla sensibilità dei nostri tempi, questo sospetto non ha motivo di sussistere».

Quando ha saputo che Francesco voleva cancellare il «segreto»?
«Ne siamo venuti a conoscenza il cardinale archivista José Tolentino de Mendonca e io alcuni mesi fa».

Nel redigere il documento il Papa le ha chiesto un parere?
«Come spesso avviene in Curia, è naturale che il Papa nella sua prudenza chieda pareri e suggerimenti a organismi interessati dalle sue decisioni. Così è capitato sia al cardinale de Mendonca che a me di offrire la nostra esperienza».

E al di là del Papa, chi premeva per questa novità?
«Di preciso non ne sono a conoscenza. Ma penso che le maggiori obiezioni sulla conservazione di un aggettivo così ambiguo come “segreto” provenissero dalla chiesa statunitense, tedesca e latino-americana».

Voi vivete anche di donazioni. Questa novità le favorirà o le danneggerà?
«Penso onestamente che in buona parte la mutazione del titolo non creerà perplessità in nessuno dei nostri benefattori. Per un’altra buona parte, penso che avere tolto ogni minimo sospetto o falsa concezione di segretezza possa anche indirettamente favorire di più le donazioni in diverse nazioni del mondo».

Lei è Prefetto dell’archivio segreto vaticano da oltre vent’anni. Non soffrirà una crisi di identità adesso?
«Neanche tanto... anche perché io ho sempre considerato l’Archivio segreto come tale nella sua accezione originaria di “privato”, senza intenderlo nel senso deteriore che gli si dà oggi. È da quattro secoli che siamo aperti a chi richiedeva copie dei documenti, sia studiosi laici che ecclesiastici.

Gli storici sanno bene che intere collezioni di documenti papali dagli eredi dei secoli XVII-XIX (penso, ad esempio, ai Bullaria dei vari ordini religiosi, ma anche agli Annales di Cesare Baronio

sulla storia della Chiesa) così come singole monografie sui papi e sul papato, non sarebbero state possibili senza l’aiuto prestato ai diversi studiosi dall’Archivio Segreto Vaticano in tali secoli».

Neanche un po’ di nostalgia come custode di tanti segreti? Lei è identificato con l’Archivio segreto.
«Come studioso e come prefetto fino a questo motu proprio e a quanto esprime in esso il Santo Padre, non ho mai avvertito la necessità di giustificare il titolo di Archivio segreto. E quando ne sono stato richiesto in conferenze, lezioni, articoli, ho sempre potuto spiegare agevolmente che quel “secretum” voleva solo dire “privato”.

Non è mai stato l’archivio dello Stato pontificio prima, dello Stato vaticano poi. È solo l’archivio privato del Papa, sottoposto in tutto alla sua esclusiva giurisdizione. Tuttavia capisco bene che forse appartengo a una generazione per la quale il latino parla ancora, e il latino non è una lingua facilmente equivocabile.

Ora, nella contingenza moderna comprendo pure le giuste osservazioni di papa Francesco legate al bisogno di avvicinare l’istituzione anche al sentire comune».

Scusi ma che differenza c’è tra «segreto» e «apostolico»?
«Si tratta di termini storicamente e giuridicamente quasi sinonimi. Segreto significa privato, apostolico vuol dire del domnus apostolicus, che nel lessico curiale antico e moderno indica solo il Papa. Quindi rimane l’archivio del Papa».

Non teme le critiche? Prima gliele facevano come prefetto dell’Archivio segreto, ora magari gliele faranno per avere accettato questa novità. «Il Papa ha deciso, e io come tutti dobbiamo non solo obbedire ma collaborare».

Secondo Lei, tra quattrocento anni magari l’Archivio tornerà a chiamarsi segreto, se esisterà ancora?
«Non penso proprio. Questa decisione avvicina le due istituzioni “parenti” della Biblioteca e dell’Archivio. E segna una svolta storica di grande peso: soprattutto simbolicamente».

Tik Tok, l’app che fa tremare Instagram: dopo il primo anno in Italia 280 challenge

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Volano i contenuti su fashion, animali, cibo e viaggi. Tra le star più seguite Fiorello, Benji e Fede e Bobo Vieri.


Nel primo anno dal suo lancio in Italia Tik Tok, l’app di origine cinese che permette di registrare video musicali amatoriali, ha registrato ben 280 challenge, le sfide con cui gli utenti gareggiano a colpi di coreografie, karaoke e balli.

E’ questo il numero più significativo del primo bilancio dallo sbarco in Italia della piattaforma. Tra i contenuti tematici più seguiti sul podio c’è l’ambiente (Environment) e, a seguire, Comedy e Fashion & Lifestyle. In ascesa l’interesse su animali, arte, famiglia, cibo e viaggi.

La piattaforma sempre più popolare e che sta facendo tremare Mark Zuckerberg è stata lanciata nel 2017, dopo l’acquisizione di Musical.ly, e nel 2018 ribattezzata TikTok, nome con cui è conosciuta oggi in oltre 150 Paesi e tradotta in ben 75 lingue.

Funziona così: gli utenti possono registrare brevi filmati da 15 secondi con la propria musica preferita di sottofondo e allo stesso tempo iniziare una “challenge” con gli altri iscritti e seguire i trending topic del momento.

A questo proposito gli hashtag che sono stato più menzionati nel primo anno di vita italiana sono #wasabisong (62 milioni), #backtoschool (45 milioni) e #greenscreen (42 milioni), la funzione che permette di accostare la propria immagine a quella di un’altra persona.

