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Countdown, sapere quando morirai. Per poi ridere dell'inaccettabile

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Il 13 settembre su YouTube è stato caricato il trailer di un film che uscirà nelle sale fra qualche giorno. E’ un thriller, si chiama Countdown e racconta la vicenda di una giovane infermiera che scarica una app in grado di dirle esattamente quando morirà. Tra tre giorni, sentenzia la app.

E lì inizia il film. Guardando il trailer, un giovane sviluppatore britannico, Ryan Boyling, che aveva al suo attivo una app di un certo successo sui consigli per viaggiatori gay, decide di farla davvero una app che ti dice quando morirai.

Tra quanti giorni, ore, minuti e secondi. La chiama Countdown, come il film, e la carica sullo store di Apple il 27 settembre. Il successo è immediato: negli Stati Uniti, in Canada, Australia e Finlandia per due giorni è la app più scaricata, davanti a TikTok, YouTube e Whatsapp.

Due giorni, quasi un milione di download dicono, e la Apple improvvisamente la cancella: “troppo minimalista”, la scusa ufficiale. Come se per far finta di predire la morte uno dovesse essere pomposo o retorico.

Poteva finire lì, e invece la casa di produzione del film, la STX, una piccola major californiana, chiama lo sviluppatore e decide di rilanciare la app sullo store rivale di Apple, quello di Android, come strumento di marketing del film. Da questo punto di vista funziona alla grande: sui social è pieno di messaggi di gente che twitta di essere ormai morta, ridendoci su.

Perché ha successo? Per capirlo dobbiamo risalire all’antenato di Countdown: si chiama Death Clock, l’orologio della morte, ed è un sito che calcola la tua morte probabile a partire dalla massa grassa e dallo status di fumatore.

Dal 1998 è rimasto identico a sè stesso, a parte la pubblicità della vitamine e di altri prodotti che allungherebbero la vita. Nel 2006 è nato un altro "death clock" che fra i parametri per il calcolo della probabilità prende in considerazione anche il consumo di alcol e il Paese dove vivi.

La app Countdown è invece totalmente assurda: non c’è nessun ragionamento dietro, nessun calcolo sullo stile di vita. Nessun algoritmo che lavora sui big data. Niente. Quella data che fornisce vale meno di zero. Serve al massimo a farsi una risata. E allora perché la scarichiamo?

Esattamente per questo motivo. Lo dimostra una ricerca scientifica che sarà pubblicata a novembre sulla rivista NeuroImage. L’obiettivo era capire come reagisce il nostro cervello all’idea di morire. I ricercatori hanno scoperto che esiste uno schermo, uno scudo, che ci protegge da un pensiero così tremendo che potrebbe altrimenti schiacciarci.

Al punto che istintivamente non ci crediamo. Pensiamo che sia una cretinata. O che stiano parlando di un’altra persona. E’ questo, in fondo, che ci tiene così attaccati alla vita: la nostra fisiologica, genetica incapacità di pensare che possa finire.

Tenta di sgozzare la compagna, per il Tribunale «aveva ottime referenze»

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di Massimo Massenzio

Mohamed Safi in carcere si era distinto «per capacità e comportamento»

Tenta di sgozzare la compagna, per il Tribunale «aveva ottime referenze»
Mohamed Safi

In carcere si era distinto per le sue «capacità» e non aveva mai tenuto un «comportamento che potesse far pensare ad atteggiamenti violenti». Secondo il Tribunale di Sorveglianza Mohamed Safi, il 36enne tunisino che venerdì scorso ha tentato di sgozzare la compagna, era un detenuto modello.

E grazie alle ottime referenze ricevute dal penitenziario di Alessandria aveva ottenuto il trasferimento a Torino per affrontare più agevolmente un percorso riabilitativo.

Proprio durante uno dei permessi ottenuti per lavorare in un bar, Safi, già condannato a 12 anni per l’omicidio dell’ex fidanzata, ha tentato di uccidere la donna di 43 anni con la quale aveva un legame sentimentale da aprile.

La presidente del Tribunale di sorveglianza di Torino, Anna Bello, ha precisato che «la relazione del carcere alessandrino alla fine del trattamento era decisamente positiva». Safi «aveva lavorato nel panificio del penitenziario, distinguendosi per capacità e comportamento.

Era stato a lungo sorvegliato da educatori e psicologi e non è mai emerso nulla che potesse far pensare ad atteggiamenti violenti».
Convalidato il fermo
Il fermo del tunisino, che dopo l’aggressione ha cercato di impiccarsi in ospedale, è stato convalidato ieri dal gip. Ma le polemiche sui benefici concessi a un uomo che già aveva ucciso la giovane fidanzata non si sono placate.

Nel 2008, a Bergamo, Safi aveva pugnalato al petto la 21enne Alessandra Mainolfi e poi aveva chiamato le forze dell’ordine: «Ho ucciso il mio amore». Dopo il processo e la condanna, la sua «buona condotta» era stata premiata con il trasferimento a Torino.

«Era stato spostato perché potesse usufruire del trattamento di lavoro esterno in maniera più ampia — spiega Anna Bello. La direzione del carcere ha chiesto che Safi potesse lavorare all’esterno del penitenziario.

I magistrati di sorveglianza analizzano le ipotesi di trattamento e controllano che queste rispettino la legge». Anche secondo il gestore del bar di Grugliasco, dove aveva trovato lavoro come cameriere di sala, Mohamed Safi era un ragazzo tranquillo.

Ma ha perso il controllo quando ha capito che la nuova fidanzata voleva lasciarlo. La donna aveva scoperto i suoi precedenti e venerdì sera, in via Verres, Safi l’ha inseguita e colpita più volte al volto con una bottiglia di vetro. Sfigurandola.

La polizia cinese vieta il Mahjong e scatena il panico

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Alice Mattei


Giocatori di mah-jong a Chongqing, Cina. China Photos/Getty Images

La polizia della città di Yushan, nel sud-est della Cina, ha annunciato il divieto di giocare a Mahjong durante il fine settimana. La ragione è che si vuole così limitare il gioco d’azzardo illegale e “purificare la condotta sociale”.

La reazione della popolazione, per trazione molto affezionata al Mahjong è stata pesantissima specie tra gli anziani, che considerano il gioco “quintessenza della cultura cinese” e ci sono state proteste (nei limiti di quanto sia possibilei) e richieste ufficiali di riaprire le sale.

In realtà, benché si tratti di un intrattenimento innocuo e, certo, molto amato da anziani e pensionati, il Mahjong proprio perché così diffuso, è diventato con gli anni veicolo di gioco d’azzardo e, spesso, grosse perdite e debiti.

L’idea di vietarlo (per quanto troppo radicale per avere successo) va nella direzione di ridurre la ludopatia tra gli anziani e i debiti che, di conseguenza, arrivano a contrarre.

Il primo «citofono» d’Italia ha la forma di un orecchio e si trova a Milano. Ma dov’è?

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di Rossella Burattino

La scultura in bronzo, in via Serbelloni, è opera di Adolfo Wildt, genio dell’Art Noveau. Finardi la usò per la copertina dell’album «Acustica»

(LaPresse)
(LaPresse)

Non ha la pulsantiera né le etichette con i nomi e i cognomi. Il primo citofono realizzato in Italia ha una forma bizzarra: quella di un enorme orecchio. E si trova a Milano.

Si tratta di una scultura in bronzo, con tanto di padiglione auricolare e di condotto uditivo esterno, posta accanto alla porta di ingresso di «Cà dell’oreggia», soprannome in dialetto meneghino di Palazzo Sola Busca, in via Serbelloni 10.

È un’opera degli anni Trenta firmata da Adolfo Wildt (1868-1931), genio dell’Art nouveau in Italia, tra gli scultori più conosciuti ma anche meno compresi e celebrati dalla critica del dopoguerra avendo realizzato la «Maschera di Mussolini» (1923), simbolo del primo fascismo.

Si affermò negando le nuove tendenze artistiche, come l’Espressionismo e sviluppando una concezione plastica personale.

Il grande orecchio di via Serbelloni, alto 70 centimetri, è stato pensato proprio come un impianto di comunicazione wireless ante litteram per collegare l’interno dell’edificio con l’esterno ed è il frutto dell’idea avveniristica dell’epoca.

Oggi è diventato una piccola fonte di mistero: si racconta che chiunque si avvicini e gli sussurri un desiderio, un giorno lo vedrà realizzato. Sono in tanti, tra cittadini e turisti, a fermarsi proprio lì, spinti dalla voglia di veder concretizzare i propri sogni.

O, almeno, ci provano. Anche l’edificio è un’opera d’arte a cielo aperto. È stato costruito nelle seconda metà degli anni Venti, dall’artista mantovano, milanese d’adozione, Aldo Andreani (1887-1971).

Fu lui a volere un citofono «sotto mentite spoglie» dal grande valore estetico che, oltre ad avere uno scopo pratico, avesse anche un senso allusivo: «Ascoltare la città». È stato scolpito da Wildt nei minimi dettagli, si possono ammirare addirittura ciocche di capelli riccioluti.

Serviva ai visitatori per parlare con il custode che si trovava nella portineria del palazzo, il quale provvedeva, poi, ad annunciare la visita alle famiglie che vi abitavano. «Wildt ha trasformato un semplice orecchio in un capolavoro di virtuosismo e decorazione.

Ma è tutto il quartiere dietro corso Venezia ad essere espressione di una Milano intelligente racconta Marco Magnifico, vicepresidente esecutivo del Fai -. Un luogo bucolico, circondato dal verde, considerato come una piccola “periferia agreste.

Tra le vie Mozart, Cappuccini e Serbelloni si è affermato un linguaggio artistico moderno e internazionale di una borghesia che voleva osare anche nelle costruzioni edili. È la zona dei grandi architetti dell’inizio Novecento, in uno stile a metà tra l’Art deco e l’ecclettico, con richiami anglofoni, al liberty e ai dettagli francesi e belgi.

Adolfo Wildt, in pochi metri, è presente con tre opere: una scultura a palazzo Berri Meregalli, l’orecchio a palazzo Sola Busca e il “Puro folle” o “Parsifal” a Villa Necchi Campiglio».

Una curiosità: l’orecchio-citofono è stato utilizzato dal cantautore milanese Eugenio Finardi per la copertina del suo album «Acustica» (1993).rburattino@corriere.it

Bicicletta, l’eretica irresistibile

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di GIAN ANTONIO STELLA

Papa Pio X vietò il «velocipede» agli ecclesiastici ma la proibizione non resse. Il saggio di Stefano Pivato (il Mulino) su un mezzo che trasformò le abitudini degli italiani

Bicicletta, l'eretica irresistibile
Bambine in bicicletta nella fotografia di Ezio Quiresi, «Primo giorno di scuola a Bonelli nel Delta del Po», scatto datato 1° ottobre 1964

«L’Esperto è venuto a casa con me per insegnarmi. Abbiamo scelto il cortile posteriore, per la privacy, e ci siamo messi all’opera. La mia non era una bicicletta adulta, ma solo una puledra, da un metro e venticinque, con pedali accorciati a un metro e venti, e ombrosa, come tutti i puledri.

