repubblica.it
Il 13 settembre su YouTube è stato caricato il trailer di un film che uscirà nelle sale fra qualche giorno. E’ un thriller, si chiama Countdown e racconta la vicenda di una giovane infermiera che scarica una app in grado di dirle esattamente quando morirà. Tra tre giorni, sentenzia la app.
E lì inizia il film. Guardando il trailer, un giovane sviluppatore britannico, Ryan Boyling, che aveva al suo attivo una app di un certo successo sui consigli per viaggiatori gay, decide di farla davvero una app che ti dice quando morirai.
Tra quanti giorni, ore, minuti e secondi. La chiama Countdown, come il film, e la carica sullo store di Apple il 27 settembre. Il successo è immediato: negli Stati Uniti, in Canada, Australia e Finlandia per due giorni è la app più scaricata, davanti a TikTok, YouTube e Whatsapp.
Due giorni, quasi un milione di download dicono, e la Apple improvvisamente la cancella: “troppo minimalista”, la scusa ufficiale. Come se per far finta di predire la morte uno dovesse essere pomposo o retorico.
Poteva finire lì, e invece la casa di produzione del film, la STX, una piccola major californiana, chiama lo sviluppatore e decide di rilanciare la app sullo store rivale di Apple, quello di Android, come strumento di marketing del film. Da questo punto di vista funziona alla grande: sui social è pieno di messaggi di gente che twitta di essere ormai morta, ridendoci su.
Perché ha successo? Per capirlo dobbiamo risalire all’antenato di Countdown: si chiama Death Clock, l’orologio della morte, ed è un sito che calcola la tua morte probabile a partire dalla massa grassa e dallo status di fumatore.
Dal 1998 è rimasto identico a sè stesso, a parte la pubblicità della vitamine e di altri prodotti che allungherebbero la vita. Nel 2006 è nato un altro "death clock" che fra i parametri per il calcolo della probabilità prende in considerazione anche il consumo di alcol e il Paese dove vivi.
La app Countdown è invece totalmente assurda: non c’è nessun ragionamento dietro, nessun calcolo sullo stile di vita. Nessun algoritmo che lavora sui big data. Niente. Quella data che fornisce vale meno di zero. Serve al massimo a farsi una risata. E allora perché la scarichiamo?
Esattamente per questo motivo. Lo dimostra una ricerca scientifica che sarà pubblicata a novembre sulla rivista NeuroImage. L’obiettivo era capire come reagisce il nostro cervello all’idea di morire. I ricercatori hanno scoperto che esiste uno schermo, uno scudo, che ci protegge da un pensiero così tremendo che potrebbe altrimenti schiacciarci.
Al punto che istintivamente non ci crediamo. Pensiamo che sia una cretinata. O che stiano parlando di un’altra persona. E’ questo, in fondo, che ci tiene così attaccati alla vita: la nostra fisiologica, genetica incapacità di pensare che possa finire.
Il 13 settembre su YouTube è stato caricato il trailer di un film che uscirà nelle sale fra qualche giorno. E’ un thriller, si chiama Countdown e racconta la vicenda di una giovane infermiera che scarica una app in grado di dirle esattamente quando morirà. Tra tre giorni, sentenzia la app.
E lì inizia il film. Guardando il trailer, un giovane sviluppatore britannico, Ryan Boyling, che aveva al suo attivo una app di un certo successo sui consigli per viaggiatori gay, decide di farla davvero una app che ti dice quando morirai.
Tra quanti giorni, ore, minuti e secondi. La chiama Countdown, come il film, e la carica sullo store di Apple il 27 settembre. Il successo è immediato: negli Stati Uniti, in Canada, Australia e Finlandia per due giorni è la app più scaricata, davanti a TikTok, YouTube e Whatsapp.
Due giorni, quasi un milione di download dicono, e la Apple improvvisamente la cancella: “troppo minimalista”, la scusa ufficiale. Come se per far finta di predire la morte uno dovesse essere pomposo o retorico.
Poteva finire lì, e invece la casa di produzione del film, la STX, una piccola major californiana, chiama lo sviluppatore e decide di rilanciare la app sullo store rivale di Apple, quello di Android, come strumento di marketing del film. Da questo punto di vista funziona alla grande: sui social è pieno di messaggi di gente che twitta di essere ormai morta, ridendoci su.
Perché ha successo? Per capirlo dobbiamo risalire all’antenato di Countdown: si chiama Death Clock, l’orologio della morte, ed è un sito che calcola la tua morte probabile a partire dalla massa grassa e dallo status di fumatore.
Dal 1998 è rimasto identico a sè stesso, a parte la pubblicità della vitamine e di altri prodotti che allungherebbero la vita. Nel 2006 è nato un altro "death clock" che fra i parametri per il calcolo della probabilità prende in considerazione anche il consumo di alcol e il Paese dove vivi.
La app Countdown è invece totalmente assurda: non c’è nessun ragionamento dietro, nessun calcolo sullo stile di vita. Nessun algoritmo che lavora sui big data. Niente. Quella data che fornisce vale meno di zero. Serve al massimo a farsi una risata. E allora perché la scarichiamo?
Esattamente per questo motivo. Lo dimostra una ricerca scientifica che sarà pubblicata a novembre sulla rivista NeuroImage. L’obiettivo era capire come reagisce il nostro cervello all’idea di morire. I ricercatori hanno scoperto che esiste uno schermo, uno scudo, che ci protegge da un pensiero così tremendo che potrebbe altrimenti schiacciarci.
Al punto che istintivamente non ci crediamo. Pensiamo che sia una cretinata. O che stiano parlando di un’altra persona. E’ questo, in fondo, che ci tiene così attaccati alla vita: la nostra fisiologica, genetica incapacità di pensare che possa finire.