Tik Tok, come ogni social network che si rispetti, sta facendo emergere anche influencer di nuovo conio che sfruttano la propria capacità comunicativa e canora per costruire una propria comunità di follower.

Tra questi c’è sicuramente Jessica Brugali, Maryna, Rosalba ed Edoardo Esposito ma l’app sta diventando molto popolare anche tra artisti famosi, star e personaggi dello spettacolo che si stanno trasferendo qui.

Nel mondo della musica i più popolari sono stati Benji e Fede (#doveequando), Emis Killa (#tijuanachallenge) e Sfera Ebbasta con #pablochallenge. Nel mondo del jet set i più seguiti sono lo chef Bruno Barbieri, Christian Vieri, Fiorello, Michelle Hunziker e Aurora Ramazzotti.

Di fronte alla crescita esponenziale della piattaforma, alcuni esperti hanno sollevato alcune perplessità rispetto alla privacy degli utenti (spesso sono minorenni sotto i 13 anni) e per questo a febbraio la Federal Trade Commission degli Stati Uniti aveva multato Tik Tok per 5,7 milioni.

Non solo: negli ultimi giorni il Senato Usa ha messo nel mirino la piattaforma cinese accusandola di mettere a rischio la sicurezza nazionale. I senatori Tom Cotton e Chuck Schumer hanno infatti inviato una lettera a Joseph Maguire, direttore della National Intelligence, chiedendo che venga aperta formalmente un’indagine su TikTok.

Trentino Alto-Adige, la regione dei record del non profit

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di Giulio Sensi

Su tutti i numeri del Terzo settore , oltre che sulla spesa sociale, Bolzano e Trento guidano la classifica italiana. Welfare a «chilometro zero» e «senso di comunità». Il mondo cooperativo produce 2,35 miliardi. Problemi? Burocrazia e ricambio generazionale



Dietro ai numeri record del Terzo settore nel Trentino Alto Adige (che saranno raccontati martedì 29 ottobre a Trento durante la tappa del viaggio di Buone Notizie) c’è una storia collettiva: il bisogno di comunità delle valli isolate che ha trovato nel tessuto associativo il suo sviluppo.

La dimensione sociale si è unita a doppio filo a quella culturale. Così il volontariato è entrato nel dna di queste popolazioni, pur con molte differenze.Nei grafici Istat su volontariato e non profit le provincie di Trento e Bolzano staccano tutti; gli indici di sviluppo e di qualità della vita sono ai massimi nazionali e sopra le medie europee.

I dati del Csv Trentino, basati su ricerche degli ultimi anni, ne raccontano la specificità. «L’origine di questi numeri spiega il presidente del Csv TrentinoNon Profit Network, Giorgio Casagranda è antica e affonda le radici nella genesi di una popolazione che ha tante periferie lontane dai centri urbani.

Nel tempo sono cresciute anche per fare supplenza alle istituzioni». Poi gli abitanti di queste terre ci hanno preso gusto e oggi è impossibile incontrare luoghi in cui non proliferino associazioni culturali, ricreative, sportive, assistenziali.

I soci di enti non profit e i volontari sono buona parte della popolazione attiva e tutti, giovani e meno giovani, contribuiscono alla costruzione della dimensione comunitaria che permea la società. Per ogni problema c’è una soluzione offerta anche dalla partecipazione attiva dei cittadini.

«Ci sono molte forme di volontariato racconta ancora Casagranda e alcune sono peculiari: si pensi ai Vigili del Fuoco volontari, nati come sentinelle del territorio. Ma poi c’è la dimensione culturale e sportiva che rappresenta una fetta importantissima, circa la metà, del volontariato.

Molto sviluppata è anche quella socio-sanitaria con associazioni che si occupano di malattie puntuali e gravi come l’Alzheimer o l’oncologia: patologie diffuse, anche per l’età avanzata della popolazione».

Dopodiché da anni sono nate nuove forme di civismo. «Il volontariato dei beni comuni spiega Casagranda - è un fenomeno recente che valorizza sia le associazioni sia la singola persona. Negli orti di comunità pensionati e giovani si mettono insieme e coltivano pezzi di terreno per donare il cibo a chi ne ha bisogno».

La lotta allo spreco del cibo è un fronte dai numeri impressionanti. L’associazione Trentino Solidale (di cui parliamo più avanti nell’inserto) ha una flotta di mezzi e di persone che ogni giorno recuperano le eccedenze dei supermercati e le donano a centinaia di famiglie in difficoltà.

La risposta all’autismo, leggerete anche questo, si sviluppa tra l’altro con una Fondazione che eroga servizi innovativi, contando su strutture moderne di accoglienza. Nascono e si sviluppano progetti partecipati di innovazione nel welfare (il welfare «a chilometro zero») che coinvolgono la gente comune.

I commercialisti si mettono gratuitamente a fianco del volontariato per fornire consulenze sulla riforma del Terzo settore e così via. Nella provincia di Bolzano invece il Centro servizi al volontariato si è costituito poco più di un anno fa.

«Abbiamo un sistema di volontariato capillare - racconta il vicepresidente del Csv Sergio Bonagura  con una grande densità di organizzazioni di protezione civile, sportive, culturali, ricreative. È in tutti i paesi e in prevalenza di lingua tedesca.