L’Esperto ha spiegato in breve i punti principali della questione, quindi è salito in sella ed ha pedalato un po’ in giro, per mostrarmi quanto era facile. Ha detto che scendere era forse la cosa più difficile da imparare, e che quindi l’avremmo lasciata per ultima.

Ma su questo si sbagliava. Si è accorto, con sorpresa e gioia, che tutto quello che doveva fare era dimettermi sulla macchina e togliersi da davanti: ce la facevo da solo a scendere. Pur essendo del tutto inesperto, sono sceso a tempo di record.

Lui era da una parte, e spingeva la bicicletta, siamo andati tutti giù con uno schianto, lui sotto, poi io e la bicicletta sopra tutti». Solo quel genio spiritoso di Mark Twain poteva descrivere, nel racconto Domare la bicicletta del 1884, la prima esperienza su un velocipede.

Esperienza che traumatizzò, al contrario, lo statista Sidney Sonnino che alla seconda lezione non si presentò dicendo che non osava insistere perché «gli causava palpitazioni». E forse solo Stefano Pivato, lo storico già rettore a Urbino e autore di molti libri dedicati a temi apparentemente minori come I terzini della borghesia, Bella ciao.

Canto e politica nella storia d’Italia, Il secolo del rumore. Il paesaggio sonoro nel Novecento o I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda poteva mettere insieme un mosaico di personaggi, panorami sociologici, avventure, curiosità, approfondimenti e aneddoti spassosi come in Storia sociale della bicicletta, che esce oggi per il Mulino.

«Traverso le viti di una bicicletta si può anche scrivere la storia d’Italia», scrisse un giorno Gianni Brera. Vero. Perfino le «fake-poesie», se vogliamo chiamarle così, posso descrivere un’epoca. Due strofette a caso: «Il tuo corpo divino/ sull’acciaio brunito/ campeggerà qual mito/ del rapido destino».

Gabriele d’Annunzio? No, risponde lo storico: «Quella poesia, al di là degli orecchiamenti alla retorica dannunziana, non sembra appartenere al poeta ed è verosimilmente da considerarsi come una trovata pubblicitaria dei produttori di biciclette».

I quali, appena fiutarono come potesse aprirsi un mercato enorme per i «velocipedi» (ancora oggi la burocrazia italiana li chiama così: «veicoli con due o più ruote funzionanti a propulsione esclusivamente muscolare, per mezzo di pedali o di analoghi dispositivi») si buttarono sull’affare.

Andando a caccia, ad esempio, dei parroci, dei cappellani, dei pretini di campagna. I quali, oltre ad avere davvero bisogno del nuovo mezzo di locomozione per accorrere a un battesimo o dar l’estrema unzione a un poveretto, sarebbero stati dei formidabili testimonial del prodotto.

«Vade retro, bicicletta!», tuonò il vescovo di Mantova Giuseppe Sarto, futuro Papa Pio X, in un messaggio alla sua diocesi: «Siccome questa novità minaccia di essere adottata anche da qualcheduno del clero, ordino che se ne astengano affatto gli ecclesiastici di questa diocesi».

E da Papa confermò: no. Certo, un grande vescovo come Geremia Bonomelli non era d’accordo: «In questa mia diocesi vi sono parrocchie vastissime, che hanno il circuito di 10, 15, 20, 25 e più chilometri, con buona parte della popolazione che dista uno, due, quattro, sei e più chilometri dalla residenza parrocchiale.

Non tutti possono avere cavallo e carrozza, e per questo alcuni parrochi e coadiutori, anche di grande pietà, usano delle biciclette per recarsi a visitare gli infermi…»

Spiega Pivato che la bicicletta, come prima il treno bollato come «opera diabolica» (al che Carducci aveva risposto con l’Inno a Satana) non era vista solo «come simbolo di modernità ma anche di

modernismo, cioè di quella corrente riformista in odore di eresia che all’interno della Chiesa cattolica sostiene la necessità di un confronto con la civiltà del Novecento». Neppure la devozione al Papa, però, fu in grado di fermare i preti di campagna.

«Può il sacerdote nel caso d’un ammalato grave inforcare la bicicletta nonostante il superiore divieto?», chiede nel 1910 il parroco di un paesino ravennate sul bollettino parrocchiale. La risposta era nella domanda. E un po’ alla volta il divieto evaporò.

Dal primo velocipede apparso ad Alessandria nel 1867 tra lo stupore generale (l’industriale della birra Carlo Michel l’aveva comprato a Parigi: era tutto di legno e in inglese si chiamava bone-shakers, cioè scuoti-ossa) fino ai tempi più recenti, nel libro c’è di tutto.

Il manuale che a fine Ottocento invita i novizi a scegliere una strada larga «almeno sei metri» e «lunga 25 o 30 metri e in discesa». Le pubblicità che, per ovviare al problema dei cani che attaccavano le due ruote, strillavano: «Ciclisti, armatevi!

Nelle attuali condizioni della pubblica sicurezza in Italia, un buon revolver è indispensabile». Non mancano consigli più divertenti ancora: «Il principiante dovrà, a poco per volta (…) apprendere a frenarsi co’ piedi» per «la facilità che hanno i caucciù di deteriorarsi».

E la donna? Si consiglia «un luogo molto remoto, in campagna magari (…) sul calar della notte». E poi le invenzioni più estrose come «il triciclo Torre Eiffel», una pompa per i pompieri alta quattro metri!

Perfino Emilio Salgari, che aveva un amico che nel 1895 arrivò in bicicletta fino al Circolo polare artico, ne immaginò una pazza, ma strepitosa: «Un velocipede composto da otto ruote, due più grandi e più solide, le altre eguali, accoppiate a due a due in modo da potersi, all’occorrenza, trasformare in tre biciclette».

Ma come dimenticare il milanese Luigi Masetti, «l’anarchico delle due ruote» che da Milano arrivò a Chicago in bicicletta, fatta salva la traversata in mare?

Certo, lui era un pioniere ma dietro, nei decenni, l’Italia intera scoprì con la bicicletta cosa fosse la possibilità di muoversi, spostarsi, uscire dalla propria contrada, dalla propria città… Nel 1900 c’erano 109.019 biciclette per 23 milioni di italiani, nel 1919 ben 1.363.936, vent’anni dopo 4.935.000.

Un aumento straordinario, che accompagnò l’emigrazione, la Grande Guerra (si pensi a Enrico Toti, che aveva perso una gamba sotto un treno e prima di gettare la stampella al nemico aveva girato tutta l’Europa grazie a una bici con un solo pedale), il biennio rosso e le lotte operaie (imperdibile una reclame: «Carlo Marx! Pneumatico dei socialisti italiani.

Compagni ciclisti! Provate la gran marca rossa. Invincibile, garantita») e infine la Resistenza. Che vide in bicicletta, come staffette o per portare documenti ai partigiani o agli ebrei in fuga personaggi formidabili come Gino Bartali o don Primo Mazzolari.

Prete sì ma così legato alla sua bicicletta che, pazienza per l’ostilità di qualche Papa, l’aveva pure battezzata: Giannina.

Greta Thunberg, il suo nome assegnato a un coleottero: tutti gli insetti con nomi famosi

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L’omaggio arriva dal Museo di Storia Naturale di Londra dove è stato scoperto il nuovo coleottero. La scelta motivata dall’impegno dell’attivista a favore dell’ambiente

Un insetto di nome Greta

«È appropriato dare a una delle specie scoperte più di recente il nome di chi sta lavorando così tanto per sostenere il mondo della natura e proteggere le specie vulnerabili».

Così Max Barclay, curatore del Museo di Storia Naturale di Londra, ha commentato la scelta di chiamare un nuovo insetto come la giovane attivista svedese Greta Thunberg.

Il nome scientifico ufficiale è Nelloptodes gretae bears. Il coleottero è stato scoperto dal dottor Michael Darby che stava studiando una collezione conservata proprio tra le mura del museo.

L’insetto era stato in realtà individuato per la prima volta in Kenya nel 1960 da William Block, che successivamente aveva donato le sue scoperte all’esposizione. Tuttavia, non aveva ricevuto un nome ufficiale.

Ci ha pensato quindi Darby a battezzarlo scegliendo proprio il nome di Greta in quanto «immensamente impressionato» dalla sua campagna a favore dall’ambiente. Il minuscolo scarafaggio misura meno di un millimetro, è di colore giallo e non ha ali, né occhi, ma possiede due lunghe antenne.

Quello legato all’attivista svedese non è il primo caso in cui un nuovo animale viene chiamato come un personaggio famoso...



Bob Marley e il parassita marino
Nel 2012 a un piccolissimo parassita crostaceo del mar dei Caraibi è stato chiamato Ganthia marleyi in onore del leggendario cantante reggae Bob Marley morto nel 1981 a soli 36 anni. «Ho scelto questo nome perché ho un grande rispetto e ammirazione per la musica di Bob Marley», disse Paul Sikkel, biologo marino autore della scoperta.



La chioma di Beyoncé come quella di un... tafano
Restando nel mondo della musica, anche Beyoncé ha avuto un simile onore. Il suo nome è andato a un esemplare di tafano, lo Scaptia beyonceae, per scelta di Bryan Lessard.

Lo scienziato è rimasto impressionato dal colore ambrato dell’addome dell’insetto. Riflessi dorati che evidentemente gli hanno ricordato quelli della chioma della cantante. Chissà come l’avrà presa lei...



Kate Winslet e l’insetto a rischio estinzione
L’Agra katewinsletae, invece, è l’insetto battezzato con il nome di Kate Winslet. All’origine della scelta, il ruolo dell’attrice in Titanic.

L’entomologo Terry Erwin, colpito dalla tenacia con cui Rose DeWitt Bukater resta a galla nelle acque gelate dell’Atlantico dopo l’affondamento della nave, scelse il suo nome nella speranza che la specie riuscisse a sopravvivere come il personaggio.

«Non siamo in grado di dire se per l’insetto sarà lo stesso, soprattutto se tutte le foreste pluviali saranno trasformate in terreni da pascolo».



Hugh Hefner: dalle conigliette ai conigli
A Hugh Hefner, scomparso nel 2017, è andata un po’ meglio. Lo storico fondatore di Playboy, la rivista sexy delle «conigliette», ha regalato il suo nome proprio a un coniglio.

Nello specifico si tratta di un coniglio delle paludi scoperto nel sudest degli Stati Uniti. Si chiama Sylvilagus palustris hefneri. Dopo la scoperta, Hefner iniziò anche a fare donazioni per aiutare a proteggere la specie in via di estinzione.



La rana nobile dedicata al Principe Carlo
Come Greta Thunberg, anche il Principe Carlo d’Inghilterra è stato premiato nel 2012 per il suo impegno a favore dell’ambiente, in particolare per il suo lavoro di raccolta fondi per salvare le foreste pluviali. Foreste che sono l’habitat del nuovo esemplare di rana scoperto nel 2008 in Ecuador e chiamato proprio come l’erede al trono britannico: Hyloscirtus princecharlesi.



L’omaggio a George Bush
Dal Regno Unito agli Stati Uniti. Lo scienziato Quentin Wheeler, sostenendo che bisognasse «essere creativi con i nomi» nel 2005 scelse di chiamare un nuovo insetto scoperto come l’ex presidente americano George W. Bush.

Nessuna somiglianza tra l’ex numero uno della Casa Bianca e lo scarafaggio Agathidium bushi. La decisione è stata influenzata dalle preferenze politiche di Wheeler. Bush non si è offeso, anzi. Gli ha telefonato per ringraziarlo del gesto.



Anche Adolf Hitler ha il «suo» insetto
Andando ancora più indietro nel tempo, infine, anche il nome di Adolf Hitler è stato attribuito a un insetto.

Non sorprende che la scelta sia arrivata da un collezionista tedesco nel 1933, ammiratore del dittatore che all’epoca era appena arrivato alla Cancelleria del Reich. La specie, individuata solo in cinque grotte della Slovenia, si chiama Anophthalmus hitleri.

Limite all’uso di contanti, le carte di credito più convenienti

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Addio al contante?
Con il 2020 diremo addio al contante? Secondo quanto scritto nel Decreto fiscale pubblicato a fine ottobre (D.L.124/2019, qui gli effetti principali del decreto che cambia le regole del Fisco) si prevedono una serie di restrizioni per l’uso della carta, per contrastare l’evasione fiscale e rendere tutte le operazioni il più possibile tracciabili.

Quando compreremo un paio di scarpe, o faremo una visita da uno specialista, dovremo ricordarci del denaro digitale, ossia le carte di credito e di debito. Oggi ve ne sono davvero di tutte le tipologie, e quindi come si fa a scegliere? Uno studio di SosTariffe.it ha esaminato i quattro più diffusi tipi di carte, mettendo in luce pregi e difetti.

L’elaborazione dei dati di Sos tariffe

Con il Decreto fiscale collegato alla legge di Bilancio viene introdotto un super bonus legato alle spese tracciabili.

Ecco l’idea della lotteria, da svolgersi nel periodo dell’Epifania, che metterà in palio premi, esenti dalle tasse, per chi ha collezionato scontrini emessi in seguito ai pagamenti elettronici, cui si aggiungeranno altre ricompense estratte a sorte per chi usa di norma carte e bancomat.

Da luglio 2020 poi entrerà in atto il nuovo tetto per i contanti, che limita a 2 mila l’uso, mentre da gennaio 2022 il limite massimo arriverà a 1.000.

Le carte con Iban
Le carte che sono associate a un Iban vengono chiamate carte conto, perché permettono di effettuare operazioni simili a quelle del conto corrente tradizionale. Possono essere usate per farsi accreditare lo stipendio o i bonifici, per esempio.

È una delle tipologie di carte elettroniche più adatte a chi non è mai riuscito a fare a meno delle banconote: sono perfetto perché hanno commissioni minime sui prelievi. In media secondo il report pubblicato da SosTariffe.it, una carta conto con Iban si attiva gratis.

Ogni mese occorre versare un piccolo canone mensile, che si aggira intorno ai 5 euro. La carta consente di effettuare in media sessanta prelievi al mese gratuiti dagli Atm della banca. Superati i quali si pagano in media solo 0,20 euro dagli sportelli della stessa o di altre banche, anche negli altri paesi Ue. In genere si può prelevare fino a un massimo di 457 euro al giorno, su un plafond di circa 24 mila euro.

Zero commissioni anche sui pagamenti tramite Pos.



Le carte a rate
Le carte a rate, dette anche revolving, consentono di ripagare a rate il saldo che si è accumulato nel corso del mese. In pratica la banca, tramite la carta di credito, presta una somma al cliente, che viene spesa e poi restituita a rate con gli interessi.

In media, secondo quanto evidenzia lo studio, ha un canone mensile di 4 euro, a cui aggiungere altri 3,30 euro di attivazione. È adatta per chi abbia bisogno di liquidità immediata per fare shopping, ma sia impossibilitato a restituire tutto il denaro nel giro di poco. Non ha commissioni sui pagamenti tramite Pos.

Presenta anche alcuni «contro»: in media i primi 90 prelievi sono gratuiti, ma i successivi sono molto costosi, sia dalla stessa banca (con commissioni in media pari al 3,31% del prelievo) sia dagli Atm degli altri istituti di credito.

Ancora più alte le commissioni sui prelievi all’estero, nei Paesi esterni all’Ue (in media il 5,15% su quanto prelevato). Ogni giorno, in media, si possono prelevare fino a 456 euro e si ha a disposizione un plafond di circa 10 mila euro.



La carta a saldo
Con questo tipo di carta il cliente ha a disposizione una cifra mensile da usare, che viene sottratta dal conto corrente bancario abbinato, senza interessi aggiuntivi, entro la prima metà del mese successivo.

 È molto versatile ma al tempo stesso piuttosto costosa. Il canone mensile medio dei prodotti sul mercato al momento si aggira sui 6 euro, cui aggiungerne altri 2,57 per l’attivazione.

È indicata per chi può contare su entrate mensili significative, come ad esempio i liberi professionisti.Il plafond, in media di 26.500 euro circa, è spesso personalizzabile. Si possono prelevare fino a 607 euro al mese, più di tutte le altre carte.

Lo svantaggio è che le commissioni sui prelievi sono elevate: si va dal 3,31% sui prelievi dagli Atm della stessa banca, fino al 5,10% quando ci si trova in località al di fuori dell’Ue. Molto care (in media 1,50%) anche le commissioni per pagare con il Pos all’estero, nei Paesi che non fanno parte dell’Unione europea.



Le carte prepagate e ricaricabili
Uno dei principali vantaggi delle carte prepagate è che non devono essere necessariamente associate a un conto corrente. È sufficiente ricaricare l’importo desiderato quando c’è necessità.

Ecco perché sono ideali per i più giovani: adolescenti o universitari che non abbiano liquidità sufficiente ad aprire un conto, in banca o alla Posta, per esempio.

A fronte di un canone mensile quasi gratuito 0,61 euro in media a cui aggiungere 5,57 euro di attivazione, è possibile effettuare almeno 75 prelievi gratuiti ogni mese, fino a un tetto massimo di 567 euro su un plafond di 11 mila euro.

Chi supera la soglia mensile di prelievi allo sportello, tuttavia, dovrà farsi carico di commissioni più elevate rispetto alle carte conto, ma ancora da considerare convenienti. Ad esempio, pagherà 0,43 euro prelevando allo sportello del proprio istituto e 1,88 agli Atm delle altre banche.






Francisco Franco, le spoglie del dittatore traslate dalla Valle de los Caídos a un cimitero pubblico

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di Silvia Morosi

I resti del Caudillo, che si trovavano nel monumento costruito alle porte di Madrid per commemorare le vittime della Guerra Civile, vengono spostati in una cripta privata, dove già riposa la vedova. Alla cerimonia 22 discendenti della famiglia del dittatore

Francisco Franco, le spoglie del dittatore traslate dalla Valle de los Caídos a un cimitero pubblico

È trascorso più di un anno da quando, dopo un ampio dibattito parlamentare, è stata approvata la traslazione delle spoglie di Francisco Franco dalla Valle de los Caídos, vicino a Madrid, a una tomba di un cimitero pubblico della capitale: 172 voti a favore, 2 contrari e 164 astenuti.

I resti del Caudillo che sino a giovedì 24 ottobre si trovavano nel monumento costruito per commemorare le vittime della Guerra Civile (1936 - 1939) vengono così trasferiti al cimitero El Pardo-Mingorrubio, dove già si trova la vedova di Franco, Carmen Polo.

La famiglia di Franco avrebbe preferito che i resti fossero trasferiti nella cattedrale di Almudena, a Madrid. L'intera operazione avviene alla presenza di 22 discendenti del dittatore, della ministra della Giustizia Dolores Delgado, di un esperto forense e di un prete. Le spoglie verranno, poi, trasportate in elicottero, con un ampio dispiegamento di sicurezza.

Una cerimonia privata
L’esumazione, lontano dalle telecamere, è partita alle 10.30 del mattino: la stampa è rimasta all’esterno della basilica. Il governo ha negato la richiesta di parenti e nostalgici di avvolgere il feretro di Franco nella bandiera spagnola (come in occasione della prima sepoltura, ndr).

«Si tratta di fantascienza», ha chiarito il premier socialista Pedro Sánchez. Come riporta El Pais, i nostalgici della dittatura franchista si sono opposti fino all'ultimo all'esumazione, anche inviando all'azienda Mármoles y Granitos Hermanos Verdugo Jiménez S.L.incaricata di sollevare i marmi della tomba diverse minacce telefoniche.

Permessi di soggiorno per i migranti, l’escamotage dell’orientamento sessuale

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di Francesca Ronchin


«Vuoi un permesso di soggiorno? Dichiarati gay»: il trucco di alcuni degli avvocati che seguono le pratiche per i migranti che arrivano in Italia. Cosa dice la normativa e le risposte degli addetti ai lavori

Come ottenere il permesso di soggiorno quando le possibilità si contano sulle dita di una manoDichiarandosi omosessuale.

L’escamotage deve essere prassi piuttosto comune se la risposta che ci sentiamo ripetere dai migranti incontrati è quasi sempre la stessa: «Il mio avvocato mi ha detto che se voglio il permesso di soggiorno, devo prendere la tessera dell’Arcigay».

Quando poi ai nostri interlocutori chiediamo se sono gay, anche qui la risposta si ripete: «No, sono eterosessuale». Un ragazzo del Senegal ci racconta addirittura di avere moglie e figli e di sperare che un domani possano raggiungerlo in Italia.

Il motivo dell’espediente è semplice: ottenere il permesso di soggiorno. Un documento che per alcuni, in Italia da quasi dieci anni, sembra ormai un miraggio.

I casi in oggetto infatti fanno parte di quel 60/70% di migranti che ogni anno vengono respinti dalle Commissioni Territoriali del Ministero dell’Interno perché «migranti economici».

Una volta ricevuto il diniego però si può fare ricorso grazie al supporto di un avvocato messo a disposizione dallo Stato nella forma del gratuito patrocinio.

Probabilmente qui ci troviamo di fronte alle situazioni più «difficili», quelle dove in assenza di elementi biografici o geopolitici tali da giustificare quel «timore fondato di persecuzione« che in base alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 è condizione necessaria alla protezione, non resta che «giocare la carta gay».