Possiamo dire che nel 90 per cento del territorio c’è un presidio ambientale e culturale importante».Anche la dimensione economica di queste terre è molto «sociale»: caratteristica peculiare di un territorio in cui c’è una specie di convergenza fra economia sociale e realtà del Terzo settore.

Qua si trova la radice dell’economia solidale con i Gruppi di acquisto nati ormai decenni fa. E va da sé che la dimensione comunitaria si esprima anche nei settori economici dove la cooperazione svolge un ruolo fondamentale.

Secondo i dati del centro di ricerca Euricse, nel 2017 il valore aggiunto della cooperazione trentina è stato di 2,35 miliardi di euro, cioè il 13,6 per cento del prodotto interno lordo provinciale. Nel settore lavorano in 43mila e fra il 2012 e il 2017 gli addetti in cooperativa sono aumentati del 26,6per cento.

«Il ruolo della cooperazione nel sistema economico trentino -spiega il ricercatore di Euricse, Eddi Fontanari- è decisamente rilevante. Alcuni settori come l’agricoltura, il commercio (soprattutto alimentare), l’intermediazione monetaria e l’assistenza sociale raggiungono percentuali di incidenza notevoli».

Anche le cooperative sociali hanno un peso rilevante. «Quelle di tipo A - prosegue Fontanari prestano la loro attività a favore di 19 mila persone, mentre le cooperative di tipo B inseriscono nel mondo del lavoro almeno 1.250 persone svantaggiate».

La loro attività è strettamente legata alla pubblica amministrazione: il 65,8 per cento vive in prevalenza di entrate pubbliche, contro il 43,8 per cento del dato nazionale. «Tuttavia - spiega Fontanari - il rapporto col pubblico è regolato da contratti di vendita di beni e servizi e non basato sulla mera erogazione di contributi».

Un quadro invidiabile, ma le sfide sono molte. E la prima riguarda la capacità di fare rete fra le tantissime realtà. Anche perché proprio il forte senso di comunità, in quanto legato anche all’autonomia e all’identità, finisce a volte per diventare un freno.

«Il Csv spiega Casagranda lavora nella logica della rete, anche con le istituzioni. Ma intrecciata a questa sfida c’è quella del ricambio generazionale: spesso nascono associazioni che fanno le stesse cose perché non c’è ricambio nelle esistenti. Stiamo facendo un forte lavoro nelle scuole per far prendere consapevolezza ai giovani e proporsi in modo efficace».

«Un’altra grande sfida prosegue riguarda il rapporto con la pubblica amministrazione. Non vogliamo morire di burocrazia e ce n’è troppa, anche in relazione al nuovo codice del Terzo settore. Le associazioni hanno timore dei troppi adempimenti.

Così come serve più attenzione a riconoscere e sostenere il volontariato: nella pubblica amministrazione operano persone illuminate e capaci, ma a volte non si capisce che il volontariato ha dei costi e vanno coperti tutti, anche per valorizzare la gratuità che ci anima».

Non da meno sono le sfide della cooperazione sociale. «Una di queste - spiega Fontanari riguarda il miglioramento della collaborazione con la pubblica amministrazione: puntare sempre più al potenziamento del lavoro di rete, costruendo legami economici e progettuali sia tra di loro che con le altre imprese.

È infine fondamentale la ricerca di una diversificazione dei settori d’attività. In tal senso poco è stato fatto, per esempio, per favorire un loro sviluppo nei servizi sanitari».

La storia dell’uomo sempre ubriaco che autoproduce birra nel suo corpo

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di Cristina Marrone

Accusato di guidare in stato d’ebrezza ha negato di aver assunto alcol. I medici hanno scoperto che soffre di una rara malattia: l’auto-brewery syndrome

(Getty images)
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Quando un uomo di circa 40 anni della Carolina del Nord è stato fermato con l’accusa di guida in stato di ebrezza la polizia non ha creduto neppure per un attimo che non aveva bevuto alcol.

L’uomo si è però rifiutato di sottoporsi al test per l’etilometro, allora è stato portato in ospedale dove il sul livello di alcol nel sangue è risultato dello 0,2%, all’incirca due volte e mezzo il limite legale, l’equivamente di una decina di drink all’ora.

Neppure i medici, almeno all’inizio, hanno creduto alla sua versione: sembrava impossibile che non avesse bevuto neppure un bicchierino.
Il processo di fermentazione
I ricercatori del Richmond University Medical Center di New York alla fine hanno però scoperto che l’automobilsta diceva la verità: non stava bevendo birre o cocktail. Piuttosto nel suo intestino è stato trovato lievito che convertiva i carboidrati ingeriti come alimenti in alcol.

In altre parole, il suo organismo era in grado di produrre birra. Il risultati di questa osservazione sono stati riportati sul BMJ Open Gastroenterology.

Al paziente è stata diagnosticata una condizione medica rara: l’auto-brevery syndrome (ABS), nota anche come sindrome della fermentazione intestinale. In poche parole l’uomo risultava in grado di produrre birra nel proprio intestino: quando il paziente mangiava un pezzo di pane o un piatto

di pasta il lievito presente nel proprio organismo dava inizio a un vero e proprio processo di fermentazione degli zuccheri, che venivano trasformati in etanolo.