In base ai protocolli collegati alla Convenzione sui Rifugiati e per l’Italia al decreto legislativo n.251, 2017, lo status di rifugiato non spetta solo a chi scappa da guerre e persecuzioni politiche ma anche a chi si trovi in pericolo di vita a causa del proprio orientamento sessuale.

Solo in Africa ci sono almeno 33 Stati dove l’omosessualità è reato e in 4 di questi (Mauritania, Sudan, Nigeria e Somalia) è prevista la pena di morte.

Proprio per i migranti Lgbt, ogni due settimane l’Arcigay di Roma organizza degli incontri che a quanto si legge sul sito sembrerebbero gruppi di ascolto finalizzati a facilitare i nuovi arrivati nel loro percorso d’ integrazione.

In realtà è proprio uno dei coordinatori a spiegarci che la loro vera funzione è quella di preparare i ragazzi alle udienze nei tribunali. «Nel 99,9 % dei casi, i migranti che vengono da noi non sono gay, sono qui solo perché hanno bisogno dei documenti.

Per ottenerli però devono risultare convincenti di fronte ai giudici e per chi è eterosessuale e proviene da Paesi dove i gay non sono accettati, non è certo facile. Noi proviamo ad aiutarli a combattere la loro omofobia e a sentirsi a loro agio nei “panni gay”».

A quanto pare non siamo stati gli unici a cadere nel malinteso. Star, 27 anni, originario dell’Iraq, è gay e rientra in quel 7% di migranti che nel 2018 ottengono lo status di rifugiato al primo colpo.

Alle spalle ha diverse violenze, molte di queste subite anche in famiglia dove la scoperta dell’esistenza di un fidanzato arriva come un macigno che romperà per sempre legami di sangue scatenando aggressioni violente seguite da lunghi ricoveri in ospedale.

Quando arriva in Italia, gli operatori del centro di accoglienza gli consigliano di frequentare l’Arcigay; un modo per non sentirsi solo e trovare altre persone come lui. Purtroppo però ci mette poco ad accorgersi che di gay non c’è quasi nessuno e dopo qualche tentativo smette di frequentare.

«Ho incontrato ragazzi che pensavano fossi malato, che andavano agli incontri solo per capire come ottenere i documenti» racconta.

Del resto l’omosessualità è una delle caratteristiche più difficili da verificare e la frequentazione dell’Arcigay e la tessera possono essere elementi sufficienti a convincere il giudice che il migrante che dichiara di essere perseguitato a causa del proprio orientamento è effettivamente gay.

La materia è talmente delicata che con una sentenza del 25 gennaio 2018 la Corte di Giustizia Europea ha vietato i test psicologici sostenendo che sottoporre il richiedente asilo ad accertamenti che ne verifichino l’orientamento sessuale rappresenta «una grave ingerenza nella vita privata».

Non solo, secondo l’Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) nel caso di omosessualità, l’unica evidenza di cui si può disporre è la dichiarazione del migrante stesso.

E dunque, così come può essere talvolta difficile per il migrante dimostrare il proprio orientamento sessuale davanti a una Commissione Territoriale, per il giudice che si trovi a valutare il caso in sede di ricorso, è praticamente impossibile verificare che non lo sia.

Proprio per questo il no della Commissione Territoriale, quando il caso arriva in Tribunale, spesso diventa un sì.

«Di fronte a dei dubbi spiega Silvia Albano, giudice civile presso il Tribunale di Roma dobbiamo comunque seguire quella regola di giudizio in base alla quale è preferibile accogliere una persona che magari non ha diritto piuttosto che respingere un migrante che una volta nel proprio paese rischia la vita».

Gli studi legali che seguono i casi dei migranti sembrano saperlo bene. Un avvocato ci racconta di aver seguito oltre 500 casi e di non aver mai incontrato qualcuno che fosse un vero rifugiato.

«Quelli che arrivano nella maggior parte dei casi sono migranti economici. Spesso le loro storie sono tutte uguali, lo stesso copione, per questo io dico subito di non raccontarmi bugie perché altrimenti non li posso aiutare.

A quel punto lavoriamo sui dettagli, si cerca di mettere in luce quegli aspetti che possono suggerire uno stato di reale pericolo e in alcuni casi, quando il migrante proviene da un Paese dove l’omosessualità è illegale, si può provare a percorrere questa strada come ho fatto recentemente con un ragazzo del Gambia.

L’ho mandato alle riunioni dell’Arcigay ed è andata bene». Il giudice infatti gli ha dato la protezione sussidiaria. Per gli avvocati che lavorano nella forma del gratuito patrocinio, la parcella si aggira in media attorno ai 1000 euro ma solo nella Capitale ci sono studi che seguono anche centinaia di casi.

Alla richiesta di delucidazioni in merito l’Arcigay non ha voluto rilasciare nessuna dichiarazione.Quando però ci siamo recati allo sportello, uno dei responsabili ci ha spiegato che «la tessera dell’Arcigay non certifica che una persona è Lgbt e che se i Tribunali dovessero invece considerarla come “prova” è un problema dei giudici».

Quanti siano i migranti che fanno domanda di asilo sulla base della propria omosessualità è difficile saperlo.

Nè il Ministero dell’Interno né quello della Giustizia raccolgono dati sui motivi per cui le persone presentano rispettivamente domanda di protezione o ricorso. Qualche dato però lo suggerisce Open Migration.

Secondo la piattaforma di organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti civili i richiedenti asilo che ogni anno presentano domanda di protezione in Europa dichiarando di scappare da persecuzioni a causa del proprio orientamento sessuale e/o identità di genere sono almeno 10mila.

Perché la Silicon Valley è nata in California? Una storica spiega nascita, ascesa e declino (?) della capitale mondiale del tech

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Mary Meisenzahl

  • La Silicon Valley è stata il fulcro dell’innovazione tecnologica del secolo scorso.
  • La crescita delle regione è strettamente legata alla crescita graduale durante la Seconda Guerra Mondiale e agli investimenti federali.
  • Avvenimenti recenti come l’udienza al Congresso degli Stati Uniti di Mark Zuckerberg e i piani di Elizabeth Warren per i colossi informatici potrebbero inaugurare una nuova epoca nella storia della Silicon Valley.

Spesso le persone pensano alle imprese della Silicon Valley come a un settore spuntato in maniera indipendente che vuole meno regole, ma la storica Jeannette Estruth, professoressa associata alla cattedra di storia al Bard College ci ricorda come, da un certo punto di vista, la Silicon Valley sia unprogetto statale e federale.

“Le sue radici sono assolutamente intrecciate al governo“, ha detto, in particolare agli sforzi bellici del XX secolo. Ha indicato gli investimenti federali nelle università della Bay Area durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale e lo stretto legame della loro crescita con la guerra.

La ricerca e la produzione di sapere provocati dalla guerra hanno reso possibile la crescita esplosiva.

“Le persone non pensano alle infrastrutture“, ha detto Estruth, sottolineando l’importanza del boom immobiliare successivo alla guerra e, più avanti, l’espansione dell’aeroporto di San Jose per la storia della Silicon Valley.

Adesso, con l’udienza al Congresso dell’AD di Facebook Mark Zuckerberg e il progetto della candidata alle primarie democratiche Elizabeth Warren di smembrare i colossi informatici, Estruth ritiene che potremmo entrare in una nuova epoca di maggiore responsabilizzazione e vigilanza nella Silicon Valley.

Da’ un’occhiata ai sei momenti inattesi che secondo Estruth hanno plasmato l’odierna Silicon Valley:

  1. La moderna Silicon Valley si è sviluppata in seguito all’aumento delle infrastrutture coincidenti con la Seconda Guerra Mondiale.

Un bombardiere della Seconda Guerra Mondiale B-25 in costruzione a Inglewood, California. Photo by Alfred T. Palmer/Getty Images
Secondo Estruth, durante la Seconda Guerra Mondiale e negli anni seguenti è cresciuta rapidamente la classica ricerca universitaria tipica della Guerra Fredda. La Stanford University e la UC Berkeley divennero parte della creazione di conoscenza nel settore geografico, delle armi chimiche, della sorveglianza e del calcolo.


Pannello di controllo di un acceleratore lineare. Photo by Nat Farbman/The LIFE Picture Collection via Getty Images
Con la presenza statunitense nel teatro bellico del Pacifico, la costa ovest diventò un importante centro per la cantieristica navale, il trasporto di truppe, di materiali e di cibo.

Persone, soldi e risorse circolavano nell’aerea e negli spazi universitari, preparando il terreno per un boom tecnologico. Persone da altre parti della nazione venivano nella Bay Area in cerca di lavoro o per andare a combattere in Asia, e alcuni di loro videro un luogo in cui volevano stabilirsi in futuro.

Dopo la guerra, la persone restarono o venivano a vivere nell’area e si verificò un boom edilizio.


Sviluppo edilizio a San Jose, California Joe Munroe/Hulton Archive/Getty Images
2. Dopo la guerra, Stanford attraversò una crisi di bilancio. Leland Stanford Jr. aveva messo in un fondo fiduciario tutti i terreni dell’università attorno a Palo Alto, che non poterono quindi essere venduti.

Photo by Jamila Mimouni/Sygma/Sygma via Getty Images
Però, la terra poté essere affittata e l’amministrazione vide l’opportunità di guadagnare affittando terreni universitari, spesso ai laureati che fondavano imprese o laboratori. Ciò ha portato all’attuale densità di compagnie tecnologiche attorno a Stanford.


Laboratori di fisica alla Stanford University Photo by Lee Balterman/The LIFE Picture Collection via Getty Images
L’espansione dell’aeroporto di San Jose negli anni ’80 ha permesso la nascita della moderna Silicon Valley. I timori che il Giappone superasse gli Stati Uniti nella competizione rese cruciale la realizzazione di legami commerciali, avviando il collegamento tra Asia e Silicon Valley.

Aeroporto di San Jose Photo by Joe Amon/The Denver Post via Getty Images
Un aeroporto precedentemente adatto a piccoli vettori regionali poteva ora accogliere jumbo provenienti dall’Asia, permettendo un maggiore scambio di visitatori, conoscenza e investimenti.


Lucy Nicholson/Reuters
Estruth ha evidenziato questo momento come il primo momento in cui San Jose si è assunta veramente la responsabilità per il benessere del settore tecnologico, al quale si sarebbe intimamente legato.


Getty Images
4. Nel 1957, gli “otto traditori” lasciarono il laboratorio della Shockley Semiconductor per formare la propria compagnia, Fairchild Semiconductor, che diventò leader del settore e incubatrice di altre compagnie.

Wikimedia Commons
Gli 8 erano, direttamente e indirettamente, coinvolti in una serie di importanti compagnie informatiche, come Intel e AMD, che divennero note come “Fairchildren”. Estruth ha citato questo come il momento in cui una nuova generazione più imprenditoriale iniziò a prendere il controllo della Silicon Valley.


Photo by Jon Brenneis/The LIFE Images Collection via Getty Images/Getty Images
5. La testimonianza al Congresso dell’AD di Facebook Mark Zuckerberg ha segnato una nuova era di responsabilizzazione. È stato interrogato a proposito dell’interferenza russa nelle elezioni USA e dell’accesso ai dati degli utenti da parte di Cambridge Analytica.

Aaron P. Bernstein/Reuters
Estruth ha detto di essere rimasta sorpresa dal fatto che ci sia stata l’audizione, e che questo potrebbe essere il segnale di un nuovo periodo di vigilanza per big tech.


AP Photo/J. Scott Applewhite
Le proposte di Elizabeth Warren per lo scorporamento dei colossi informatici potrebbero segnalare una nuova epoca per la Silicon Valley, con vigilanza e regolazione maggiori.

Sergio Flores/Getty Images

Bologna, la denuncia del sindacato: cani poliziotto tenuti in condizioni preoccupanti

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Il Siulp: «Non è giusto che vengano osannati per i loro eroismi e poi tenuti così»

Emergenza per i cani poliziotto che vengono ospitati nella caserma Prudentino di via della Grazia. A lanciare l’allarme sono i sindacati di polizia, preoccupati per le condizioni nelle quali sono costretti a vivere i 10 cani dell’Unità cinofila di Bologna, spesso impegnati anche fuori regione in operazioni anti droga o alla ricerca di esplosivi.

A preoccupare il Siulp e il Sap sono gli ambienti “fatiscenti” nei quali i cani vengono tenuti e dove i disagi non mancano in particolare in inverno con temperature rigide a causa della mancanza di riscaldamento.


La lettera del Siulp
Il Siulp ha affrontato il tema recentemente, incontrando i dirigenti della Questura per segnalare il problema, in realtà noto perché già in passato la caserma Prudentino era finita sotto i riflettori per la necessità di interventi strutturali.

“Non troviamo giusto che i nostri colleghi a quattro zampe, spesso osannati quando collaborano in importanti operazioni non abbiano un luogo idoneo dove riposare e passare il loro tempo commenta Amedeo Landino, segretario del Siulp Bologna.

Abbiamo scritto e incontrato il dirigente dell’Upgsp e abbiamo mandato una lettera al Provveditorato interregionale per le opere pubbliche di Lombardia e Emilia-Romagna. Servono i riscaldamenti e gli spazi idonei anche per gli operatori”.
La richiesta di un investimento
Il Provveditorato ha subito risposto spiegando che l’intervento dal costo di 135mila euro è stato approvato e dovrà essere inserito nel piano generale degli interventi di manutenzione, che però è di competenza del Demanio: oltre al rifacimento dei box è prevista la realizzazione del pavimento riscaldato e anti gelo.

«Troviamo assurdo dover vivere una situazione per la quale sarebbe necessario l’intervento dell’Enpa sottolinea Tonino Guglielmi, segretario Sap Bologna.

E questo nonostante il grande impegno dei colleghi che provano a trattare al meglio i nostri animali e che non hanno nemmeno gli spazi idonei per le esercitazioni.

Parliamo di 7 cani anti esplosivi e 3 anti droga». Una situazione - aggiunge Guglielmi - segnalata più volte e nella quale c’è anche la richiesta di mezzi e uomini.

Contanti, dal bollo alle multe se è lo Stato a non farti pagare con la carta

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di Corinna De Cesare

Contanti, dal bollo alle multe se è lo Stato a non farti pagare con la carta

Avete mai provato a pagare il bollo per il passaporto con bancomat o carta di credito? Oppure il bollo auto all’Aci usando gli stessi strumenti di pagamento? In caso affermativo, sapete già che in un caso è impossibile e nell’altro sarete costretti a pagare un importo maggiorato.

Una modalità vietata, in teoria, in base all’art. 62 del Codice del Consumo, in vigore dal 13 giugno 2014: i professionisti infatti non possono imporre ai consumatori spese per l’uso di strumenti di pagamento.

E questo vale sia per gli acquisti online che per i negozi. Eppure succede.

Proprio in Italia, dove lo Stato da un lato spinge per disincentivare l’utilizzo del contante promettendo bonus della Befana, dall’altro lato invece non sa (o preferisce non sapere) che in certi casi è impossibile o sconveniente pagare con carte di credito persino alcune tasse.

«Chi, dal 14 giugno 2014 a oggi, ha pagato il bollo auto tramite Aci (l’Automobil Club d’Italia) — spiega Anna Vizzari, economista di Altroconsumo, esperta di banche e credito, si è visto aggiungere una commissione per il solo fatto che ha utilizzato una carta di credito o un bancomat per pagare.

Abbiamo ritenuto illecita questa pratica e l’abbiamo segnalata all’Antitrust e infatti il Garante aveva sanzionato Aci con 3 milioni di multa.

Poi il Tar ha confermato la sanzione (dopo il ricorso di Aci), ma Aci ha fatto nuovo ricorso al Consiglio di Stato e ha vinto perché, sostiene la sentenza, non è una commissione ma un sovrapprezzo per una opportunità aggiuntiva offerta agli automobilisti.

È abbastanza bizzarro visto che aggiunge Vizzari  da un lato dobbiamo premiare i consumatori che utilizzano i pagamenti digitali e dall’altro è proprio lo Stato a penalizzarli. La maggior parte delle misure previste dal disegno di legge di Bilancio per disincentivare l’uso contante produrrà i suoi effetti solo nella seconda metà dell’anno.

Ma anche dopo, continueranno a restare in vigore anomalie di un Paese, l’Italia, che non a caso è tra gli ultimi in Europa per l’uso della moneta elettronica. Perché gli italiani saranno pure affezionati alle banconote, ma se devono essere penalizzati quando scelgono di pagare con le carte, ovviamente preferiscono non usarle.

«Succede anche con Pago Pa aggiunge Vizzari quando si paga la mensa scolastica, le rette, il trasporto pubblico dei bambini, anche lì c’è una spesa legata all’uso della carta di credito che dipende dalla società che eroga il servizio e che può arrivare fino a due euro in più».

Al massimo, se si sceglie di pagare online, la commissione viene ribassata. All’ufficio postale ad esempio il pagamento del bollettino PagoPA può arrivare a costare 1,50 euro o 1,99 euro per le multe (per chi ha più di 70 anni, rispettivamente 0,70 euro o 0,99 per le multe).

Per il pagamento online il costo è di 1 euro (1,49 per le multe) ma Sisal, Lottomatica, Banca 5 fanno pagare 2 euro. Gli enti pubblici sono obbligati per legge ad aderire al sistema PagoPA: attualmente sono oltre 19mila quelli coinvolti.

Attraverso PagoPA si pagano tributi, tasse, multe, utenze, rette, quote associative, bolli e qualsiasi altro tipo di versamento alle pubbliche amministrazioni centrali e locali, ma anche ad altri soggetti, come le aziende a partecipazione pubblica, le scuole, le università e le Asl.

Che spinta darebbe ai pagamenti digitali se su PagoPA fossero azzerate le commissioni?Altro caso quello dei bolli per il passaporto: se andate dal tabaccaio a comprare il contrassegno amministrativo costo 73,50 euro vi risponderanno che si paga solo in contanti.

Perché l’obbligo di far effettuare pagamenti con Pos c’è, ma è solo sulla carta. Tanto più se in caso di pagamento con il bancomat i tabaccai vedono erodersi il margine che spetta loro sull’operazione di oltre il 55 per cento.

«Anche di più precisa il presidente della Federazione italiana dei tabaccai Giorgio Pastorino noi in questo caso facciamo un’operazione per conto dello Stato, perché dobbiamo pagare delle commissioni? Stessa cosa per i bollettini postali, il consumatore paga 2 euro in più e noi incassiamo 1,20 euro lordi.

Se ci dobbiamo pagare pure la commissione per il Pos, quanto ci guadagniamo?». Ecco spiegato perché, mentre in Svezia nei negozi e negli uffici pubblici sono sempre più diffusi cartelli e avvisi con su scritto «No cash», da noi continuano a dirci «No card».

Decreto rider: subordinazione o autonomia? Ecco cosa ne pensano due ciclofattorini

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di Riccardo AntoniuccI
Punti di vista contrapposti
Entrambi si guadagnano da vivere facendo consegne in città con bicicletta e smartphone. Ma su cosa sia il loro lavoro e, soprattutto, su come dovrebbe essere hanno opinioni opposte. Ora il Parlamento sta per introdurre norme certe e uguali per tutti sul lavoro dei ciclofattorini.

Voluto dall’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio durante il governo Conte «uno», quando i Cinque Stelle governavano con la Lega, il «decreto rider» (parte del Dlgs 101 cosiddetto «salva imprese») è in via di conversione sotto un altro governo Conte, un altro ministro del Lavoro (Nunzia Catalfo, Cinque Stelle) e un’altra maggioranza (con il PD).

Palazzo Madama ha approvato mercoledì 23 con voto di fiducia il maxi-emendamento che estende il regime della parasubordinazione ai rider che superano la soglia dei 5000 euro, fissando un anno di tempo per stipulare un contratto collettivo nazionale. Ora passa alla Camera, che deve approvarlo entro il 3 novembre.

Ma cosa ne pensano i rider? In queste schede rendiamo conto dei diversi punti di vista, attraverso interviste ad altrettanti rider. Nicolò Montesi ha 22 anni e vive e lavora da ciclofattorino per Glovo a Roma, zona Trionfale-Montemario rappresenta i cosiddetti «rider flessibili» contrari all’introduzione della subordinazione.

Lorenzo Righi, che fa consegne per Deliveroo a Bologna per mantenersi mentre studia, è parte della Riders Union, organizzazione che chiede il riconoscimento della qualifica dipendente per i ciclofattorini e ha organizzato diversi scioperi dell’app.



Quanto e come lavori? Quanto guadagni?
Nicolò Montesi: Mediamente 10 ore al giorno sei giorni a settimana, ma l’ho scelto io. Il mio turno va dalle 12 alle 16 e poi dalle 19 all’una di notte e arrivo a 2500 euro al mese lordi circa, a volte di più.
Dieci ore non sono troppe?

No, perché non si tratta di stare il 100% del tempo sopra a un motorino o a una bici. Posso fermarmi quando voglio, fumarmi una sigaretta o mangiarmi un panino e nessuno mi dice nulla. Se voglio staccare prima posso farlo, cancello l’ora che non mi va di fare.