«Questi pazienti hanno le stesse problematiche degli alcolisti: odore d’alcol, respiro pesante, sonnolenza, andatura barcollante. Si presentano proprio come le persone intossicate dall’alcol,

con l’unica differenza che questi pazienti possono essere trattati con farmaci antifungini» ha commentato alla Cnn Fahad Malik, autore principale dello studio.
Terapie antifungine
Dopo anni di peregrinare tra ospedali, giurando di non bere un goccio d’alcol, l’uomo «ubriaco» è caduto a terra battendo la testa. I medici continuavano a non credergli.

Alla fine, disperato, ha cercato aiuto nei gruppi di auto soccorso online e si è messo in contatto con i ricercatori del Richmond University Medical Center che hanno capito il problema, sospettando che gli

antibiotici assunti anni prima dal paziente per curare un’infezione al pollice avessero alterato il suo microbioma intestinale, permettendo ai funghi di crescere nel suo tratto intestinale.

I ricercatori hanno allora utilizzato terapie antifungine e probiotici per cercare di normalizzare i batteri dell’intestino. A parte una ricaduta quando il paziente ha mangiato pizza e cola senza avvertire i medici, la terapia sembra funzionare.

«Un anno e mezzo dopo l’inizio della terapia il paziente ha ripreso uno stile di vita normale, compresa la dieta» dicono i medici.

Re Cecconi, i dubbi di Maestrelli jr: «Ero lì. Mai creduto allo scherzo della rapina»

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Fabrizio Peronaci

Gennaio 1977, il calciatore della Lazio fu ucciso in una gioielleria. Massimo, figlio dell’allenatore, tornava a casa con il gemello: «La frase “Fermi tutti, questa è una rapina” non può averla detta, non era da lui. Morendo, ci rivolse un sorriso dolce...»

Luciano Re Cecconi, Giorgio Chinaglia e Tommaso Maestrelli. Nel riquadro, Massimo Maestrelli
Luciano Re Cecconi, Giorgio Chinaglia e Tommaso Maestrelli. Nel riquadro, Massimo Maestrelli

«Io c’ero, fuori da quella gioielleria. Era buio, faceva freddo. Babbo ci aveva lasciato da poco più di un mese e in quegli istanti, steso su un marciapiede a due passi da casa, in attesa dell’ambulanza che tardava, se ne stava andando anche Cecco...»

Bella e terribile, la vita.
«Vero. Ci aveva riservato la gioia più grande e ora ci presentava un duro conto...»

Lui era a terra e…
«Cecco era stato portato fuori dal negozio e giaceva sull’asfalto, con la testa sostenuta da qualche passante…»

Maestrelli, Re Cecconi.
Il mister dello scudetto e la mezzala imprendibile quando scattava sulle fasce. Trionfi e tragedie. Radiocronache sportive e fattacci di nera.

Era appena iniziato un anno cruciale della storia italiana, spartiacque tra la fantasia al potere e il crepitio delle armi, quando la traiettoria tragicamente perfetta di un colpo di pistola Walther 7.65 consegnò alla storia cittadina una delle pagine più sconvolgenti.

18 gennaio 1977, ore 19.30.
Il calciatore della Lazio Luciano Re Cecconi, 28 anni, sposato, due figli, entrando con il collega (terzino) Pietro Ghedin nella gioielleria di un amico in via Nitti, alla Collina Fleming, pensò di fare uno scherzo, stando alla versione accreditata.

Si tirò su il bavero ed esclamò: «Fermi tutti, questa è una rapina». L’orefice, Bruno Tabocchini, fu una saetta: impugnò la pistola che teneva sotto il banco e fece fuoco. Un unico colpo. Al cuore. Re Cecconi ebbe solo il tempo di dire, stramazzando, «ma io scherzavo…»

Massimo Maestrelli, figlio dell’allenatore dello scudetto della Lazio nel 1974
Massimo Maestrelli, figlio dell’allenatore dello scudetto della Lazio nel 1974

Titoli di scatola sui giornali. Lo sport in lutto. L’Italia sconvolta dall’atrocità del destino. In una frazione di secondo, il tempo di uno sparo, due famiglie si ritrovarono legate indissolubilmente. Due cognomi-idolo della curva Nord, gli artefici, assieme a “Giorgione” Chinaglia, del tricolore del 1974.

Papà Tommaso, l’allenatore di quei fenomeni, era morto il 2 dicembre 1976 per un tumore. Massimo Maestrelli, broker, ex procuratore di calcio, oggi ha 56 anni ed è l’unico che può ricordare… Anche Maurizio, il fratello gemello, è mancato. Anche la sorella Patrizia. Sempre lo stesso male.

La memoria selettiva l’aiuta a scartare i ricordi brutti?
«Macché, mi sembra ieri. Avevo 14 anni e quella sera io e Maurizio tornavamo dalle ripetizioni di latino da casa di nostra cugina Bina, a circa 200 metri. Man mano che ci avvicinavamo, il brusio cresceva.

Ci guardammo perplessi e arrivati davanti al negozio, infilandoci nella folla, capimmo: Cecco era stato portato fuori e giaceva per terra, il capo tenuto su da qualche passante. Facemmo in tempo a guardarlo in viso e chiedergli cosa fosse successo.Lui ricambiò con lo sguardo dolce. Ma non parlò, era come stordito».

L’Angelo biondo, così lo chiamavate.
«Ci legava un affetto fortissimo. Babbo non voleva che i suoi calciatori avessero contatti con noi quattro figli, soprattutto per evitare storie con le mie due sorelle, ma con lui aveva fatto eccezione.