Nicolò Montesi, ciclofattorino di Glovo a Roma
(in foto: Nicolò Montesi, ciclofattorino di Glovo a Roma )

Lorenzo Righi: Prima di iniziare un altro lavoro part-time in nero facevo 20-30 ore a settimana. Adesso ne faccio la metà: 10-15 ore. Non voglio aprire la partita iva quindi devo rimanere sotto la soglia dei 5000 euro all’anno, perciò non faccio più di tre o 400 euro al mese.
 
Ci sono tuoi colleghi che dicono di guadagnare molto di più, anche due-tremila euro...Quelli sono i rider usciti dal cappello delle aziende. Parlano di lordo, innanzitutto, mai di netto. Poi, in bici riesci a fare una consegna all’ora, massimo due…

Chi fa cifre più alte in media ha una partita IVA e lavora in motorino. E quando cominci a calcolare trattenute e costo della benzina i guadagni scendono di molto.

Perché hai scelto questo lavoro?
Nicolò Montesi:Per decisione non studio, ma c’è chi studia e fa il rider. Si può lavorare per poche ore e poi interrompere e riprendere. Questo lavoro può essere un trampolino per altre cose o un paracadute se non hai altro da fare, dipende dalle persone e dall’età.

Ti forma caratterialmente, ti insegna a trattare con le persone. Io ero un tipo abbastanza difficile e ho imparato la calma . E in tema di prospettive? È come fare il tassista: non è che ti porta a fare altro, a parte continuare a farlo finché ne hai voglia.

Un ex collega è stato assunto come manager a Glovo, altri che conosco sui 30 anni si sono aperti una pizzeria o un bar dopo aver lavorato per 3 anni a 10 ore al giorno 6 giorni a settimana.

Ovviamente non penso che lo farò per sempre, ma se non dovessi trovare altro non sarebbe un problema continuare. E la pensione? Se voglio mi apro un fondo pensionistico privato.

Lorenzo Righi, ciclofattorino Deliveroo a Bologna
(in foto: Lorenzo Righi, ciclofattorino Deliveroo a Bologna)

Lorenzo Righi: Finora per guadagnarmi da vivere mentre facevo l’università. Mi sono laureato a luglio e ho trovato un altro lavoro. Non è una cosa che conto di fare per i prossimi 10 anni, però ci sono anche persone a cui va bene. È soprattutto per loro che bisogna chiedere il massimo dei diritti.

Per me, che sono italiano, si tratta solo di trovare un altro «lavoretto», meno al nero possibile, ma ci sono lavoratori stranieri per cui il contratto è cruciale per restare in Italia in regola.

Nicolò Montesi: è una sconfitta per tutti, perché non accontenta né noi né i rider che vogliono la subordinazione totale. Noi chiediamo una paga oraria non prevalente sul cottimo.

Una cosa che assomigli al modello Deliveroo, per cui se in un’ora non ricevi nessun ordine ti vengono comunque riconosciuti 7,50€ lordi.

Vogliamo un’assicurazione migliore, ma non con l’Inail, perché con il fatto che puoi annullare le ore prenotate sull’app è difficile calcolare le ore effettive e la piattaforme mi assicurerebbe per più ore del lavorato. Pensiamo sia meglio sottoscrivere un’assicurazione privata.



Lorenzo Righi: Nella legge ci sono aspetti positivi, ma anche criticità. Il doppio binario tra rider occasionali e rider che fanno questo lavoro in modo continuativo rischia di rendere le norme inefficaci.

Infatti, senza la tutela dal licenziamento senza giusta causa a chi supera la soglia dei 5000 euro annui le aziende potranno sempre dire che o aprono la partita iva o finiscono di collaborare.

Non deve passare il principio per cui siamo in ogni modo sempre sostituibili: uno che lavora 30 o 40 ore a settimana per un’azienda non può essere scaricato da un momento all’altro. Con le norme attuali non ci sono strumenti per ricorrere contro queste decisioni.

Perché sei contrario / favorevole a essere considerato un dipendente?
Nicolò Montesi: L’autonomia che abbiamo adesso ci consente di scegliere i nostri orari di lavoro. Posso decidere quanto lavorare e quanto guadagnare, rifiutare le consegne ritengo troppo scomode, a indirizzi lontani o che comunque non mi va di fare.

Con un contratto di subordinazione avremo un orario di lavoro definito e dovremo lavorare accettare tutti gli ordini che ci gira l’azienda, come dei dipendenti. Sarebbe questo il vero schiavismo, mentre adesso siamo liberi.

Ho lavorato da dipendente prima: facevo il cameriere per 8-900 euro coprendo molte più mansioni di quelle previste dal contratto, ho fatto il pony in nero per varie pizzerie. Adesso ho la partita iva e pago le tasse.



Lorenzo Righi: Questo continuo parlare di «collaborazione» è un modo di disconoscere il «lavoro» e il fatto che va tutelato. Il nostro movimento è partito proprio da qui: ci consideriamo dei dipendenti delle aziende, e vogliamo tutti i diritti dei dipendenti.

Come dicevo prima, attualmente il testo garantisce soltanto i diritti minimi tabellari dei parasubordinati, ma non si può causa contro un licenziamento e questo lascia campo libero alle aziende di farci fuori quando meglio credono.
Cosa pensi di un Contratto nazionale di settore per i rider?
Nicolò Montesi: L’idea è buona, ma il problema è che a quel tavolo vengono riconosciute solo le organizzazioni sindacali tradizionali, non noi che non abbiamo rappresentanza. E i sindacati tradizionali, come la Cgil, appoggiano chi chiede una subordinazione totale.



Lorenzo Righi: Su questo punto il problema è che non si capisce ancora chi potrà andare a sedersi al tavolo di contrattazione. Sarebbe gravissimo se alla fine della storia nell’accordo nazionale di settore non venissimo chiamati e ci fossero solo i confederali. A quel tavolo ci devono stare i rider.

Pensate di costituire un sindacato?
Nicolò Montesi: Se servirà sì: creeremo un sindacato a norma di legge e ci faremo sentire. Se al governo servono i numeri glieli daremo, perché la Cgil e gli altri hanno portato avanti misure sbagliate: hanno sentito solo la campana di chi chiede la subordinazione.



Lorenzo Righi: Per ora ci siamo sempre mossi insieme a soggetti composti da soli rider. Abbiamo partecipato a diversi tavoli dove erano presenti i confederali ma siamo un soggetto a parte, e Riders Union nello specifico è centrato su Bologna.

Non abbiamo ancora discusso di altre forme di organizzazione, ma non è escluso che lo faremo.

Quanti siete?
Nicolò Montesi: Noi contrari alla legge siamo la maggioranza e siamo anche molto arrabbiati. Qui a Roma sono in una chat di gruppo con 400 persone e un altro con 200 persone. Tutti contrari a questo decreto.



Lorenzo Righi: Dipende dai periodi, a Bologna siamo tra 40 e 50 persone, poi ci sono tutte le altre città. Ma contestiamo questo modo di ragionare sulla rappresentanza, perché in questo contesto lavorativo così mobile le «teste» non sono indice di rappresentatività.

Qui le persone lavorano magari per una mese e poi smettono, ma rimangono in chat. La vera rappresentatività della nostra iniziativa per noi sta nella capacità di mobilitare, di fare assemblee e scioperi che funzionano.

Non siamo come le associazioni sponsorizzate dalle aziende che dicono di rappresentare “i rider di tutta Italia”. Guardate chi siamo: noi siamo i rider che non ci stanno a questo regime di sfruttamento, ecco chi siamo.

Volete comprare un paio di Nike? Non fatelo su Amazon: «Ora puntiamo tutto sulle vendite dirette»

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di Massimiliano Jattoni Dall’Asén

Volete comprare un paio di Nike? Non fatelo su Amazon: «Ora puntiamo tutto sulle vendite dirette»

State per comprare un nuovo paio di scarpe da ginnastica Nike? Non fatelo su Amazon.

Il marchio ispirato alla celebre dea di Samotracia infatti non venderà più i suoi prodotti sulla piattaforma del colosso dell’e-commerce. L’accordo tra Nike e Amazon risale al 2017, quando il marchio di articoli sportivi aveva ottenuto rassicurazioni di controlli più stringenti sui prodotti contraffatti.

Ma l’assunzione come nuovo ceo dell’ex amministratore di eBay, John Donahoe, ha portato il brand a rivedere nettamente le sue strategie di vendita.

Così, anche Nike sceglie, come già altri «big» prima di lei, di abbandonare la piattaforma Amazon, dove i clienti si trovano a navigare sempre più in un catalogo online che affianca ai celebri marchi falsi grossolani.

«Nell’ambito della focalizzazione di Nike sull’innalzamento dell’esperienza dei consumatori attraverso relazioni più dirette e personali, abbiamo preso la decisione di chiudere il nostro attuale progetto pilota con Amazon», si legge in una nota diramata dalla società, che aggiunge:

«Continueremo a investire in partnership forti e distintive per Nike con altri rivenditori e piattaforme per servire alla perfezione i nostri consumatori a livello globale».

Nike ha fatto comunque sapere che continuerà a utilizzare Amazon Web Services, l’unità di cloud computing di Amazon, per alimentare le sue app e i servizi di Nike.com.

Alla notizia, le azioni della società hanno registrato un leggero rialzo dell’1% in apertura di scambi a Wall Street.

Palermo, chiusa la pizzeria della famiglia Impastato. «Irregolarità amministrative»

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di Salvo Toscano

Carini, il provvedimento nato da una segnalazione anonima. Il fratello di Peppino: «Riapriremo subito, non vorrei che dietro ci fosse qualcuno che ci vuole screditare»

Palermo, chiusa la pizzeria della famiglia Impastato. «Irregolarità amministrative»
Giovanni Impastato, fratello di Peppino Impastato nella pizzeria di Cinisi (foto 2010)

PALERMO Chiusa la pizzeria della famiglia Impastato. Il locale gestito dalla cognata e dal fratello del militante di Democrazia proletaria di Cinisi, ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978, è stato destinatario di un provvedimento emesso dal Suap

(sportello unico attività produttive) di Carini, a seguito di un esposto anonimo, a cui hanno fatto seguito i controlli di Polizia municipale di Carini, Guardia di Finanza, e Azienda sanitaria di Palermo.

Le contestazioni mosse sono diverse: licenze rilasciate dal Comune di Cinisi invece che da Carini, che ha competenza territoriale, carenze igienico-sanitarie, modifiche strutturali non autorizzate e presunte irregolarità sugli scontrini fiscali.

Una ex spia della CIA: “Ecco perché siamo addestrati a fermarci a ogni semaforo giallo”

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Ryan Pickrell


Amaryllis Fox. Courtesy photo
  • Insider ha recentemente ottenuto in anteprima una copia di “Life Undercover: Coming of Age in the CIA“, il nuovo libro della ex agente dei servizi segreti Amaryllis Fox.
  • In un’intervista, Fox ha parlato delle motivazioni dietro alla scrittura del libro, del suo addestramento, delle sue esperienze sul campo e anche di alcune strane abitudini che non l’hanno abbandonata.
  • Tra esse, oltre allo stare con le spalle al muro nei ristoranti e guardare ingressi e uscite, c’è quella di fermarsi a ogni semaforo giallo.

Dopo aver trascorso anni nella CIA combattendo per prevenire il terrorismo nucleare e altre catastrofi, semplicemente, alcune vecchie abitudini non ti abbandonano, dice l’ex spia Amaryllis Fox.

“Cerco un po’ di cambiare questi istinti”, ha detto recentemente a Insider Fox, ex agente del servizio clandestino della CIA e autrice del nuovo libro Life Undercover: Coming of Age in the CIA. “Ma penso che siano ormai entrate nel mio subconscio, almeno alcune di loro”.

Le spie della CIA imparano a padroneggiare abilità non solite delle persone normali, e queste restano attaccate.

Imparano a immergersi così tanto nella loro copertura che riescono a superare un test con la macchina della verità, a individuare il perfetto luogo di incontro abbastanza isolato da evitare occhi

e orecchie del nemico ma anche giustificabile in caso si venga scoperti, e a gestire chi li pedina,  che se capissero di essere stati scoperti potrebbero compromettere completamente un’operazione.

“Quando mi sposto, noto quale potrebbe essere un buon luogo per segnali e i per passaggi”, ha detto Fox a Insider, riferendosi rispettivamente a luoghi dove si potrebbe lasciare un segno che indica un messaggio e quelli dove effettuare discretamente uno scambio.

In due occasioni nella vita civile, ha detto, ha individuato quelli che sospettava essere segnali, di solito gesso o addirittura pastiglie antiacido, lasciate da altri ufficiali in quelli che secondo lei erano posti adatti.

“Ho ancora l’abitudine a notare luoghi adatti alle operazioni”, ha detto. “Penso che me la porterò con me per il resto della vita”. Fox ha anche detto che in un ristorante si sente maggiormente a proprio agio con le spalle al muro e che tende a prendere nota degli ingressi e delle uscite ovunque vada.

Ma c’è un’abitudine, ha detto, che fa ammattire un po’ suo marito: fermarsi a ogni semaforo giallo quando guida.
Cosa c’entrano i semafori gialli?

Fox. Courtesy photo/Jesse Stone
“Quando fai addestramento di controsorveglianza, una delle cose che ti viene insegnata è di non fare arrabbiare il tuo sorvegliante facendogli pensare che stai cercando di seminarlo“, ha detto Fox.

“Per cui, se il semaforo diventa giallo, ti fermi in modo che non abbia la sensazione che hai provato a seminarlo“, ha detto. Gestire un pedinatore non è come la maggior parte delle persone ha letto o visto nei thriller di spionaggio.

 “Niente potrebbe essere più lontano dalle realtà del modo in cui queste operazioni vengono mostrate in televisione o nei film, dove qualcuno salta su un treno e semina il pedinatore, o salta da un tetto all’altro con l’arma in pugno”, ha detto.

“Ciò attirerebbe un sacco di attenzione sull’agente, anche se in quell’occasione è riuscito a scappare, e la sua copertura salterebbe“, ha detto Fox a Insider. “Gran parte dell’addestramento include l’essere molto bravi a non attirare l’attenzione, essere sostanzialmente e semplicemente molto noiosi in modo da non farsi notare“.

Ha aggiunto che la maggior parte delle cose viste nei film di spionaggio come il minimizzare l’aspetto umano per esaltare quello paramilitare, o i ritratti imprecisi di personaggi femminili e dei loro importanti contributi a questo genere di lavoro sono estremamente sbagliate.

Descrivendo il proprio orgoglio nel vedere quattro donne ai vertici della CIA, ha detto, “Spero che i ritratti cinematografici che vedremo d’ora in poi riflettano maggiormente i contributi che le donne portano alla sicurezza nazionale”.

Spacciatori, contrabbandieri e usurai con il reddito di cittadinanza

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ilmattino.it
di Dario Sautto



Sono spacciatori, contrabbandieri e addirittura usurai, ma per il Fisco sono così poveri da meritarsi i sussidi economici. Si moltiplicano i casi di furbetti del reddito di cittadinanza anche tra persone arrestate, che gli investigatori scoprono ad «arrotondare» in maniera illegale il sussidio economico previsto per i meno abbienti.

L'ultimo caso arriva da Boscoreale, nel Napoletano. Venerdì sera, durante alcuni controlli antidroga, i carabinieri della stazione hanno seguito Francesco Colantuono, 58 anni, incensurato e ufficialmente disoccupato.

Il sospetto era che avesse avviato un giro di spaccio di droga in centro. In via Brancaccio il sospetto è diventato realtà: i carabinieri hanno documentato la vendita di una dose da sei grammi di marijuana a una cliente.

La donna è stata bloccata e perquisita: quella confezione appena scambiata con il 58enne era effettivamente droga. La successiva perquisizione dell'auto di Colantuono ha fatto scoprire oltre un chilo e mezzo di stupefacenti nascosti con sistemi quasi infallibili.

Un chilo e 350 grammi di marijuana erano nascosti in diverse bustine tra il cruscotto, il sedile passeggero e nel vano del cambio, tutti accessibili con alcuni congegni particolari; e sempre in auto, il 58enne nascondeva anche 202 grammi di hascisc.

Per Colantuono è scattato, ovviamente, l'arresto per detenzione e spaccio di stupefacenti e, dopo la convalida, per lui è stato disposto il trasferimento agli arresti domiciliari con il braccialetto.

Nel frattempo era scattato un ulteriore controllo, che ha permesso ai carabinieri di scoprire che Colantuono, disoccupato, aveva come unica entrata ufficiale il reddito di cittadinanza, per una cifra di circa 560 euro al mese, che andava ad integrare la disoccupazione. Ora l'assegno sarà sospeso.

Casi simili erano venuti fuori pochi giorni fa tra il Napoletano e il Salernitano, nel corso di un'operazione che ha sgominato una holding specializzata nel contrabbando di sigarette. Tra i dodici arrestati, in cinque percepivano il reddito di cittadinanza, che ovviamente è stato sospeso, come richiesto dalla guardia di finanza.

Si tratta di Vincenzo, Rosa e Anna Mellone, tre fratelli originari di Torre Annunziata e residenti a Poggiomarino, rispettivamente di 58, 65 e 54 anni; della 26enne Angelica Esposito, residente a Palma Campania e di Tommaso Vito, 74 anni, residente a Pagani.

Tutti arrestati per contrabbando di sigarette, si erano garantiti il sussidio tra i 200 e i 500 euro di integrazioni al reddito da dipendenti o pensionati perché quasi nullatenenti, disoccupati, pensionati minimi o con un lavoro precario.

Nel frattempo, però, ognuno aveva un suo compito preciso nel contrabbando: cìera chi organizzava l'import di sigarette proibite da Ucraina e Cina, chi le rivendeva al dettaglio, chi andava addirittura a ritirare gli incassi delle vendite facendo da cassiere.

Angelica Esposito, ad esempio, percepiva 205 euro di integrazione al reddito da dipendente part-time in una impresa di pulizie. In realtà, secondo gli investigatori, era una delle figure chiave dell'organizzazione, poiché si occupava di acquisti, vendite e trasporti, ma anche del ritiro degli incassi.

Per lei, assistita dall'avvocato Anna Fusco, potrebbe arrivare il beneficio degli arresti domiciliari perché ha una bimba molto piccola da accudire. Quattro casi simili negli ultimi mesi sono stati registrati anche ad Avellino e provincia, dove pusher ed estorsori incassavano contemporaneamente il reddito di cittadinanza e gli introiti illegali.

Ma l'episodio forse più eclatante arriva dal Vallo di Diano ed è stato scoperto dai carabinieri della compagnia di Sala Consilina. Il 40enne Nicola D'Amato, incensurato e sulla carta nullatenente, per il Fisco italiano era una persona povera, indigente, tanto da meritare il reddito di cittadinanza pieno.

D'Amato ogni mese incassava 700 euro di sussidio, ma nel frattempo un'occupazione (illegale) ce l'aveva: era l'usuraio del paese. Uno strozzino anche molto esigente, che fissava tassi insopportabili alle proprie vittime.

Un imprenditore, trovatosi alle strette, ha denunciato di essersi rivolto al 40enne per ottenere un prestito di mille euro, con gli interessi maturati in tre mesi che erano a dir poco terrificanti: 300%.

L'intervento dei carabinieri è avvenuto mentre la vittima consegnava una tranche del debito, circa 200 euro, per provare ad alleggerire la sua posizione: così sono scattate le manette per D'Amato.

I successivi controlli fiscali hanno restituito un quadro assurdo: il «povero» usuraio aveva una grande disponibilità di contanti, si era spogliato delle proprietà e incassava 700 euro al mese di reddito di cittadinanza.

Come negli altri casi, l'erogazione del sussidio è stata subito bloccata, anche se resta il dubbio di come il 40enne riuscisse contemporaneamente ad avere tanta disponibilità di soldi, pur essendo formalmente oltre la soglia di povertà.

Usa: assegnato a Microsoft contratto Cloud da 10 miliardi, battuta Amazon

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Il colosso dell’e-commerce di Jeff Bezos era in pole position per la maxi-commessa, ma nella valutazione finale ha avuto la meglio la società di Bill Gates

Usa: assegnato a Microsoft contratto Cloud da 10 miliardi, battuta Amazon

Il Pentagono assegna a Microsoft il contratto da 10 miliardi di dollari per il cloud. Una decisione che è uno schiaffo per Amazon, in pole position per conquistarlo fino a quando Donald Trump non ha iniziato pesantemente ad attaccare Jeff Bezos, il patron del colosso degli acquisti online.

La decisione del Pentagono segna il venerdì nero di Bezos fra la trimestrale deludente di Amazon e il calo dei titoli a Wall Street che lo ha impoverito e gli ha fatto temporaneamente perdere lo scettro di Paperone del mondo. Amazon si dice «sorpresa» dalla decisione del Pentagono.

E dietro le quinte, secondo indiscrezioni, ha già iniziato a valutare le opzioni a sua disposizione. Fra queste una possibile azione in cui non è escluso possano essere paventate eventuali interferenze di Trump.
I rapporti con il presidente
L’antipatia del presidente verso Bezos e il Washington Post, d’altra parte, è nota: il quotidiano è spesso chiamato dal tycoon l«Amazon Washington Post».

E come se non bastasse Trump ha ordinato alle agenzie federali di cancellare gli abbonamenti al Washington Post e al New York Times, i `due nemici´ della Casa Bianca. Secondo un ex del Dipartimento della Difesa, Trump da tempo voleva «fregare» Amazon e assegnare il contratto Jedi, il Joint Enterprise Defense Infrastructure, a un’altra società.