Già dai tempi di Foggia, Cecco ci veniva a prendere una volta a settimana per portarci al cinema, a mangiare una pizza, il gelato. Avrò avuto sette anni... Nel film “Ninì Tirabusciò” Monica Vitti s’era alzata la gonna, facendo “la mossa”, e io e Maurizio restammo colpiti, emozionati. Lui era con noi. Restò il nostro segreto con Cecco».

Quella sera, in via Nitti…
«Tutti ci guardavano come i fratellini minori, qualcuno ci tirò in disparte. L’ambulanza non arrivava e Cecco fu caricato su un’auto. Tornammo di corsa a casa, tra le braccia di mamma, a raccontarle cosa era successo, ma l’aveva già saputo da un’edizione speciale del tg.

Poi tutti noi Maestrelli andammo all’ospedale San Giacomo, ma Cecco era volato via».

Muore giovane chi al cielo è caro.
«Ci ho pensato. Io e Maurizio ci siamo detti tante volte “se fossimo arrivati cinque minuti prima, Cecco si sarebbe fermato a parlare con noi e sarebbe vivo”. Sembrerà strano, ma da quel doppio terribile lutto, la mia famiglia ha tratto valori positivi.

Ci ha insegnato ad affrontare gli altri dolori e a capire che c’è qualcosa, oltre la vita su questa terra».

Maestrelli – Re Cecconi, sodalizio unico.
«Emozioni da riempire una vita. Cecco con babbo a Foggia, babbo alla Lazio che chiede Cecco e Bigon, Lenzini che ne concede uno solo e lui sceglie Cecco. Lo scudetto vinto, purtroppo, contro il “loro” Foggia. Entrambi campioni e volati troppo presto.

Babbo portato al funerale dai suoi ragazzi, e Cecco davanti, impermeabile bianco e occhi gonfi: un’immagine che ancora mi commuove».

La ricostruzione dello scherzo è stata posta in dubbio. Da più parti si è ipotizzato che Luciano quella frase non l’abbia pronunciata e che sia andata in modo diverso. Stefano, il figlio che all’epoca aveva due anni, si è poi detto amareggiato, perché suo padre «è stato fatto passare per un cretino». Lei cosa pensa?
«Ci fu molta superficialità da parte di chi volle liquidare tutto parlando del solito calciatore che compiva un gesto stupido, e questo ci fece male. L’opinione pubblica era innocentista, l’orefice fu assolto.

Noi non eravamo nella gioielleria, ma sono sicuro che Cecco non disse nulla, né tantomeno “questa è una rapina!” Non era nelle sue corde. Entrò con Ghedin, mani in tasca e bavero alzato per il freddo, ma senza cappello né sciarpa sul viso.

Ghedin fece a tempo a tirare fuori le mani, vedendo la pistola, Cecco no: il tentativo di scansare il colpo fu fatale, perché espose il petto al proiettile. Se fosse stato fermo…»

L’unico a poter dire una parola definitiva, forse, è proprio Ghedin, in quanto presente.
«Con Pietro ho un bel rapporto, lo vedo spesso, ma non abbiamo mai affrontato cos’è accaduto quella sera. Io non ho chiesto e lui non me ne ha parlato. Peccato»

E ora quel furetto biondo è nella memoria collettiva.
«Quanto accaduto a Luciano ha influito sulla vita della città, non solo sportiva. Oggi chiunque sa chi è stato Cecco: un uomo sano, pulito, di grandi valori.

L’unico di quella Lazio che dopo gli allenamenti faceva qualche giro di campo in più per assaporare l’odore dell’erba, sentire il tono dei muscoli, il respiro dei propri polmoni».

Sente ancora la moglie Cesarina, che tornò subito, vedova giovanissima, a Nerviano, vicino Milano?
«L’ho vista al matrimonio del figlio Stefano, meno di due anni fa. La nostra famiglia, soprattutto mamma, le è stata vicina. Ma da certe tragedie la vera forza va trovata in noi stessi. Lei è stata un leone. Con Stefano c’è una forte empatia.

Ci sentiamo e vediamo, sempre col sorriso sulle labbra. I nostri occhi si illuminano come poche volte ci accade, consapevoli di aver vissuto parallelamente la storia di due grandi uomini, che si sono conosciuti, si sono piaciuti e hanno condiviso grandi gioie, sino alla fine assieme. I nostri papà».

(fperonaci@rcs.it)

Morto Bukovsky, l’ex dissidente russo rinchiuso in manicomio sotto l’Urss

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di ANTONIO CARIOTI

Imprigionato per aver denunciato gli abusi della psichiatria sovietica, era stato scambiato nel 1976 a Zurigo con il segretario del Partito comunista cileno Corvalán

Morto Bukovsky, l'ex dissidente russo  rinchiuso in manicomio sotto l'Urss
Vladimir Bukovsky (1942-2019) in una foto del 2006 (AP Photo/Keystone, Martial Trezzini)

Il suo momento di maggiore notorietà internazionale fu nel dicembre 1976, quando a Zurigo venne organizzato un clamoroso scambio di prigionieri politici. Vladimir Bukovsky, dissidente russo morto domenica 27 ottobre per un arresto cardiaco nella sua casa di Cambridge (in Gran Bretagna), venne

messo in libertà dalle autorità sovietiche, alle quali come corrispettivo il regime militare di Augusto Pinochet consegnò il segretario del Partito comunista cileno Luis Corvalán, imprigionato dopo il golpe dell’11 settembre 1973.