Un’accusa - contenuta in un libro in uscita la prossima settimana - che se si rivelasse vera creerebbe non pochi problemi al Pentagono e alla Casa Bianca, già accusata di usare i ministeri per portare avanti battaglie personali di Trump contro i suoi presunti nemici.

Di sicuro i ripetuti attacchi di Trump contro Bezos e Amazon non smorzano i timori che il presidente sia intervenuto sul Pentagono e abbia indicato chi scegliere, approfittando anche della presa di distanza dal contratto del ministro della Difesa Mark Esper.

Nei giorni scorsi infatti Esper ha annunciato che si sarebbe sfilato dal processo di assegnazione del contratto visto che suo figlio è dipendente di una delle società che avevano presentato un’offerta. Per Trump rischia di aprirsi quindi un altro fronte difficile.

Avete mai sognato di far ‘sputare’ soldi a ripetizione al Bancomat? Ora un malware sta facendo proprio questo, in tutto il mondo

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Martina Oliva


Sportello Bancomat in Grecia. Vladimir Rys/Getty Images

Parliamoci chiaro, avere un bancomat che sputa banconote all’impazzata, senza aver immesso alcuna carta nel lettore apposito e senza dover digitare alcun PIN, è il sogno di molti (se non addirittura di tutti).

Eppure questa “visione onirica” non è poi così lontana da quanto si sta effettivamente verificando nel corso delle ultime settimane in più parti del globo.

La colpa è tutta di un malware chiamato Cutulet Maker, che in lingua inglese sta ad indicare chi cucina cotolette (cosa che ha ben poco a che fare con la vicenda).

In russo, però, la pronuncia di “cutulet” è assonante a “katleta”, che nello slang locale significa “mazzetta di banconote”: ecco quindi spiegata l’etimologia del nome.

Il malware aveva già fatto la sua comparsa sulla scena nel 2017, in Germania, ma stando a quanto emerso da una recente indagine condotta da Motherboard e Bayerisher Rundfunk (Br), sembra essere ritornato alla carica, in special modo al di fuori dell’Europa, negli Stati Uniti, in America Latina e nel Sud-Est asiatico, per essere precisi.

Per diffondere il virus, ai malintenzionati basta rimuovere il pannello dello sportello ATM e collegare al computer che si cela dietro la macchina una chiavetta USB sulla quale viene caricato il virus, che, tra le altre cose, può essere comperato online senza particolari difficoltà, alla modifica cifra di circa 1.000 dollari.

Considerando che nella maggior parte dei casi i terminali utilizzati dalle banche a mo’ di sportello ATM risultano vecchi di anni ed equipaggiati non con software realizzati ad hoc dai produttori dei dispositivi ma con un sistema operativo basato su una versione di Windows che non riceve update

dal rilascio della macchina, gli hacker possono trovare relativamente semplice l’accesso a varie ed eventuali falle, con conseguenze più o meno funeste, come quella di rilasciare denaro in maniera randomica e non dovuta.

Ovviamente, la sicurezza e gli aggiornamenti dei dispositivi usati per gli sportelli ATM sono nelle mani delle banche, le quali dovrebbero lavorare per tenerli costantemente aggiornati e, cosa non meno importante, per rendere inaccessibili le porte USB disponibili.

Purtroppo queste precauzioni non vengono messe in atto in tutto il mondo e, soprattutto, non da parte di tutti gli istituti.

Da notare, comunque, che sebbene i primi casi di attacchi del malware agli ATM siano stati registrati, come detto, a partire dal 2017, è già da diversi anni prima che sulla piazza ci sono minacce informatiche capaci di agire in maniera simile.

Ad esempio, in occasione della Black Hat Cybersecurity Conference del 2010 il ricercatore Barnaby Jack mostrò sul palco il funzionamento di un virus capace di far emettere soldi ad uno sportello bancomat facendo inoltre comparire sullo schermo della macchina la scritta “Jackpot”.

La lezione (dimenticata) del grande crollo della Borsa di New York

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di Daniele Manca

Il 29 ottobre del 1929, nel «martedì nero», il sogno di facili e veloci ricchezze grazie alla finanza si trasforma nell’incubo della depressione per l’America e l’Occidente. Dal 1929 al 1931 chiuderanno 4.300 istituti di credito, diventeranno 9 mila due anni dopo

La lezione (dimenticata) del grande crollo della Borsa di New York

Il 29 ottobre del 1929 è un martedì. Raramente per eventi che rimangono scolpiti nella storia dell’umanità si fa riferimento al giorno della settimana.

Ma quella che rimarrà per sempre la mattina nella quale la florida America si risveglia impaurita e impoverita, il 29 ottobre del 1929, sarà, per gli storici e per le persone comuni, il martedì nero. La Borsa crolla dell’ 11,73%.

Dal 1929 al 1931 chiuderanno 4.300 istituti di credito, diventeranno 9 mila due anni dopo. I prezzi agricoli crolleranno del 40%. I disoccupati saliranno a 12 milioni negli Stati Uniti, 6 in Germania, 3 in Gran Bretagna.

Quel crollo darà il via alla più grave crisi economica del secolo scorso nel mondo dei Paesi industrializzati. L’ombra della Grande depressione si allungherà per buona parte del decennio successivo. Ma cosa abbiamo imparato da quella crisi che ha segnato profondamente il mondo?
Il duro risveglio
Di sicuro il risveglio da quel sonno della ragione che prende le folle quando credono di aver trovato una strada semplice per facili guadagni, sarà molto duro.

 E non avverrà in quel 29 ottobre di 90 anni fa che è rimasto nella mente di tutti noi. Qualche giorno prima, alla Borsa di New York c’era stata ben più di un’avvisaglia. La più forte il giovedì precedente, in quel 24 ottobre che sarà solo il primo di una lunga serie a tingersi di nero.

La giornata era iniziata in una strana calma. «Ma alle 11,30», racconta un cronista di eccezione, l’economista John Kenneth Galbraith nel suo Il Grande Crollo, «il mercato era in preda a una cieca paura implacabile. Era, in verità, in preda al panico.

Si poteva udire fuori dell’Exchange in Broad Street un vocio sinistro. C’era folla. Il commissario di polizia Grover Whalen si rese conto che stava succedendo qualcosa e inviò uno speciale reparto di poliziotti a Wall Street per assicurare l’ordine.

Si ammucchiò più gente ad aspettare, benché evidentemente nessuno sapesse bene che cosa fare. Sul tetto di uno degli alti edifici comparve un operaio, che doveva effettuare alcune riparazioni, e subito la folla suppose che si trattasse di un suicida e si mise ad aspettare con impazienza che si buttasse giù.

Si formarono capannelli di persone intorno agli uffici delle commissionarie di borsa in tutta la città, in tutto il Paese...».
Le urla, la disperazione, i suicidi
Come spesso accade in questi casi le voci più terribili, informazioni senza possibilità di essere verificate, circolano tra le centinaia di risparmiatori e investitori. Qualcuno parla di una decina di suicidi avvenuti nella notte.

Le cronache dell’epoca riportate dal Corriere della Sera raccontano di agenti di Borsa che uscivano dai cancelli urlando e disperandosi.

Le telescriventi che l’anno prima, nel 1928, erano state cambiate con altre più veloci capaci di 500 caratteri al minuto, due volte quelle precedenti, e che erano state acquistate per stare al passo con i rapidi guadagni e le altrettanto veloci nuove ricchezze, registrano in tempo quasi reale ilcrollo dei prezzi.

Il Dow Jones a fine giornata scende a 229,5 punti: il 22% in meno del record stabilito solo meno di un paio di mesi prima, il 3 settembre 1929, quando Wall Street aveva fermato la sua corsa a quota 386,1 punti.

Ma la caduta avrebbe potuto essere ben più pesante se il capo della Citibank Charles Edwin Mitchell detto «Sunshine Charlie» non avesse fatto sapere che un gruppo di banchieri a mezzogiorno si sarebbe riunito. La notizia riuscì a invertire la tendenza. Ma il sogno questa volta durò soltanto 96 ore.
«Era prevedibile»
Come scrive il Corriere della Sera in prima pagina il 31 ottobre del 1929, 48 ore dopo il crollo, «il tramonto di questa grande follia collettiva che è stata la corsa alla fortuna nella Borsa di Nuova York, era prevedibile ed era previsto». Perché?

In poche righe si descriveva quello che il 29 ottobre era accaduto: la completa scissione tra i valori delle azioni in Borsa e il valore delle società che le avevano emesse. Le statistiche americane ci offrono la storia in cifre di questo periodo di vertigine.

Nel 1923 il numero delle azioni negoziate nella Borsa di New York è di 237 milioni; la cifra sale a 280 nel 1924; a 452 nel 1925; a 449 nel 1926; a 577 nel 1927; a 920 milioni nel 1928.

Nei primi nove mesi del 1929 il numero delle azioni negoziate ha raggiunto gli 827 milioni, in confronto di 613 milioni nell’eguale periodo dell’anno precedente.
Il meccanismo
Dietro questi numeri c’era però un meccanismo semplicissimo. Come si era arrivati a quei 20 milioni di americani che possedevano azioni? Attraverso la possibilità di comprare titoli senza versare l’intero valore ma anticipando un magro 10 per cento. Con 10 dollari potevi comprare azioni per 100.

E depositando quelle azioni in garanzia potevi ottener prestiti con i quali comprare altre azioni. Tra il 1923 e il 1929 i prestiti a brevissimo termine, quelli che speculatori scaltri e risparmiatori poco accorti usavano per le incursioni in Borsa, aumentarono di cinque volte.

E tutto questo nel silenzio pressoché complice di banchieri, autorità e anche politici che si godevano un’euforia che sembrava aver contagiato tutti.

Lo stesso presidente Herbert Hoover eletto sul finire del 1928 dichiarava contento che «con la garanzia della pace, che durerà ancora per molti anni, il mondo si trova alla vigilia di una grande espansione commerciale». Non andò così.
I motivi di debolezza
John Kenneth Galbraith nel suo Il Grande Crollo individua 5 incontrovertibili motivi di debolezza degli Stati Uniti:
- la cattiva distribuzione del reddito: pochi ricchi che possedevano tanto
 
- cattiva struttura societaria che permetteva incroci azionari e riutilizzo di risorse per pagare dividendi

- cattiva struttura bancaria: troppi e fragili istituti di credito

- uno stato della bilancia dei pagamenti americana che indeboliva l’export statunitense e spingeva invece le importazioni

- basso livello dell’informazione economica (la Harvard Economic Society fu chiusa dopo la sua insistenza nel predire la ripresa).

Le varie scuole di pensiero economico si dividono su quali furono le mosse sbagliate. L’eccesso di liberismo o l’eccesso di interventismo statale? Molto più semplicemente non c’è saggezza nella folla. Soprattutto quando pensa di poter guadagnare senza fare fatica.
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