Nato in Unione Sovietica, il 30 dicembre 1942, nella repubblica autonoma della Baschiria (dove la sua famiglia era stata evacuata per via dell’invasione nazista), sin da ragazzo Bukovsky si era mostrato insofferente verso il regime comunista, che manteneva i suoi tratti oppressivi anche dopo la destalinizzazione.

Espulso da scuola nel 1959 per aver diretto una rivistina non ortodossa, nel 1963 Byukovsky era stato arrestato per la prima volta (aveva organizzato a Mosca incontri con letture di poesia non

autorizzate) e rinchiuso in un ospedale psichiatrico: nella logica totalitaria del sistema sovietico il comportamento anticonformista era assimilato alla malattia mentale.

Dimesso dal manicomio nel 1964, Bukovsky aveva proseguito coraggiosamente la sua lotta contro il regime . Nel 1972 era uscito anche in Italia un dossier da lui curato e fatto pervenire in Occidente

l’anno prima, dal titolo Una nuova malattia mentale in Urss: l’opposizione (Etas Kompass), nel quale denunciava gli abusi della psichiatria sovietica contro i dissidenti.

Per questa ragione era stato arrestato e condannato a 7 anni di carcere più 5 di confino. Aveva riacquistato la libertà attraverso lo scambio con Corvalán e poi aveva vissuto per il resto della sua vita in Inghilterra.

Uomo di grande talento anche letterario, Bukovsky aveva raccontato la sua lotta per la liberta nel libro di memorie Il vento va e poi ritorna (Feltrinelli, 1978) e aveva proseguito la sua battaglia contro il comunismo, accusando spesso l’Occidente di eccessiva indulgenza verso Mosca.

Non aveva mai creduto alle riforme di Gorbaciov e solo nel 1991 aveva nuovamente visitato la Russia.Molto critico anche verso Vladimir Putin, Bukovsky si era alleato con gli ambienti dell’opposizione liberale al potere del Cremlino.

E aveva cercato di presentarsi alle elezioni presidenziali russe del 2008 (poi vinte da Dmitrij Medvedev, uomo di Putin), ma la sua candidatura era stata respinta con pretesti formali dovuti anche al fatto che nel frattempo aveva acquisito la cittadinanza del Regno Unito.

Anticomunista convinto, sostenitore della necessità di un processo simile a quello di Norimberga per i delitti compiuti dal regime sovietico, Bukovsky era ostile anche all’Unione Europea, di cui aveva biasimato l’involuzione burocratica nel libro , scritto con Pavel Stroilov, Eurss.

Unione Europea delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Spirali, 2007).

Ha 80 anni, in cura da 42: nel Salernitano il paziente dializzato più longevo d'Italia

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Il Leo Club del Vallo di Diano in collaborazione con i Lions Club di Sala Consilina, Padula Certosa San Lorenzo e Teggiano Polla Tanagro, a Caggiano hanno consegnato a Pietro Raffaele Carucci una targa al termine di un convegno dedicato alla prevenzione delle malattie renali.

Si tratta dell'unico caso in Italia ad aver raggiunto gli 80 anni di vita con 42 anni di dialisi.  Nel corso dei lavori è stata spiegata l’importanza della prevenzione sin dall’infanzia, l'importanza di una sana alimentazione e le ricadute psicologiche della malattia sia sul malato che sulla propria famiglia.

Strage di Gorla, dopo 75 anni le condoglianze degli Usa per la morte dei bambini

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di Giovanna Maria Fagnani

La morte di 184 alunni del 20 ottobre 1944 alla scuola elementare Francesco Crispi. l La lettera inviata dalla console generale Elizabeth Lee Martinez come risposta al sindaco Sala

Strage di Gorla, dopo 75 anni le condoglianze degli Usa per la morte dei bambini

«Esprimiamo le nostre condoglianze alle famiglie delle vittime di questa infausta e terribile tragedia occorsa durante la guerra».

In risposta all’appello del sindaco Giuseppe Sala, dopo anni di silenzi, gli Stati Uniti esprimono cordoglio per la strage di Gorla: il bombardamento della scuola elementare Francesco Crispi, che, settantacinque anni fa, il 20 ottobre 1944, provocò la morte di 184 piccoli alunni fra i 6 e 10 anni, e altre

diciannove persone, fra cui la preside, gli insegnanti, i bidelli e un’assistente sanitaria. Il messaggio per le famiglie, che parla di “infausta e terribile tragedia” arriva da una lettera inviata dalla console generale Elizabeth Lee Martinez, al sindaco.

La scuola fu colpita per errore, durante un bombardamento che aveva come obiettivi le fabbriche della Breda e, forse, la stazione di Greco.

In quel periodo, la città si ripopolava: gli sfollati tornavano alle loro case e i ragazzi riprendevano a andare a scuola, perché, come raccontano ancora oggi i superstiti, “tutti dicevano che la guerra era finita”. Domenica 20 ottobre, alla messa di commemorazione, Beppe Sala aveva chiesto ufficialmente le scuse statunitensi.

“Siamo nel luogo del perdono, ma a volte per ottenere il perdono bisogna chiedere scusa: sarebbe bello se i rappresentanti USA lo facessero, dopo 75 anni” aveva detto il sindaco nella chiesa di Santa Teresa. E, a una settimana di distanza, Sala ha pubblicato sui social la lettera della console.

“Gli Stati Uniti e l’Italia hanno ripreso le relazioni nel 1944 e, da allora, hanno lavorato insieme per costruire una delle relazioni bilaterali per noi più forti, fondata su valori condivisi e impegno comune per la promozione degli ideali di democrazia e di cooperazione internazionale.

Nel doveroso ricordo e nella lezione appresa dalle tragedie della guerra, confidiamo che Stati Uniti e Italia, alleati nella Nato, continuino insieme a affrontare le sfide emergenti” scrive Elizabeth Lee Martinez.

“Una lettera di cordoglio che non annulla anni di silenzi, ma che è un gesto significativo che il sacrificio di quelle innocenti vite meritava commenta il sindaco.

Questo mi rende felice, forse è una piccola cosa e certamente qualcuno potrebbe opporre che sono altre le cose importanti, ma credo che la comunità di Gorla possa apprezzare.

«Io punita dalla scuola perché ho segnalato i maltrattamenti sull’alunna di 6 anni»

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di Eleonora Lanzetti

Una maestra avvisa la polizia dopo che la piccola arrivava in classe impaurita e con dei lividi, ma la preside la sospende: «Violati segreti d’ufficio e danneggiato l’istituto»

«Io punita dalla scuola perché ho segnalato i maltrattamenti sull'alunna di 6 anni»

Più volte si era presa cura di quella bambina di 6 anni che arrivava in classe impaurita e con vistosi lividi addosso. J. C., maestra in una scuola elementare nel Pavese, aveva segnalato alla dirigente scolastica ogni singola violenza subita tra le mura di casa dalla piccola alunna.

Non avendo avuto alcun riscontro, ha deciso di denunciare il fatto a carabinieri, Questura, Procura dei minori e servizi sociali. La dirigente l’ha sospesa dall’insegnamento per un giorno.

I motivi: l’insegnante avrebbe violato il «segreto d’ufficio», ossia «avrebbe tenuto una condotta non conforme alle responsabilità e ai doveri inerenti il ruolo», e causato un danno d’immagine all’istituto.

«Un fatto di una gravità inaudita ha commentato l’avvocato Luisa Flore della Uil, che si sta occupando del ricorso in tribunale contro la sospensione . È stata mortificata un’insegnante che ha avuto solo l’istinto di proteggere una minore vittima di violenze in famiglia».

Maestra, si aspettava un provvedimento disciplinare simile?
«Mi sento ferita. Di certo non pensavo di essere messa in discussione umanamente e come insegnante. Un provvedimento che sembra invitare i docenti a tacere».

Ora si è rivolta ai giudici per chiedere l’annullamento della sospensione. Che cosa la preoccupa di più?
«Mi sono rivolta al giudice del tribunale di Pavia, Donatella Oneto, che pochi giorni fa ha invitato la dirigente scolastica ad annullare la sanzione (udienza aggiornata al 15 dicembre, ndr).

Non lo faccio per i 75 euro in meno di stipendio, ma perché non passi un messaggio sbagliato, gravissimo: non si deve far finta di nulla, essere omertosi davanti a questi episodi. Il mio curriculum finirebbe per essere macchiato per aver agito con coscienza».

A settembre dello scorso anno scatta il campanello d’allarme: la bambina è strana, triste, schiva. Il rendimento scolastico cala, e il clima di terrore che si respirava a casa, con quel padre problematico, inizia a venire a galla.

Compaiono anche i lividi sulle gambe minute della piccola che si rifugia tra le braccia della maestra chiedendo aiuto. La docente, che è anche psicologa, scrive diverse relazioni per avvertire la preside. Senza esito.

Come si è accorta che c’era qualcosa che non andava in quella bambina?
«Ci sono stati segnali preoccupanti sin dall’inizio dell’anno. La piccola era molto introversa e tendeva a isolarsi dai compagni. Anche i voti cominciavano a calare, quindi decisi di capire meglio.

Un giorno il padre si presentò a scuola aggredendoci verbalmente perché sosteneva che avessimo affidato la bambina alla nonna, solo perché era venuta a prenderla. Poi venni a sapere che aveva problemi con l’alcol e che alla madre della bimba era stata tolta la potestà genitoriale.

Nei mesi successivi la bambina era sempre più sfuggente, si metteva in un angolo e piangeva. Avevamo notato anche i lividi: alle compagne aveva confessato che era stato il padre».

La dirigente era al corrente di tutto?
«Ho segnalato tutto alla dirigente, inviando relazioni per posta elettronica, ma non ho mai avuto risposta».

Qual è stato l’episodio che l’ha portata a denunciare?
«Avevo interrogato la bambina ma era impreparata. Conoscendo le condizioni in cui viveva le ho dato 6. Il padre la picchiò lo stesso. Il giorno dopo arrivò piangendo, con i lividi sulle ginocchia; c’è il referto del pronto soccorso, dove la nonna l’aveva portata.

A quel punto ho avvisato ancora la dirigente che mi ha chiesto l’ennesima relazione scritta. Non ci ho più visto: le ho telefonato dicendo che, se non ci fosse stato un intervento della scuola, avrei avvisato le forze dell’ordine. E l’ho fatto. Temevo che la bimba fosse in pericolo. Ho preso coraggio e ho agito per il suo bene».

«Galleria, no al populismo»: scontro Comune-Regione sui negozi storici

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di Andrea Senesi

«Galleria, no al populismo»: scontro Comune-Regione sui negozi storici

Il negozio di elettrodomestici di Lambrate «rischia» di affacciarsi nel salotto buono della città. Una vetrina in Galleria potrebbe insomma non essere più affare riservato alle griffe dell’alta moda o ai grandi gruppi economici.

Una querelle amministrativa, politica e da ieri anche legale, visto che è destinata a essere sbrigata dal Tar. Il tutto nasce alla fine di luglio, quando la Regione a guida leghista licenzia una delibera che impone a tutti i Comuni lombardi di modificare i criteri di formazione

delle graduatorie per le assegnazioni degli spazi demaniali, premiando(fino al 40 per cento della valutazione complessiva) le attività storiche con almeno 40 anni di «residenza» commerciale sul territorio lombardo.

Ora Palazzo Marino annuncia di voler ricorrere al Tar contro il diktat di Palazzo Lombardia. Il timore (confessato) è che i nuovi criteri creino una corsia preferenziale anche per attività o esercizi poco solidi finanziariamente, in relazione a canoni di affitto pubblici così impegnativi.

Il metodo tradizionale Palazzo Marino ha scelto da tempo per i suoi immobili la via della gara pubblica, e solo in circostanze particolari sceglie l’affidamento diretto.

Un sistema che è servito a far schizzare da 8 a 34 milioni di euro la quota di introiti da affitti del Salotto (con una morosità però ancora superiore al milione di euro).

L’assessore al Demanio Roberto Tasca è preoccupato per le conseguenze del provvedimento, visto che l’anno prossimo andranno a scadenza ben 26 negozi del complesso monumentale (un terzo del totale) e che la norma potrebbe intervenire

pesantemente sul meccanismo dei bandi e persino delle eventuali aste. Non solo, però. Il Comune contesta anche il principio politico-culturale che ispira l’intervento dell’altra istituzione.

«Sovranismo e neocentralismo in salsa regionale», attacca l’assessore milanese: «Questo provvedimento esprime intendimenti politici medievali. Lo riteniamo lesivo dei dettami costituzionali e di legge per quanto riguarda l’autonomia dei Comuni.

L’interesse privato non tutelato a danno del bene pubblico». Il Comune farà ricorso al tribunale amministrativo la prossima settimana, dunque.La replica Minimizza invece, o tenta di farlo, l’assessore regionale allo Sviluppo economico Alessandro Mattinzoli:

«Nella delibera citata, la questione sollevata dall’assessore Tasca non è stata oggetto di alcun rilievo da parte dell’Anci (l’associazione che riunisce i Comuni) così come la nostra legge era stata approvata all’unanimità dal Consiglio regionale».

«Tasca aggiunge Mattinzoli ispirandosi a quella
collaborazione spesso richiesta dalla sua amministrazione, avrebbe potuto alzare il telefono e confrontarsi con me per capire in che modo applicare al meglio una legge che ha il solo scopo di favorire la tradizione e il valore delle attività che hanno scritto la storia del nostro territorio».

«Resto a sua disposizione conclude per un confronto politico, certo che non consideri la via giudiziaria amministrativa la cifra della qualità dei rapporti fra Regione e Comune». I commercianti Arbitro del duello istituzionale, Confcommercio.

Nel solco della sua tradizionale prudenza la più grande delle associazioni di categoria non rinuncia però a dire la propria:

«Le imprese che hanno più di 40 anni di attività, e hanno saputo innovarsi e restare sul mercato per così lungo tempo, sono un valore non solo economico per tutta la nostra società. Un valore che deve essere condiviso anche a livello istituzionale».

In ogni caso, conclude la confederazione guidata da Carlo Sangalli, «siamo preoccupati per possibili situazioni di stallo nell’azione a favore di queste importanti realtà imprenditoriali.

Auspichiamo che vengano velocemente risolte le divergenze tra istituzioni che non fanno bene né alle nostre imprese né alla nostra economia».Ma il conflitto istituzionale rischia di travalicare il merito e di diventare tutto politico.

Non solo Regione contro Comune, ma anche sinistra contro destra, «grandi» contro «piccoli».Basta dare un occhio al florilegio di dichiarazioni rintracciate sul tema nel microcosmo della politica lombarda e milanese.

Il leghista Gianmarco Senna, per esempio, presidente della commissione attività produttive del Pirellone: «Noi abbiamo legiferato per sostenere e difendere i commercianti storici milanesi dice e il Comune che fa? Si rivolge al Tar per bloccare questa normativa! Siamo alla follia».

Gianluca Comazzi, consigliere comunale e capogruppo di FI in Regione, è ancora più esplicito: «Le enormità proferite dall’assessore si commentano da sole.

Quello che non posso accettare è l’atteggiamento di questa sinistra liberal e fighetta, che vorrebbe distruggere il concetto stesso di “milanesità” per esclusive logiche di profitto».

Le diverse reazioni Opposta la lettura di Carmela Rozza, consigliera regionale pd che difende il ricorso al Tar: «Il Comune ha tutte le ragioni di impugnare la delibera che invade le sue competenze.

Che una bottega storica possa rimanere dov’è, senza bisogno di partecipare a un bando, lo ha già definito la giurisprudenza ma la delibera va ben oltre, perché entra nel merito nei contenuti del bando e nei punteggi di premialità, favorendo anche chi non occupa storicamente quel luogo.

È una delibera sbagliata, fatta male, che pretende di dettare regole tanto dettagliate da dare la certezza che ci saranno ricorsi. La Lega chiede l’autonomia al governo per imporre il centralismo regionale ai Comuni».
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